martedì 6 gennaio 2015

FERRU ‘E CUAḌḌU.

FERRU ‘E CUAḌḌU.

di Salvatore Dedòla

 È un pane sardo formato appunto a ferro di cavallo. In tale foggia si coglie una funzione apotropaica; infatti, in Sardegna il ferro di cavallo viene appeso alla porta per difendere la casa dagli spiriti maligni. Simile uso apotropaico fu segnalato dal Pitrè anche in Sicilia. Ma nella denominazione riferita al pane sardo è possibile percepire una paronomasia, basata su un’arcaica espressione mediterranea non più compresa. Per capire l’intero problema, ci chiediamo perché il ferro di cavallo sia usato con funzioni apotropaiche. Nessuno lo ha mai spiegato. Qualcuno allude alle corna, anch’esse apotropaiche, ed alla forma similare del ferro di cavallo. Certamente. E se la questione sta in questi termini, a maggior ragione si può pensare che la simbologia apotropaica delle corna sia stata traslata al sintagma ferru ‘e cuaḍḍu riferito a un pane.

 da http://4fuochiblog.blogspot.it/


Frazer (Il ramo d’Oro 625) ricorda che l’Epifania è l’epilogo dei dodici giorni del Caput Anni durante i quali vari popoli europei scacciano le streghe e gli spiriti maligni. Ciò accade specialmente alla Dodicesima Notte, all’Epifania (non a caso la Befana è rappresentata come una strega), durante la quale sul lago di Lucerna i ragazzi girano in processione recando torce e facendo un gran baccano con corni, campane, fruste, ecc. per mettere in fuga due spiriti femminili del bosco, Strudeli e Strätteli. Per il resto, lo stesso Frazer non mette in evidenza la funzione del corno e del suo simile sardo-siculo, che è il ferro di cavallo. A me la questione appare semplice: le doppie corna del cranio del toro e, per imitazione, le doppie corna atteggiate con le dita della mano, rappresentarono nell’alta antichità il simbolo del Dio-Toro, ossia del Dio dell’Universo, di colui che sovrintende alla fertilità della terra. L’uso delle corna come “salvacondotto” c’è sempre stato, ed effigiarle sulla porta (od apporvi direttamente il bucranio) fu un diffusissimo uso sacro. Quelle corna ebbero nel passato la stessa funzione che ha oggi il Sacro Cuore o le varie statuette dei Santi cristiani posti sull’uscio o dentro casa. Chiaramente, la funzione di questi simboli sacri è apotropaica, serve ad allontanare il Male dalla casa, dalla famiglia.
Il ferro di cavallo è un prodotto seriore rispetto alle vere corna, arrivò con la metallurgia, e la sua vaga forma di corna lo destinò ad essere mutuato per la stessa funzione.
Da qui, non da altro, nacque la paronomasia che oggi porta ad accettare la denominazione di ferro di cavallo (in sardo ferru ‘e cuaḍḍu) come unico referente del doppio simbolo apotropaico (che in origine furono le doppie corna).
Ma vediamo dove s’annida la paronomasia. Il sintagma è certamente sardiano e pure sicano (quindi mediterraneo), ed è basato sull’accadico per’u(m) germoglio’ + ḫabālu(m) ‘legare’, col significato complessivo di ‘piantina per legare (per inibire le male azioni)’. In tal guisa, sembra di capire che in origine esisteva una piantina (oggi ignota, forse il vischio) deputata ad inibire gli spiriti maligni, e che questa denominazione col tempo sia passata tout court al ferro di cavallo.
A quanto pare, il pane così denominato ebbe anch’esso, la funzione apotropaica, e forse all’iniziò imitò questo ignoto virgulto, per poi adattarsi a rappresentare una vaga forma di ferro di cavallo.



domenica 4 gennaio 2015

Il Ciceòne

Il Ciceòne
di Salvatore Dedòla

 Si ritiene che i riti misterici abbiano fatto la loro apparizione in Grecia nell'età arcaica, forse tramite Cipro e Creta. Tali riti però erano già noti nelle civiltà del Vicino Oriente. Sin dal Neolitico l'uomo è stato avvezzo al sacerdote/sciamano quale figura essenziale per il ruolo d'intermediazione con le forze dell'ineffabile, e ciò spingeva lo sciamano a superare le barriere delle religioni ufficiali per tentare in qualche modo di ricomporre la scissione con Dio.
 Per l’antichità sono noti i misteri di Iside-Osiride, di Mitra, di Eleusi, di Samotracia, di Adone, di Attis-Cibele, ed i misteri Orfici. Quello di Mitra era l’unico mistero cruento, in quanto si sacrificava il toro, in ricordo del Toro primordiale. i Misteri greci erano di tutt'altro nerbo rispetto a quelli siro-fenici attecchiti in Sardegna. L'orfismo greco non solo ripudiava i sacrifici umani e persino quelli degli animali, ma tendeva ad elevare il livello della ricerca interiore, della rigenerazione spirituale dell'uomo, della fratellanza universale.
 L'appellativo greco mýstēs (μύστης) indica l'iniziato ai misteri; originariamente era il 'partecipante al rito notturno', onde mysticós (μυστικός) 'arcano', mystérion (μυστήριον) 'pratica segreta, dottrina segreta, cerimonia segreta'. La comune base etimologica è l'akk. mušītu (‘notte’, o meglio ‘tempo di notte’). La segretezza dei Misteri greci, al pari di quelli siro-fenici, fu mantenuta rigorosamente per tutta l'antichità; sappiamo soltanto che ad essi parteciparono uomini illustri come Pindaro, Aristofane, Euripide, Platone, Aristotele, Empedocle, Pausania, Cicerone, Elio Aristide, Marco Aurelio, Apuleio ed altri.
 Ma qual era la funzione storico-spirituale dei Misteri Eleusini nell'antichità greca?

 Essi venivano incontro ad un profondo bisogno psichico, a un forte desiderio spirituale. C'era bisogno d'integrare le due coscienze dell'uomo diviso, di mettere d'accordo la coscienza con la realtà. Misteri strettamente legati alla morte e alla resurrezione della Natura e dell’Uomo, rappresentata ideologicamente dalla morte e resurrezione di un Dio. Ogni popolo ebbe un proprio Dio che scendeva all'Inferno e poi resuscitava. La continuità e contiguità della tradizione mediterranea non sta solo qui, ma pure nella discesa agl'Inferi da vivi. Anche nell'antichità greca abbiamo superuomini e déi che scendono all'Ade e risalgono. Orfeo per la sposa Euridìce, Diòniso ci va a prelevare la madre Semele, Enea scende per parlare a suo padre. I Misteri di Eléusi erano intimamente legati ai festeggiamenti e alle celebrazioni in onore di Diòniso. Il padre Zeus aveva ceduto lo scettro a Diòniso ancora bambino, e lo aveva presentato come nuovo re. I Titani attirano Diòniso, lo uccidono e, fattolo in sette pezzi, lo cucinano e lo mangiano; solo il cuore si salva grazie a Pallade/Atena. Così nasce un nuovo Diòniso. Secondo Euripide, Diòniso è figlio della tebana Sèmele ed è presentato come straniero. Stranieri sono, in realtà, tutti quelli che nascevano a Tebe. Così lo fu il suo fondatore Cadmo, che proveniva dalla Fenicia. Ed in tal guisa arguiamo che i riti dionisiaci avevano una certa affinità con quelli del fenicio Adone. É lecito usare il termine orfismo come comoda semplificazione per indicare un insieme di miti e credenze, la ricerca di un certo tipo di vita, il divieto di sacrifici cruenti, la fede dell'anima custodita nel corpo per scontare le proprie colpe, la punizione dopo la morte per i profani, la beatitudine per gli iniziati.

