martedì 30 aprile 2013

Cagliari 1943 - Sant' Efisio sotto le bombe

La Festa di Sant'Efisio - TU, NOS, EPHYSI, PROTEGE

              TU NOS, EPHYSI, PROTEGE

Da ore la sfilata segna il passo tra gli isolati del centro, serpeggiando lentamente alla volta del mare della Scaffa. In coda sorge finalmente il Santo, risucchiato dal grembo di Stampace. Sono i membri della sua Arciconfraternita, dopo un altro anno, a riconsegnarlo alla luce. Volti compassati. uomini avvolti nei frac.
Non più nobili a rappresentare se stessi. Dai polsini inamidati emergono mani ispessite dal lavoro. Donne in abito nero. Cunfraris col saio azzurro e la mantella bianca. Sono i corifei del dramma collettivo che si rinnova. i depositari delle minuzie del rito. Gli intimi di Efis.
La scorta verso i luoghi del martirio. Il cocchio caracolla sulle asperità dell’asfalto, tra i petali dei fiori e lo sterco dei cavalli. Lo sguardo fisso della statua ondeggia enignamente sulla folla. Cercato dagli occhi di chi chiede una grazia, si sporge in una promessa, rinnova un voto. In mezzo al chiasso dei gitanti spensierati e dei turisti curiosi. Al passaggio del santo la fiumana di persone gli si richiude dietro in una scia vociante.
Fuori dalla città la processione si sgretola. Tornano a casa le traccas, i cavalieri, il folklore. Molti si danno convegno per le bevute e i balli della sera. 
Restano i pellegrini. Accompagnano il santo a Giorgino, dove lasciati gli ori indosserà i più modesti abiti di campagna, prima di proseguire il suo viaggio. Ripartono in pochi, un corteo incupito che si serra attorno al cocchio in un abbraccio confidente. Si lasciano portare e insieme sospingono il santo verso la sua palma di martirio. Alcuni sono scalzi, tutti pregano.
invocano al santo un'ccezione per sé, la salvezza di una persona cara,un'argine alle nuove pesti. Sul loro mormorio si alzano solo i comandi severi del bovaro. Il camino verso nora, con le sue soste rituali, dura tre giorni. 
La pioggia invocata viene accolta come un miracolo, e i piedi nudi all'arrivo non avranno una piaga. Efis tornerà dai suoi, a Stampace. 