da http://www.antika.it/005575_mitra-culto-in-epoca-romana.html


 Ogni anno migliaia di Greci andavano in processione verso il tempio segreto. Davanti al sacerdote, dopo lungo digiuno e lunghe purificazioni, agli iniziati veniva offerto il ciceòne (una bevanda sacra, che si dice basata sulla segale cornuta, un allucinogeno). «Le visioni che di lì a poco si presentavano ai loro sguardi erano di un'intensità e di una chiarezza straordinarie. Molte sono le testimonianze degli antichi che parlano di immagini divine e ineffabili, dove la morte e la vita acquistano un senso nuovo, circolare, ed il terrore svanisce in quell'estasi senza fine. Erano le stesse visioni dei sapienti, i padri dei filosofi» (Roberto Fedeli).
Ma voglio capire più a fondo cosa sia il ciceone. I Greci scrivevano κϋκεών e intendevano una miscela o bevanda di farina, cacio e vino, o anche miele (Iliade, 11,624); ma talora aggiungevano altre cose (Ippocrate, 390). Ovviamente gli indoeuropeisti affiancano il nome al verbo greco κυκάω ‘mescolo’ e lì si fermano, senza produrre l’etimo. Non sanno che il termine fu usato, con forma identica, anche in Giona 4, 6-7, dove lo si intese come Ricinus communis: kīkaiòn, קִיקָיוֹן. Dobbiamo supporre che l’olio di Ricino fosse conosciuto presso gli Ebrei quale ottimo purificante. E che la stessa conoscenza fosse estesa ai Greci. Anzi, dobbiamo credere che la miscela purificatrice del celebre ciceòne fosse più complessa, contenente pure una buona dose di olio di ricino, in virtù del quale il devoto si purificava al massimo e, praticando il digiuno durante la permanenza nel luogo sacro, si predisponeva al meglio per cogliere i momenti di alta spiritualità. In Sardegna il termine ebraico riuscì certamente ad imporsi. Ma dobbiamo ammettere che in seguito esso sia sparito, a causa del concorrere di fonetiche simili relative ad altri fitonimi che prevalsero.
Tra questi abbiamo Caccaòne, Càccao, diventato persino un toponimo del Supramonte di Baunéi, ma presente in altra forma anche nel territorio di Laconi (altopiano di Santa Sofia). Denota il 'biancospino' (Crataegus oxyacantha, var. monogyna). Caccaòne è anche il ‘picciolo, peduncolo di frutta e di foglia’, che sembra italianizzazione per cacchiòne. Pittau UNS 146 riporta anche il cognome sardo-medievale Cacabu, Cacau derivante dall'antroponimo lat. Cacca¬bus; ma questo a sua volta sembra oriundo dall'accadico, che è kakkabu 'stella'. Alla base di Caccaòne di Baunéi sta l'akk. qaqqadu, ebraico qōdqōd 'capo, vertice' (PSM 96) + sum. unu ‘sito’, col significato di ‘vertice, cima’, ‘sito della cima’. Su Caccaéddu in agro di Laconi significa invece ‘la cima sacra’, da ebr. qōdqōd + akk. ellu ‘sacro, santo’ (evidentemente c’era un tempio). Un altro lemma sardo caccaéḍḍu indica il ‘biancospino’ (vedi gall. caccaéḍḍu); secondo Paulis NPPS 366 ha tale nome «perché le foglie e i frutti sono usati per curare le diarree». Invece il fitonimo è un composto sardiano con base nell’akk. kakku (a small legume) + ellu(m) ‘pure, clear’ e simili, col significato di ‘legume ottimo’. È noto che i rossi frutti del biancospino si mangiano con piacere, e se ne fanno pure marmellate. Da qui il composto sardiano.

mercoledì 24 dicembre 2014

BONA PASCHIXEDDA! VIAGGIO ATTRAVERSO LE TRADIZIONI E I RITI DI NATALE IN SARDEGNA


presepe sardo
di Claudia Zedda
da http://tottusinpari.blog.tiscali.it/

E’ un calderone di tradizioni, vecchie, nuove, dimenticate e ritrovate, pagane e cristiane, familiari e dell’intera comunità. E’ il Natale, sa Paschixedda per dirla alla campidanese. Pur essendo oggi uno dei periodi più attesi di tutto l’anno, del Natale, di quello sardo per lo meno, si è scritto poco, quasi che poco ci fosse da dire, quasi che ieri non fosse la più importante festa dell’anno.  Eppure la tradizione natalizia si lega a diversi aspetti, siano essi gastronomici, familiari, religiosi o magici. Un puzzle dai colori tenui che pure merita d’essere ricomposto.
Il cibo. Le società tradizionali non conoscevano l’abbondanza che è delle tavole dei nostri giorni. La tavola veniva imbandita con una relativa generosità esclusivamente il 25, il giorno di Natale, mentre il 24 notte, sa nott’è xena, per quanto famiglia e vicinato si riunissero, il pasto era ben più frugale. Lo sfarzo si dimostrava invece nella confezione del pane e di alcuni dolciumi tipici del periodo. Pani speciali venivano preparati, decorati e regalati specie ai più giovani. Era raro che in questo periodo il dono dovesse essere richiesto, era invece più comune che i ragazzini ricevessero un dono spontaneo da parte degli adulti. In Ogliastra ad esempio veniva donato un bellissimo pane a forma di cuore, di giglio, di stella, di pesce o di uccello; addirittura si poteva ricevere un pane a forma di neonato, su accèddhu, il bambinello appunto. Il pane era lavorato minuziosamente, con una ossessiva dovizia di particolari, ad attestare l’importanza del periodo e della festa che si celebrava. Su accèddhu veniva raffigurato con tanto di capelli, sesso e cordoncino legato intorno alla vita, ad indicarne l’incredibile povertà. In Gallura invece si era soliti donare la franka e lu kubòni, la bambola ed il corvo , l’una alle bambine, l’altro ai maschietti. A Thiesi la sera della vigilia di Natale erano i bambini più poveri a chiedere, presso le case di chi stava meglio, del pane. Lo si faceva recitando una breve filastrocca, che augurava tutto il bene possibile a chi avesse donato il pane conosciuto con il nome di su bakkìddhu, che possedeva la caratteristica forma del bastone pastorale. Più spesso questo pane  veniva richiesto e donato durante i festeggiamenti del primo dell’anno e dell’Epifania. In località di Orotelli ad essere donato per Natale, a grandi e ragazzi era su pan ‘e paska, mentre ad Olmedo si confezionava un caratteristico presepe interamente realizzato con il pane. Dolci tipici del periodo erano invece le papassine, piccole pagnottine dolci  realizzate utilizzando farina, sapa, uva passa, noci, nocciole e mandorle
Il ceppo natalizio. Tradizione antichissima quella del ceppo natalizio, accomuna moltissimi paesi europei, probabilmente degradazione dell’uso dell’abete solstiziale, scomparsa fra le popolazioni italiane con la cristianizzazione e tornata in auge solamente agli esordi del novecento. Il ceppo doveva essere acceso la vigilia della notte di Natale e aveva lo scopo di scaldare il Bambin Gesù. Bruciava fino all’alba ma si doveva aver cura che non venisse consumato interamente dato che ogni giorno lo si doveva riaccendere fino almeno all’Epifania. La tradizione vuole che queste attenzioni avrebbero portato fortuna alla famiglia. Il discorso da farsi per la Sardegna è molto similare. Su troncu de xena o sa cotzina de xena accesa la notte della vigilia, doveva rimanere acceso per tutto il periodo festivo. Nella zona algherese si trattava di un tronco d’ulivo definito tu frone de nadal e dinanzi a questo si scaldava l’intera sacra famiglia. Esattamente come accadeva durante la Pasqua anche nei giorni che precedevano il Natale ci si occupava delle grandi pulizie della casa. Questa alla fine poteva essere decorata con rami d’ulivo, rametti di menta o di alloro. Quest’ultimo veniva usato per decorare oggetti custoditi negli armadi, sa skidonera ad esempio, un tipico telaio in legno con tanto di gancetti per essere appeso al muro.
Espressioni magiche e religiose. Il potere magico del solstizio d’inverno, tradizionalmente festeggiato il 21 di dicembre, immediatamente dopo la cristianizzazione si dovette obbligatoriamente traslare al 25 dicembre, data che nel 336 d.C. venne considerata convenzionalmente quella della nascita di Cristo. Ereditò dunque un bagaglio mistico davvero notevole che pare essere in parte sopravvissuto ancora nel ricordo e nelle tradizioni d’oggi. Conclusasi la cena della vigilia di norma la famiglia seduta intorno al fuoco si intratteneva con il gioco. Fra i più gettonati, specialmente nella zona del campidano c’era su barrallicu, una trottola a più facce sulle quali potevano essere incise quattro diverse lettere. Se la trottola fermandosi avesse indicato una T (tottu), il giocatore avrebbe preso tutto il piatto, ma poteva anche fermarsi su una M (mesu o mitadi) e in quel caso si sarebbe vinta la metà. La N invece indicava nudda, ossia nulla e la P era la casella più sfortunata dato che stava ad indicare poni, ossia metti. Ovviamente i giochi con i quali intrattenersi non finivano certo qui, eppure in molti al gioco preferivano il racconto interno al fuoco. Qualsiasi attività si fosse scelta, la si sarebbe interrotta molto velocemente in prossimità della mezzanotte, quando prendeva avvio samiss’è pudda, la messa del primo canto del gallo. Il nome è probabilmente di derivazione catalana dato che anche in Spagna si conosce la Missa del Gall, e ci si è convinti che faccia riferimento all’ora tarda (prossima al giorno) nella quale veniva celebrata. Le autorità ecclesiastiche dell’epoca riportano sdegnosamente delle sregolatezze cui si potesse assistere durante questa messa. A parte un chiacchiericcio di sottofondo, giustificato dal ritrovo di tutto il paese in chiesa, i ragazzi erano soliti lanciare bucce di noci o di mandarini verso le ragazze più graziose per attirarne l’attenzione, e pare che non fosse così raro assistere a manifestazioni di gioia ben più pericolose. Per quanto fosse vietato esplicitamente sembra che fosse pratica comune quella di sparare all’interno della chiesa e soprattutto all’esterno. Alla messa della vigilia non potevano davvero mancare le giovani donne in stato interessante. La tradizione vuole che lamiss’è pudda avrebbe guarito un feto eventualmente malformato o malato, tramite un’operazione di tipo esorcistico esattamente come lascia intendere il detto “sa bestia si furrìada in cristianu”. Le donna incinte che decidevano invece di non partecipare alla messa, rischiavano di dare alla luce un mostro, un bambino deforme e dalle forme animalesche.  Non è raro che la tradizione ricordi di donne che non avendo partecipato alla messa di Natale, abbiano partorito bambini mostruosi, che spesso assumevano la parvenza di scuri esseri svolazzanti, uccelli neri per dirla semplice. Queste leggende portano in seno germi di tradizioni ben più antiche che meriterebbero un approfondimento. Il potere di questa notte sacra (un tempo tutto del solstizio d’inverno) non si esauriva certo con il suo potere esorcizzante. La tradizione vuole che esattamente fra Natale ed Epifania le donna che conoscevano l’arte della divinazione e della cura, dei brebus e della medicina dell’occhio esattamente in questo periodo passassero i propri segreti alle future praticanti, a patto che percepissero l’approssimarsi della morte. Si era inoltre convinti che chiunque fosse nato la notte di Natale avrebbe avuto la possibilità di salvaguardare dalle disgrazie almeno sette case del vicinato (numero di chiara derivazione magica) e che durante la sua vita non avrebbe potuto perdere ne denti ne capelli. Addirittura si riteneva che la persona in questione una volta morta avrebbe mantenuto incorrotto il proprio corpo. A esemplificazione della credenza il detto che recita più o meno così: “chini nascidi sa nott’è xena non purdiada asut’e terra”. (Chi nasce la notte della vigilia di natale non può marcire sotto terra).
Le figure fantastiche. Particolarmente condito è anche il reparto delle creature fantastiche femminili che tradizionalmente scorrazzano per le case dei vivi la notte della vigilia di Natale. L’uso vuole che nessun cibo venga lasciato sulla tavola a fine pasto e per convincere i più piccoli a non lasciare nemmeno una briciola sul piatto ci pensavaMaria Puntaborru nel Campidano e la Palpaeccia nell’interno isolano. Megere entrambe andavano la notte alla ricerca dei bambini con la pancia vuota che sarebbero stati inevitabilmente puniti. L’una avrebbe loro infilzato la pancia con uno spiedo, l’altra avrebbe messo sullo stomaco una grossa pietra che l’avrebbe schiacciato. Ovvio e ben visibile il potere educativo della leggenda.
Gli auguri. Fino a qualche decennio fa il nostro buon Natale sarebbe suonato piuttosto come bonas pascas, bonas paschixedda, bonas festas, o norabonas.

domenica 21 dicembre 2014

SOLSTIZI

LA FESTA DI SAN GIOVANNI E IL SOLSTIZIO D’ESTATE

da http://www.contusu.it/
di Valentina Lisci

Ma quando le crepe della festività cristiana iniziano a scricchiolare, un orecchio curioso  vi potrebbe scorgere sopravvivenze pagane di grosso rilievo. In effetti il giorno del 24 giugno è l’apice dell’arco di festeggiamenti che iniziano il 21 e che erano tradizionalmente conosciuti sotto il nome di Solstizio d’Estate. La parola solstizio potrebbe evocare in voi complesse formule geometrico-astronomiche o nere lavagne di ardesia in cui la maestra arpeggiava –inutilmente- effimere lezioni sul sistema solare.




Niente di più semplice invece. Iniziamo dal nome, perché esso è tutto, molte volte da solo basta a rendere il concetto.
Solstizio deriva dal latino “Sol stat” che significa “Il sole staziona”. Nel periodo compreso tra il 21 e il 24 giugno , al tramonto, il sole raggiunge il massimo punto sull’orizzonte e da quel momento in poi inizierà a tramontare sempre più in basso. Sono  giorni in cui il numero di ore di luce supera il numero di ore di buio, i giorni più lunghi dell’anno. Dopo il 24 giugno inizierà la lenta e inesorabile discesa dell’astro sull’orizzonte fino ad arrivare di nuovo alla vittoria delle tenebre sulle ore di luce, sconfitte il 24 dicembre (solstizio d’inverno) in cui il sole riprende la risalita e le giornate iniziano ad allungarsi. Anno dopo anno, stagione dopo stagione.
Ma la festa di San Giovanni non coincideva forse con l’inizio dell’estate? Secondo il calendario astronomico si,  per il calendario agricolo siamo già a metà estate. Ricordate Shakespeare con “Sogno di una notte di mezza estate”? Egli ambienta la sua commedia di equivoci proprio nella notte del 24. E’ una notte magica perché il particolare fenomeno astronomico che si verifica ha influssi benigni sugli elementi, sulla terra e su coloro che vi abitano, in particolare conferisce “poteri magici” al fuoco, all’acqua e alle erbe, i simboli della notte di San Giovanni.