La Festa di Sant'Efisio - Ex voto suscepto


Ex voto suscepto
Si è detto di Sant’Efisio come festa enciclopedica, simultanea apertura annuale di tutti i forzieri della tradizione. Ma Sant’Efisio è festa delle feste anche perché compendio di tutti gli elementi qualificanti delle celebrazioni tradizionali, loro paradigma completo.
C’è il Santo intercessore, l’offertorio popolare, la processione rituale, il suo allungarsi in pellegrinaggio, il santuario fuori porta, la durata plurigiornaliera delle celebrazioni, il repertorio di preghiere dedicate. C’è il voto: Sant’Efisio è missa e promissa (1). Cioè festa ex voto suscepto (conseguente alla promessa assunta) e l’occasione dell’impegno solenne collettivo fu l’epidemia di peste che si abbattè sulla Sardegna alla metà del Seicento.
Ma i meriti di Efisio erano già cari ai sardi da lungo tempo. Da quando, soldato di Diocleziano – a seguito di una visione celeste che gli notificò, con due stimmate in forma di croce e di foglia di palma sulle mani, il martirio futuro – si rifiutò di eseguire gli ordini e di angariare i cristiani della nostra isola. Se ne interessò l’imperatore in persona, che lo fece imprigionare e torturare. Ma Efisio non cedette. Né il ferrò pagano poté segnarne le carni; gettato in una fornace ne uscì invece temprato.
Per vincerlo bisognò decapitarlo.
Avvenne a Nora, città costiera prima punica poi romana, dove in ricordo sorse l’omonima chiesa campestre, oggi di impianto protoromanico ma su una presumibile precedente costruzione alto medievale, cioè di un tempo più prossimo ai fatti. Un santuario di fondazione dunque, non di quelli il cui edificio è sopravvivenza di precedente centro abitato, ma di quelli che invece rimontano a una deliberata edificazione su misura. Riferita, in questo e in altri casi, a un singolo episodio notevole.
E che come tutti i santuari campestri – almeno nella rigida divisione tradizionale sarda tra travillam e saltus (nucleo abitato e campagna) – costituisce mediazione e ricomposizione di un dualismo: tra il colto e l’incolto, tra l’ordine umano e la potenza disordinata della natura, tra il sacro e il profano. E nel suo ruolo di avamposto morale, in questa fattispecie paleocristiana, stabilisce il segno durevole della buona novella vittoriosa sulle insidie pagane.
In quest’ottica dualistica la chiesetta di Nora può essere considerata santuario campestre di Cagliari, come osserva Giulio Angioni. E di questa geografia spirituale disegnata dalla costellazione di santuari campestri della Sardegna, ai primi di maggio assurge senz’altro a capitale.
Alla sua volta, con trenta chilometri da percorrere, la processione cittadina diventa pellegrinaggio.
In una prima di cinque tappe, presso la chiesetta della spiaggia di Giorgino, il Santo lascia i paludamenti da parata e gli ori votivi di cui è carico, per indossare le più modeste vesti da campagna, casomai i pirati al largo lo avvistassero per approdare e rapinarlo.
Così, lungo l’arco morale che separa dalla meta si spengono i colori e si prosegue in un camminare silenzioso e confidente, guidato della cerchia ristretta del Santo in esercizio confirmatorio di dedizione privilegiata.
Seguono gli avventizi del voto, che invocano ancora un’eccezione per sé, fiduciosi di trovarsi nel luogo dove il Santo può accorgersi più facilmente di loro.
De Casteddu appassionau Di Cagliari appassionato
Sempri siais difensori Sempre siate difensore
Sighei a essiri intercessori, Continuate a essere intercessore,
Efis Martiri sagrau. Efisio Martire consacrato.
Così recitano i goccius(2). Dove Efisio, come ogni santo di elezione popolare, è definito “intercessore”. Parola che il lessico liturgico attinge dalla nomenclatura giuridica, nella quale significa precisamente “garante”. E a dare uno sguardo più a fondo, all’origine latina del termine, ben si capisce come la sua adozione teologica si sia arricchita di un senso duplice:inter cedere significa “passare attraverso”, ovvero squarciare la frontiera tra la terra e il cielo e additare alla sovrabbondante grazia divina il varco attraverso il quale mostrarsi quaggiù (come tipicamente testimoniano gli ex voto dipinti); ma anche significa “mettersi tra”, cioè frapporre una mano misericordiosa fra i rovesci della vita e i salvati.
Ecco che laddove il dipinto votivo deposto nel tempio P.G.R.(3) può considerarsi fotogramma di sventura singolare e personale preghiera illustrata, la “sfilata” di Sant’Efisio, e poi il suo allungarsi in pellegrinaggio, è supplica plenaria e dinamica, intero film. A dare evidenza estrema all’aspetto essenziale di tutti gli ex voto (esclusi quelli segreti): essere certificazione pubblica di un debito contratto in un momento difficile, da esibire al Santo ma soprattutto agli occhi di tutti: offerti al cielo ma rivolti alla comunità. Della quale la sagra di Sant’Efisio in un certo senso costituisce la meravigliosa e vasta historia illustrata.

Bruno Piras

Note
1) Messa e promessa. Qui con casuale ma felice pertinenza dell’etimo condiviso, risalente alla formula di commiato del rito ecclesiale (ite, missa est = andate, è stata inviata) in uso proprio ai tempi di Efisio, quando il cristianesimo perseguitato scioglieva l’agape non appena l’eucarestia era stata appunto “inviata” (missa) all’esterno, verso coloro che, per divieto, prudenza o impossibilità, non erano potuti convenire. 
2) Versi di preghiera tradizionale in sardo.
3) Per Grazia Ricevuta, sigla che contassegna gli ex voto deposti nelle chiese.