Simbolo del sole che trionfa, il fuoco purifica, allontana il male e le negatività e suggella patti di amicizia che dureranno una vita, forti come la parentela: i cosiddetti “compari” e “comari” di San Giovanni, che ancora oggi in qualche paese saltano il fuoco prendendosi per mano, a sancire la nuova unione. L’acqua acquista particolari proprietà terapeutiche nonché divinatorie, usata sì per lenire dolori e disturbi (in una società che non aveva la farmacia sotto casa!) ma anche per vedere il futuro, predire carestie, matrimoni, nascite. La rugiada raccolta nelle prime ore di luce rappresentava il tesoro per eccellenza.
Usanza tuttora diffusa nel Campidano e in tutta la Sardegna è la preparazione dell’acqua di San Giovanni, che si ottiene lasciando a mollo le erbe del santo tutta la notte, che, insieme all’acqua, verranno usate la mattina seguente per il bagno o semplicemente per lavarsi il viso. Le erbe infatti sono le regine indiscusse della festività: iperico, timo, rosmarino, menta, assenzio, elicriso, lavanda, venivano raccolte dalle esperte mani femminili in grado di discernerle,  essiccarle e usarle durante l’anno. Non è un caso che i giorni del solstizio rappresentino il  periodo di massima fioritura delle erbe. Anche queste avevano la capacità di predire il futuro: legate in numero di nove e messe sotto il cuscino avrebbero svelato in sogno il volto del futuro marito.
Non che il volto fosse importante quanto la condizione sociale: ecco un fiorire di rituali sempre legati alle erbe che permettevano di capire se il promesso sposo sarebbe stato pastore, agricoltore o ricco signore. In una società come quella sarda, fondata fino a pochi decenni fa su agricoltura e allevamento, la festa del solstizio rivestiva una funzione importante, segnando il passaggio al periodo delle messi e della raccolta.



Ecco quindi che la “nuova” religione (appena duemila anni di storia!) secondo il noto motto “chiodo scaccia chiodo” ovvero “meglio sostituire e imitare che distruggere”, si è appropriata di questa festa soppiantandola con la natività di Giovanni. Stesso procedimento per il solstizio d’inverno, che cade intorno al 21/22 dicembre.  Vi suona familiare questo periodo? Senza dimenticare che il 27 dicembre è la ricorrenza di un altro  Giovanni, l’Evangelista. Quasi che i due santi fossero i custodi dei solstizi, le due facce di quel Giano Bifronte che apriva e chiudeva le porte dell’anno. Insomma, sarà pure diventata una celebrazione cattolica ma  ai nostri giorni  il legame viscerale con questa festa è forte e si contano a decine le tradizioni che di cattolico hanno ben poco. Occorrerebbe un po’ di scavo nella memoria storica delle generazioni che ci hanno preceduto e che ci possono raccontare qualcosa di più a riguardo.  Tutta questione di perizia e di allenamento! Buon Lavoro!

do  Valentina Lisci

venerdì 19 dicembre 2014

GERGO DEI RAMAI DI ISILI

GERGO DEI RAMAI DI ISILI (Sardegna), un gergo che finora era rimasto all’ombra delle ricerche linguistiche. Un gergo che getta limpida luce sull’origine degli Zingari-Ramai nel Mediterraneo, in Europa, in Asia.
Il gergo Ramaio di Isili è il sistema linguistico più antico della Sardegna e del Mediterraneo. Esso getta intensi bagliori sulla nascita della Lingua Madre Mediterranea.

si Salvatore Dedola


da http://www.sardiniaportal.net/it/notizie/20/isili.html



ALCUNI LEMMI DEL GERGO RAMAIO DI ISILI (ETIMOLOGIE)