Tu nos,Ephysi,protege - Un documentario di Marina Anedda

Tu nos, Ephysi, protege


Un documentario di Marina Anedda.


La Festa di Sant'Efisio - LaFesta




La Festa.

http://magazine.snav.it/sardegna-la-sagra-di-s-efisio-a-cagliari/
Il primo maggio, in Sardegna, prima ancora che il lavoro si è sempre festeggiata la festa. Rubando alcune osservazioni di Giulio Angioni, antropologo caposcuola degli studi di cose sarde – e nella speranza di non tradirne il senso –, si può infatti definire la sagra cagliaritana di Sant’Efisio come festa della festa. Di tutte le feste dell’Isola. Non solo perché, banalmente,majore tra minores(1) o manna tra pittikkas(2)Non solo quindi perché più ricca e vasta, ma perché paradigma stesso di ogni festa indigena.
Più ricca senza dubbio: vi trova posto il meglio di tutte le dovizie e i fasti dell’Isola. Festa di primavera, momento di riepilogo e annuncio di prossima ripartenza, apertura anticipata del ciclo delle ricorrenze estive, dedicate – ciascuna – al santo eletto come peculiare e proprio, e insieme – tutte – alle paganissime celebrazioni del comune e condiviso calendario agropastorale. Ecco, in onore al santo, le doverose esibizioni propiziatorie di abbondanza e la distribuzione di dolci e pani alla folla, in una sorta di comunione preliturgica officiata in modo orizzontale e laico. Largizioni parche e solo simboliche: i partecipanti sono migliaia e non ce ne sarebbe certo per tutti. Ma sufficienti a esibire, in simulacro, la generosità obbligatoria dell’ultimo affondo possibile alle scorte e ai granai, a due mesi ancora dalle nuove messi estive.
Più vasta: alle altre feste gli obbreris(3) apparecchiano il meglio della propria – singola – tradizione paesana, e tutti gli altri partecipano da ospiti. A Sant’Efisio ciascun paese partecipa da protagonista, e prima che ospite è attore a confronto con tutti gli altri attori.
Sant’Efisio come festa enciclopedica della Sardegna, dunque. Come florilegio, meglio del meglio di ogni sardità. Collazione di tutte le strumentazioni materiali festive. Le traccas (carri) addobbate non riportano a casa carichi di paglia e villani affaticati, ma persone festanti, doni e fiori; i buoi sono strigliatissimi e adornati da finimenti ricamati e arance infisse sulle corna; i pani sono quelli più bianchi, di farina sceltissima. Per un giorno tutto è sublimato, sollevato da terra (in questo caso è proprio quella dei campi). Soprattutto le persone: vestono più dei panni buoni e del miglior decoro della domenica. Indossano l’intero repertorio dell’arcadia di Sardegna, dove tutto, in quel tempo, era facile, pacificato e felice. Si esibiscono cioè le fonti sentite come autentiche, primigenie ed esclusive, delle varie identità visive, e più in generale culturali, dell’Isola.