ARBARESCA (sinonimo di romanisca, arromanisca: vedi), denominazione del gergo isilese dei ramai (trottoniéris) e dei rivenditori ambulanti di oggetti di rame (piscaggiáus). Stando a Francesco Corda (SGR 24), «è stata ipotizzata una derivazione da arbër ‘albanese’ o da arberëše ‘italo-albanese’. Di “probabilissima appartenenza all’albanese” sono, per il Cortelazzo, alcune voci gergali isilesi: arregadossudrughi ecc. Non è improbabile che arbaresca sia la denominazione originaria della parlata romanisca, intesa semplicemente come ‘linguaggio dei ramai’. Tale ipotesi è basata sui nomi dati al ramaio, al calderario, allo stagnino ecc. in vari gerghi di mestiere: arvar a Tramonti (nel Friuli), revara a Monsanpaolo (nelle Marche), erbaru a Dipignano (in Calabria)».
Pur rendendo omaggio ai pionieri che hanno dato avvio alle ricerche, cimentandosi per primi con le grandi difficoltà opposte da un gergo sino a ieri misterioso, mi permetto di non essere d’accordo con l’interpretazione del Cortelazzo; non concordo neppure con l’impostazione del Corda. L’ipotesi che questo vocabolo aggettivale possa essere un etnico indicante un gruppo di professionisti originari dall’Albania, sottenderebbe una ovvia conseguenza: che la lavorazione del rame sia stata sempre peculiare degli Albanesi, anzi che l’Albania in quanto tale sia stata il focus da cui s’irradiò nel Mediterraneo la tecnologia del rame. Ma vi osta il fatto che, a quanto si sa, l’Albania non fu mai produttrice di questo metallo. Vi osta pure la considerazione che nella storia greca e nella storia romana l’Albania non fu mai nominata per tale vocazione, neppure dai poeti greci (i quali, si sa, furono spesso i rivelatori di certe relazioni socio-economiche che sfuggivano financo agli storici). Queste considerazioni hanno un peso. Così come ha il suo peso la considerazione che già i Sumeri conoscevano il rame.
È da quest’ultima affermazione che occorre prendere le mosse. In secondo luogo, sono proprio le traduzioni etimologiche che propongo sui lemmi arbaresca eromanisca a gettare un potente fascio di luce sulla loro origine, che fu sumerica, appunto. Anche il rapporto reciproco tra i lemmi arbaresca e romanisca, evidenziato dalla traduzione, non porta alla loro confusione ma anzi distingue due figure professionali precise.
Infatti arbarescaarbaréscuarbaríscu ha la base etimologica nel sum. arab ‘vaso’ + isḫu ‘distribuzione’: arab-isḫu > metatesi arbaríscu, col significato di ‘distributore di vasi’. Quindi sembra chiaro che furono gli attuali piscaggiáius (i ‘rivenditori degli oggetti di rame’) ad avere l’identità originaria di arbaríscu.
Quanto a romanìsca, che denomina il gergo isilese dei ramai (trottoniéris) e dei rivenditori ambulanti degli oggetti di rame (piscaggiáius), la sua base etimologica sta nel sum. ru ‘costruzione’ + manu ‘legno, salice’ + isḫu ‘distribuzione’: ru-man-isḫu, col significato di ‘colui che costruisce coi salici e distribuisce’ ossia ‘intrecciatore di salici e distributore’ (come dire che quegli arcaici professionisti erano ‘cestinai’). Questa etimologia potrà lasciare stupefatto qualcuno, ma invece dà uno spaccato stupefacente ma realistico della più antica civiltà della Sardegna (e di Ísili), quella paleo-neolitica, allorchè non si usavano i metalli, e le costruzioni erano fatte intrecciando stuoie e casse-formi coi rami delle piante più adatte (canne, salice, ecc.). Le casseformi erano riempite di fango-sassi-paglia per erigere i muri e le muraglie degli abitati. Ma è chiaro che con romaníscu s’intendeva esclusivamente colui che intrecciava i salici per fare cestini, almeno alle origini.
Questa vocazione isilese è ancora viva, e procede affiancata all’arte ramaia. Ma è ovvio che l’arte della cestineria è molto più antica, e solo quando, grazie alla vicina miniera di Funtana Raminosa, gli Isilesi (i primi in Sardegna!) cominciarono a forgiare il rame, ecco che i cestinai passarono in secondo ordine (formando un’altra classe sociale), e romaníscu passò a indicare il ‘forgiatore-venditore del rame’.
Al riguardo vorrei fare un’osservazione di non poco conto. Sostengo che in Sardegna l’antichissima arte cestinaia degli Isilesi era arcinota e molto apprezzata, forse per il fatto che il vicino rio Mannu recava una pletora di ottimi salici da intreccio. A mio avviso furono proprio i salici a determinare la stanzialità della tribù primitiva e quindi la costruzione del primo villaggio, a fianco del quale sorse il nuraghe, l’altare del Dio Sole. Infatti il nuraghe Is Paras, il più celebre della Sardegna per l’incredibile perfezione della sua tholos, ha la base etimologica nel babilonese išparum ‘laboratorio d’intrecciatori’. Vedi al riguardo il fitonimo sardo ispartu, it. ‘sparto’, denominante il Lygeum spartum, nel Campidano detto tzinnìga. Questa voce ha la base nel babilonese išpartu ‘donna che intreccia steli d’erba’.
BÙFFULA ‘mammella’. Sembra che la forma curiosa derivi dall’opportunità che la mammella offre ai lattanti di succhiare il latte: da camp. buffái ‘bere’, ma pure ‘soffiare’. Per la mammella questa doppia semantica andrebbe bene, perché il pargolo che succhia sembra quasi che dopo ogni poppata la soffi con forza per tener gonfio l’oggetto del nutrimento.
Quanto sopra però deve servire a suscitare più acribia al momento della ricerca etimologica. Infatti non credo che la reale semantica di bùffula sia quella appena descritta. A mio avviso la sua arcaica base etimologica è il sum. pu ‘bocca’ + pu ‘sorgente’ + la ‘flusso liquido che esce in gran quantità’: pu-pu-la, col significato di ‘bocca di sorgente che emette in quantità’.
CALLÍU ‘bello’. Il lemma appare a tutta prima di origine greca: καλός ‘bello’. Ma questa prospettiva interessa soltanto chi non riesce a estendere il proprio campo d’indagine. Infatti il termine sardo attinge direttamente dal sumerico kal ‘pregiato, raro, di valore’ + u ‘ammirazione’: kal-u ‘(cosa) rara da ammirare’.
CAMPANÁRI ‘morire’. Se l’intuizione coglie nel segno, questo è l’ennesimo vocabolo ironico, fantasioso, col quale si vuole esprimere il momento solenne dell’addio, quello in cui si suonano le campane “a morto”. Altrimenti, sempre restando nell’ironia, sembra possibile intendere il verbo come un composto nella lingua delle origini, il sumerico, dal quale abbiamo l’agglutinazione kam-pa-naruakam ‘cambiare, diventare altro’ + pa ‘tasca, fossa’ + narua ‘stele’, con la descrizione sintetica dei momenti cruciali del trapasso: la morte, il loculo o fossa, la stele del ricordo.
COFFA ‘buona sorte, fortuna’. Il termine nel concreto indica (Logudoro) il ‘braciere’; in Campidano cuppa è il ‘braciere’, ‘cesto’, ‘paniere per trasporto’, che ha la base nell’akk. kūbu ‘vaso per bere, per versare’.
L’uso metaforico col senso astratto di ‘fortuna’ è pansardo. Coffa indica ciò che in altri termini è detto, volgarmente, culo, nel senso di ‘fortuna’. Quest’ultimo termine è sempre accompagnato dall’indice-medio contrapposti in forma circolare, a indicare la larghezza del collo del “vaso” necessario a contenere la… fortuna. Il campo semantico rievoca facilmente l’originaria cornucopia della dea Fortuna o il “vaso di Pandora” (dal greco ‘tutta doni’).
CÓIRA ‘pelle, cuoio’. Il termine ha la base diretta nel lat. corium ‘cuoio’, gr. κόριον (cfr. francese cuir ‘pelle, cuoio’).
CRABIÉLI ‘sole’. Anche questo termine sembrerebbe rinvia ironicamente a qualcos’altro, a idee più complesse, riferite a entità arcaiche il cui nome riesce a condensarsi soltanto nella essenzialità di un vocabolo. Ma stavolta non è proprio così. Se volessimo stare alla Bibbia, Gabriele è (forse) il secondo dei quattro arcangeli più importanti nella gerarchia, quelli che possono apparire davanti a Dio (1 Enoch 40). Sempre in 1 Enoch (9,9-10) è considerato strumento della distruzione degli empi. La tradizione ha associato Gabriele con l’arcangelo la cui tromba annuncerà il ritorno di Cristo. Eppure non possiamo credere che crabiéli sia l’ipostasi dell’arcangelo Gabriele.
In realtà il lemma ha la base etimologica nel sum. kar ‘risplendere’ + be ‘perfetto’ + akk. Elû ‘Dio del cielo’: stato costrutto kar-bi-Elû (e successiva metatesi), col significato di ‘Dio perfettamente risplendente’, riferito al sommo Dio in quanto Dio Sole.
DOSSU ‘maiale, suino’. Termine criptico che riceve luce esclusivamente con l’akk. duššu ‘abbondante, copioso’ (con riferimento al maiale d’allevamento). Ma molto probabilmente la vera base etimologica è il sum. du ‘adatto, utile’ + šu ‘totalità’: du-šu, col significato di totalità utile’. Si sa che del maiale non si spreca niente.

giovedì 18 dicembre 2014

Cartagine inquilina in Sardegna? Quanto versava nelle casse sarde?

da  HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM

Cartagine inquilina in Sardegna? Quanto versava nelle casse sarde? 
di Rolando Berretta

Non si capisce il punto di vista di chi ci ha propinato una grande Cartagine, nel VI a.C., fino alla stipula di un trattato con Roma dove si rivendica il possesso cartaginese della Sardegna, ossia una grande Cartagine in piena espansione militare, padrona del Mediterraneo. Per capire che qualcosa non va è sufficiente visionare sull'atlante dove i Focesi fondarono Massalia e quanto fosse imortante commercialmente. Nessuno li ostacolò, non gli Etruschi, non i Cartaginesi e nemmeno i Sardi.
Per essere sinceri ci provarono i Cartaginesi con questi risultati:

Tucidide (I 13 6), i Focesi, appena fondata Massalia, vincevano i Cartaginesi.
Pausania (X 18 6), quelli dei Focesi che occupavano Elatèia (o Elatea, nella Focide; in Grecia) mandarono a Delfi un Leone d’oro in onore di Apollo dopo la battaglia navale contro i Cartaginesi. Giustino (XLIII 5 2), i Marsigliesi spesso sbaragliarono gli eserciti dei Cartaginesi poiché era scoppiata la guerra tra loro a causa della cattura di navi da pesca e, dopo averli vinti, concessero loro la pace. Vittorie confermate dalle offerte votive a Delfi (iscrizione SIG 12; questa iscrizione paleografica è databile intorno al 525 a.C. (n.d.a. i Massalioti erano già alleati di Roma).
Se aggiungiamo la visita di Dorieo, direttamente in Africa nel 525 a.C., possiamo dire che non fu un secolo di espansione e di successi.
I Cartaginesi erano talmente messi male che non avrebbero potuto soddisfare le richieste di Cambise che, infatti, se la legò al dito.
Il fondo della favola si è raggiunto quando si è spacciato l’Amilcare di Imera per un figlio di Magone. Era il 480 a.C. ed Erodoto è stato chiaro scrivendo che quell’Amilcare era figlio di Annone e di una Siracusana. Occorre una riflessione in merito.
Dopo la Battaglia del Mare Sardo, nella quale un gruppo di Focesi giunto da Focea, sbaragliò le flotte dei Tirreni e dei Cartaginesi e, infine, approdò in Basilicata (forse non accolto dagli altri Focesi). Si legge che Etruschi e Cartaginesi si spartirono la Corsica e la Sardegna. E con quale diritto? A seguito di quale evento? Questa è una fantasia incomprensibile, una proposta priva di quel rigore storico che dovrebbe sempre essere applicato.
Passiamo ai trattati.



Tito Livio racconta che quando Roma fu incendiata dai Galli, andarono persi tutti i documenti scritti. Inoltre, di questi trattati, oltre Polibio, si occupò anche Tito Livio che scrive che se Alessandro Magno fosse giunto in Italia si sarebbe trovato contro Roma e Cartagine, legate da vetusti trattati, senza specificare quali fossero. Dice Vetusti, cioè lontani nel tempo. Nel 348 a.C. vennero a Roma, ed era la prima volta, gli ambasciatori cartaginesi per stipulare un trattato di amicizia e alleanza. Ciò è confermato anche da Diodoro Siculo: Consoli a Roma: Marco Valerio e Marco Popilio... in quell’anno per la prima volta fu stipulato un trattato tra Roma e Cartagine (XVI 69).
Diodoro, cronologicamente, è in ritardo di 5 anni perché è il 343 a.C. Dopo la vittoria sui Sanniti, gli ambasciatori Cartaginesi tornarono a Roma per felicitarsi e portarono una corona d’oro di 25 libbre (messa nel Campidoglio) per felicitarsi della terza vittoria sui Sanniti, a Suessula, a opera di Marco Valerio. Erano passati cinque anni, era il 343.
Tito Livio: Consoli a Roma erano Marco Valerio Corvo (III consolato) e Aulo Cornelio Cosso. Tornarono nel 306 a.C. e, per la terza volta, fu rinnovato il trattato di amicizia e alleanza. Tito Livio parla di 3 viaggi degli ambasciatori Cartaginesi e parla di un trattato (quello del 348 a.C.) di amicizia e alleanza, e dei suoi rinnovi. Cosa c’è di complicato?
Mentre gli studiosi discutono sul secondo trattato, che sarebbe il terzo, evitano di parlare di quelli vetusti che implicano rapporti al di fuori del quadro storico conosciuto. Ci saranno altri trattati, ancora, ma Tito Livio sottolinea, non entrando nei dettagli, le 3 visite degli ambasciatori perché questo era l’evento da segnalare. Quello del 509 a.C. di Polibio è uno di quelli Vetusti, o è l’unico? Per quanto riguarda l'arrivo di Pirro, Tito Livio ne parla, solo, nel sommario del XIII. Polibio li accorpa in un unico pezzo mentre Livio lo descrive nell’anno interessato. T.Livio (sommario) VII 27Et cum Carthaginiensibus legatis Romae foedus iuctum cum amicitiam ac societatem petentes venissent. VII 38 (i Cartaginesi tornarono a Roma per congratularsi...ma non si parla del trattato...si sottolinea altro) IX 19 (si evidenzia lo sforzo comune di Roma e Cartagine per una ipotetica visita di Alessandro Magno. (...et farsitan cum et foederibus vetustis iuncta res Punica Romanae esset et timor par...) IX 43 Et cum Carthaginiensibus eodem anno foedus tertio renovatum legatisque eorum , qui ad id venerant , comiter munera missa. ( PER LA TERZA VOLTA FU RINNOVATO IL TRATTATO AI CARTAGINESI. NON SI PARLA SICURAMENTE DI UN TERZO TRATTATO MA DEL RINNOVO DI QUELLO DEL 348.
Vediamo tutto il pezzo.
Eodem anno aedes Salutis a C.Iuno Bubulco censore locata est, quam consul bello samnitium voverat. Ab eodem collegaque eius M.Valerio Maximo viae per agros publica impensa factae. Et cum Carthaginiensibus eodem anno foedus tertio renovatum legatisque eorum, qui ad id venerant, comiter munera missa.
Per i puristi c'è la traduzione di Antonio Pischedda:
"Nel medesimo anno il tempio della Salute che il Console aveva eretto per voto durante la guerra dei Sanniti è stato dato in appalto dal Censore C.Giuno Bibulco. Dal medesimo e dal suo collega M.Valerio Massimo sono state fatte attraverso pubblica spesa le strade attraverso la campagna. E nello stesso anno per la TERZA volta fu rinnovata l’alleanza ai Cartaginesi ed ai loro ambasciatori che erano venuti appositamente per questo".
T.Livio XIII (sommario) Cum Cartaginiensibus quarto foedus renovatum est (era il 277 a.C. anno del passaggio di Pirro). Per capire i trattati in questione bisognerebbe analizzare il contesto storico/cronologico della loro stesura. Siamo nel 509/8, Roma ha cambiato forma di governo. Sono stati allontanati i Re e, sotto i primi Consoli, si rivedono tutti i trattati fatti precedentemente. In questo contesto vanno ricercati i vetusti trattati che segnala Tito Livio. Di trattati da rivedere ce ne dovrebbero essere più di uno. Nel 348 a.C. per Livio, 343 a.C. per Diodoro (tra i due ci sono quasi sempre 5 anni di differenza ma se si cercano i Consoli si supera facilmente questo ostacolo). Cartagine sbarca in Sicilia sotto il comando di Annone. Gli ambasciatori Cartaginesi, per la prima volta, si recano a Roma, e fu concesso un trattato. Era al I Consolato Marco Valerio Corvo. Le operazioni finiscono malamente per Cartagine e, secondo Diodoro, nel 339 a.C. Giscone firma la pace con Timoleonte. Gli ambasciatori Cartaginesi tornano a Roma: li segnala Tito Livio nel 343 e, con la scusa di felicitarsi della vittoria Romana sui Sanniti, portarono una corona d’oro.
Ma cosa volevano veramente?
Era il III Consolato Marco Valerio Corvo. Sappiamo da Diodoro che Timoleonte vietò ai Cartaginesi di portare aiuti ai Tiranni siciliani contro Siracusa. Tutte le città greche, in Sicilia, tornarono libere e che il confine dei Cartaginesi era il fiume Lico. Detto questo passiamo a Polibio e alla sua versione. Polibio si è meravigliato che a Roma e a Cartagine non si era conservato il ricordo della sua scoperta. Dice Polibio (III 22): Il primo trattato tra Romani e Cartaginesi fu concluso, dunque, ai tempi di Lucio Giuno Bruto e Marco Orazio (Pulvillo n.d.a), i primi consoli in carica dopo la cacciata dei re, quelli che consacrarono il tempio di Giove Capitolino. Ciò avvenne 28 anni prima del passaggio di Serse in Grecia. Trascrivo più sotto il testo del trattato che ho cercato di interpretare con la maggiore esattezza possibile, ma tanta differenza intercorre fra la lingua arcaica dei Romani e quella attuale che solo specialisti esperti, dopo attento esame, riescono a stento a capire.

Prima di proseguire vorrei esporre il mio pensiero. Fu fatto il primo trattato nel 348 a.C. e nel 343 si stilò il nuovo documento del rinnovo e la copia del vecchio fu archiviata. Ai tempi di Pirro ci fu il terzo rinnovo e la copia del secondo rinnovo fu archiviata. Credo che Polibio abbia trovato l’archivio delle vecchie copie, nel quale erano conservati anche quelli vetusti, e abbia tirato le sue conclusioni. Questo è il testo di Polibio:
"A queste condizioni vi sarà amicizia fra Romani e i loro alleati e i Cartaginesi e i loro alleati. Né i Romani né gli alleati dei Romani navighino oltre il promontorio di Kalos a meno che non vi siano costretti da un fortunale o dall’inseguimento dei nemici. Chi vi sia costretto a forza, non faccia acquisti sul mercato, nè prenda in alcun modo più di quanto gli sia indispensabile per rifornire la nave o celebrare sacrifici e si allontani entro 5 giorni. I trattati commerciali non abbiano valore giuridico se non sono stati conclusi alla presenza di un banditore o di uno scrivano. Delle merci vendute alla presenza di questi, il venditore abbia garantito il prezzo dello Stato se il commercio è stato concluso nell’Africa settentrionale o in Sardegna. Qualora un Romano venga nella parte della Sicilia, in possesso dei Cartaginesi, goda degli stessi diritti degli altri. I Cartaginesi , a loro volta, non facciano alcun torto alle popolazioni di Ardea, di Anzio, di Laurento, di Circeo e Terracina, nè di nessun’altra città dei Latini soggetta a Roma. Si astengano pure dal toccare le città dei Latini non soggetti a Roma e qualora si impadroniscano di alcuna di esse, la restituiscano intatta ai Romani. Non costruiscano in territorio latino fortezza alcuna, qualora mettano piede nel paese in assetto di guerra, è loro proibito passarvi la notte". 


Una Navicella battuta all'asta da Christie's

Adesso Polibio aggiunge i suoi commenti che valgono come tali (III 23). Il promontorio di Kalos (Calos) è quello che si trova proprio di fronte a Cartagine, rivolto a Settentrione. I Cartaginesi, a mio parere, proibirono ai Romani di procedere oltre, in direzione sud, con le navi da guerra poichè non vogliono che questi conoscano nè le località della Bisside nè quelle della piccola Sirte, luoghi che essi chiamano Empori per la fecondità della regione. Se qualcuno, spinto qui a forza, o da una tempesta, o dai nemici, ha bisogno di qualcosa che gli è necessario per i sacrifici o per la riparazione dell’imbarcazione, gli permettono di prendere queste cose, ma nulla di più. Esigono che coloro che sono approdati ripartano nel giro di cinque giorni. Era concesso ai mercanti Romani di recarsi per i loro commerci a Cartagine e in tutta la costa della Libia al di qua di capo Calò, nonché in Sardegna e in quelle parti della Sicilia che si trovano sotto la giurisdizione dei Cartaginesi. Questi assicurano che i loro diritti saranno garantiti. In questo patto, i Cartaginesi danno l’impressione di parlare della Sardegna e della Libia come territori propri. Per quel che riguarda la Sicilia essi fanno, in modo esplicito, considerazioni di tipo diverso, riferendo il patto solo a quelle parti della Sicilia che cadono sotto il dominio dei Cartaginesi. Allo stesso modo anche i Romani riferiscono il patto solamente al territorio Latino e non fanno menzione del resto dell’Italia, visto che non cadeva sotto la loro autorità. Questo è il secondo trattato per Polibio, privo di datazioni (III 24). Dopo questo fu stipulato un altro trattato, nel quale i Cartaginesi inclusero Tiro. Gli Uticensi aggiunsero, al promontorio di Calos, Mastia e Tarseio. Si vietava ai Romani di predare e fondare città oltre questi luoghi. 
Il trattato suona all’incirca così: 
"A queste condizioni si stipula un trattato di amicizia tra i Romani e gli alleati dei Romani con i Cartaginesi, i Tirii, il popolo di Utica e i loro alleati. Oltre il promontorio di Calos, Mastia e Tarseio, i Romani non esercitino la pirateria, nè il commercio, nè fondino città. Qualora i Cartaginesi si impadroniscano di una città dei Latini non soggetta ai Romani tengano le ricchezze e gli uomini, ma restituiscano la città. Qualora un Cartaginese riesca a catturare qualcuno che sia vincolato ai Romani da un trattato di pace scritto, ma non sia loro soggetto, non lo faccia sbarcare in porti romani; se ce lo avrà condotto e un Romano metterà la mano sopra di lui, il prigioniero dovrà essere lasciato libero. Lo stesso valga per i Romani. Se da un territorio in possesso dei Cartaginesi un Romano prenderà viveri ed acqua, non se ne serva per offendere alcuno che sia legato ai Cartaginesi da vincoli di pace e di amicizia. Lo stesso valga per i Cartaginesi. In caso contrario non sia punito privatamente, ma l’offesa da lui arrecata sia ritenuta pubblica. In Sardegna e in Libia nessun Romano commerci nè fondi città (e qui c’è un bel buco nel testo)...e non vi rimanga più di quanto occorra per imbarcare provviste o riparare la nave. Se vi sarà stato spinto dalla tempesta, si allontani da quei luoghi entro cinque giorni. Nella parte della Sicilia soggetta ai Cartaginesi e in Cartagine stessa ogni Romano può agire e commerciare liberamente, con parità di diritti coi cittadini. Lo stesso valga per un Cartaginese a Roma". 
A questo punto Polibio aggiunge il suo commento e si arriva a fare una bella frittata. Di nuovo in questo trattato rivendicano a sè la Libia e la Sardegna appropriandosene e vietando ogni accesso ai Romani mentre, per quel che riguarda la Sicilia, fanno chiare precisazioni di tipo diverso, riferendo il patto a quella parte loro soggetta. Lo stesso fanno i Romani riguardo al Lazio: stabiliscono che i Cartaginesi non devono fare ingiustizie agli abitanti di Ardea, di Anzio, di Circeo e di Terracina. Queste sono le città che racchiudono i confini dalla parte del mare della regione latina di cui tratta il patto. In questo commento vengono ritirate in ballo Ardea, Anzio, Circeo e Terracina che non figurano in questo trattato ma sono citate nel testo del primo. Ricordiamoci di queste città: Anzio (Cenone) dei Volsci Anziati fu presa da Tito Numicio Prisco nel 463. Terracina (ANXUR) nel golfo tra il M.Circeo e Gaeta fu presa nel 406, per la prima volta, dal Tribuno Militare, con potere consolare, Gneo Fabio Ambusto. Fu ripresa nell’inverno del 400 a.C., freddo record: il Tevere gelò; navigazione impossibile. Se qualcuno pensa che in un trattato del 509 a.C. Roma possa tirare in ballo Anzio e Terracina non mi trova assolutamente d’accordo. Tutto questo per dire che Cartagine, nel 508 a.C., pagava l’affitto del suolo occupato mentre Roma viveva in attesa del ritorno di Tarquinio il Superbo e di Porsenna con tanto di esercito. Non riesco a immaginare le due città intente a spartirsi l’Italia e il Mediterraneo. Forse, se si rivedessero gli avvenimenti del 349 a.C. per Livio e del 344 a.C. per Diodoro, con i testi dei trattati di Polibio davanti, e integrando il tutto con quanto riporta Giustino, tutto sarebbe chiaro. 


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sabato 6 dicembre 2014

La Toponomastica in Sardegna

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libro del Dr. Salvato Dedola, laureato in Glottologia ed esperto conoscitore del territorio isolano.
Ecco una brevissima sintesi del libro che troverete nelle migliori librerie.




Ogni luogo, ogni monte, ogni segno antropico ha un nome, rispetto al quale l’utilizzatore di una carta geografica rimane indifferente. Al momento dell’uso, ogni toponimo viene naturalizzato e ciò che i nostri padri avevano trasferito sui 200.000 toponimi dell’isola si oscura. I toponimi diventano meri indicatori di una porzione di paesaggio che i locali hanno forgiato per il bisogno di muoversi in sicurezza entro i confini della propria terra. Ciò che importa è che, citando un toponimo, il residente sa dove recarsi, poiché quel nome gli fornisce le coordinate territoriali. Ma l’etimologo ha il compito di sapere perché i locali chiamano un sito con quel nome e occorre apprenderlo sul campo, durante le escursioni conoscitive dei siti. Oggi gran parte dei toponimi dell’intera Sardegna è corrotto e gli errori di traduzione sono pari almeno al 76%, mentre il restante 24% è costituito da traduzioni dal sardo all’italiano. I toponimi dubbi vanno trattati con pazienza, metodo, talento, cultura. Occorre partire daccapo per rendere conto di quel 76% corrotto, prendendo atto che per uscire da questo scandaloso stallo occorre gettarsi definitivamente alle spalle una forma mentis obsoleta, che è quella di credere che le origini della lingua sarda stiano nel gran calderone della lingua latina. Nelle Università ci vuole coraggio per insegnare che la Lingua Sarda cominciò con Roma. Il Dizionario etimologico sardo scritto da Wagner contiene, per ammissione dello stesso autore, il 25% di termini non etimologizzati (ossia con base ignota); un 15% inventariato tra le onomatopee, un 15% di termini sui quali Wagner opera eleganti by-pass lasciandoli senza etimologia; un 20% classificato d’origine catalana, senza accorgersi che buona parte dei termini era già sarda prima di misurarsi col catalano, e fruiva delle stesse etimologie che segnarono, prima di Roma e dei Fenici, le coste d’Occidente. La credibilità di Wagner, pertanto, resta appesa ad un residuo 25% di lemmi, tra i quali si evidenziano basi catalane, aragonesi, antico-italiane e, finalmente, latine. Di basi latine nella lingua sarda ne abbiamo, sì e no, un 10%. I popoli presenti in Sardegna prima dei romani avevano anch’essi una lingua, che ci è nota attraverso tanti dizionari e tante grammatiche, ma i nostri studiosi si nutrono soltanto dei dizionari greco e latino. E così, stando ai nostri emeriti studiosi, la lingua sarda avrebbe uno “zoccolo duro” fondato dia cronicamente dagli apporti: basco-iberico, latino, catalano, antico italiano, spagnolo e italiano moderno. Manco a dirlo…il primo strato fu spalmato dai Baschi mescolati agli Iberi, così almeno racconta Blasco Ferrer. Questi studiosi non tengono conto del fatto che il Mediterraneo, nell’epoca pre-romana, era diviso in due sfere d’influenza: quella orientale egemonizzata dai greci e quella occidentale egemonizzata dai fenici. La Sardegna si trova nella seconda. Ciò non precludeva, comunque, all’uno e all’altro dominio di scambiare merci e idee, in maniera persino abbondante. Per ragioni di metodo scientifico, dobbiamo supporre che le suddivisioni storiche non si prestavano ad alcuna cancellazione ad opera dei popoli che prevalsero con i loro imperi (greco-macedone e romano). Abbiamo tante prove al riguardo. Paolo di Tarso, naufragando su Malta 300 anni dopo la romanizzazione, fu salvato dai residenti che parlavano una lingua barbara, ossia né greca né latina (era semitica). Apuleio (De Magia 98) difendendosi dall’accusa di aver indotto con arti magiche la vedova Pudentilla a sposarlo, mostra uno squarcio della società africana del 159 d.C., 360 anni dopo la romanizzazione la popolazione parla il punico! Ancora Cicerone (Pro Scauro) denuncia che la Sardegna, 200 anni dopo l’invasione, non ha nemmeno una città amica del popolo romano. Se le città erano ostili…cosa dovremmo pensare delle campagne e delle montagne? E perché mai un popolo ostile avrebbe dovuto cancellare la propria lingua a vantaggio di quella dell’invasore? Una quarta testimonianza è la base di colonna bronzea di San Nicolò Gerrei , scritta in greco, latino e punico: lo scrivente (un sardo) ebbe bisogno di farsi capire dai locali, parlanti fenicio-punico, ma pure dagli occupanti. Nel Mediterraneo centro-occidentale si parlava semitico, non indoeuropeo. Questa lingua dominava nell’intero Mediterraneo, nella penisola italica ed ebbe una forza tale da sopravvivere ancora oggi nella lingua araba, in quella ebraica e nel 60% di quella sarda!, mentre per il resto è stata dissepolta 200 anni fa tra le macerie di Ugarit, tra quelle dell’impero assiro, dell’impero babilonese, dell’impero accadico e di quello sumerico. Mentre sappiamo che il latino, quello libresco, sopravvive oggi soltanto in Vaticano, non in Sardegna. Nella storia della lingua sarda dobbiamo insertire dei parametri senza i quali non riusciremo mai a capire tanti problemi dell’isola. Il primo parametro è che i romani, sbarcando, s’impossessarono delle città insediandovi l’armata, l’amministrazione, le strutture commerciali, i mediatori del commercio. Altrove, nell’isola, crearono dei punti fermi in funzione anti-barbaricina, quali gli avamposti latini di Forum Traiani e Sorabile, e 150 anni dopo nel Capo di Sopra, avendo bisogno di un saldo presidio, fondarono Turris Lybisonis, che per secoli rimase puramente latina. Nessun linguista ha mai prestato attenzione al fatto che in Sardegna il latino si parlò soltanto nelle città, tenute saldamente in mano dai conquistatori. In Sardegna, l’incommensurabile frattura fra città e campagna dura ancora oggi. Sono le campagne, ossia i paesi, ad aver conservato lo zoccolo duro della parlata semitica, che Wagner non riconobbe, credendola una neo-formazione latineggiante. Convinto della propria teoria Wagner espose le sue note leggi fonetiche che dimostrerebbero che la lingua sarda deriverebbe da quella latina, e che, addirittura, proprio in Sardegna (a Bitti e dintorni) si continuerebbe a parlare il latino di Cicerone. E così si giura che la –u dei sardi non sia altro che la –us dei romani, anziché l’antica –u sumerica, accadica, babilonese e assira! Allo stesso modo le velari /k/ e /g/ presenti nel centro-nord della Sardegna siano di origine latina anziché sumerica, assira, babilonese e accadica. E per studiare queste velari mai documentate nel Lazio, ne nelle lingue romanze, sciami di linguisti hanno visitato la Sardegna prima e dopo Wagner riuscendo a trovare ed evidenziare nella parlata bittichese la “base originaria della fonetica latina classica”, altrove volatilizzata. Un riconoscimento che non fa onore alla Sardegna perché basato su presupposti errati. Non si sono accorti, ahimè, che l’isolamento della Sardegna ha prodotto certamente degli endemismi conservativi, ma solo nel campo faunistico (lepri, conigli, cinghiali, piccoli cervi), per l’avvento dei quali bisogna contare non i secoli, come per il latino, ma le decine di migliaia di anni.
In conclusione, la lingua sarda attuale è la lingua parlata più antica del mondo mediterraneo, e si affianca a quella araba e all’ebraico.
Fonte: La Toponomastica in Sardegna – Origini, etimologia- Grafiche del Parteolla – Gennaio 2012