A volte si tratta di tradizioni mai interrotte del tutto: ancora pochi anni or sono non era raro imbattersi, nella piazza del Carmine scalo dei taxi interpaesani, in una donna di Desulo, di Aritzo o di Tonara spontaneamente vestita col suo “costume” originale. Qualche volta si tratta invece di operazioni di recupero colto, di fatture sartoriali rivitalizzate a tavolino (in certi casi anche con ricostruzioni integrative “per analogia”), volute con ogni forza poco prima che tutto fosse perduto per sempre, travolto dalla modernità alloctona e sepolto per sempre dalla civiltà omogenea delle merci seriali.
Nella festa si confrontano dunque tutte le filologie folkloriche isolane, tante quanti i campanili di Sardegna. Filologie che spesso postulano, più o meno consapevolmente, una visionecreazionista dei loro elementi qualificanti. Si attinge cioè a un fondale mitico, a una fissità delle specie collocate nell’affresco di un magnifico e immoto “come eravamo”. Voluto, ogni anno che passa, più ricco di com’era, più socialmente partecipato, più fastoso di quanto avrebbe potuto mai essere. Ciascun costume (e anche ciascuna costumanza) è perciò sentito, nella museizzazione di oggi, “severamente così” e “assolutamente non in altro modo”, a volte in un paradossale primato del dover essere sull’essere. E a questa concezione necessariamente irrigidita, a questa meritoria “conservazione” – controllata a vista dalle pro loco, dai gruppi folk, dai comitati, dai sinceri appassionati – fa ovviamente buon gioco la cessazione dell’osmosi vitale, a opera del cataclisma improvviso della modernità, che aveva espresso le meraviglie che vediamo esibite durante la festa.
Tuttavia, anche all’interno di questo quadro “atemporale”, la dimensione storica traspare. Frac e cappelli a cilindro sono quelli della nobiltà di sopravvivenza feudale e quelli dell’avanzare tardivo della borghesia locale che ne contendeva il primato; l’ordine sociale è garantito in simbolo da miliziani settecenteschi affiancati da carabinieri ottocenteschi; lo stesso simulacro del santo, osserva Giulio Angioni, è abbigliato come soldato romano ma acconciato comehidalgo spagnolo.
Non è però questo tipo di considerazioni a incantare lo spettatore, turista italiano o straniero o gitante sardo. È il tripudio di colori, di pizzi bianchissimi, di velluti di grammatura regale, di fatture minuziose. Lo scintillio di ori e argenti finissimi, la sincronia improvvisa dei passi di ballo, il suono ipnotico delle launeddas(4).
Il vertiginoso succedersi di bellezza.
Per questo la festa di Sant’Efisio la si sente chiamare spesso “sfilata”. I diversi paesi, a decine, avanzano lungo le strade del centro tra due ali di folla fittissima, annunciati dai loro stendardi ricamati o avvistati per i loro colori dominanti. Ne sortisce a momenti un involontariobeauty contest, con molti vincitori sanciti a più riprese dall’intensità degli applausi.
E lo spettatore può restarne sorpreso due volte, a contrasto con l’immagine austera, a tratti cupa, con cui viene percepita la Sardegna tradizionale, coi neri delle sue vedovanze perenni e i marroni dei suoi uomini di campagna.
A far partire l’applauso, durante questo plenario e totalizzante folk pride, può essere la leggerezza di una danza o la grazia di un portamento. La fiera compostezza virile o il sorriso di modestia muliebre, virtù morali tradizionalmente molto coltivate, e anch’esse in sfilata.
Ma soprattutto sono, ancora una volta, i complessi costumi femminili, fruscianti di stoffe azzimate e ammantatrata a Dante, che fraintendendo (Commedia, 2, XXIII, 94 - 102) ne scambiò il misterioso e inespugnabile pathos per licenziosa impudicizia.

Bruno Piras

Note
1 logudorese: maggiore tra minori
2 campidanese: grande tra piccole 
3 organizzatori responsabili della festa
4 strumento ancestrale ad ancia, a tre cannei di veli e ampi scialli. Con gonne serrate in vita e bustini stretti, propizi solo a portamenti alteri. A sostegno di corolle di camicie di lino ricamato costellate di gioielli, in una sensualità severa e arcana. Di cui forse giunse notizia esage


Tu nos,ephysi,protege - Un documentario di Marina Anedda

Viaggio in Supramonte

lunedì 29 aprile 2013

LUOGHI STRUMENTI ATTORI DEL CULTO IN SARDEGNA - parte 1




YIŚRA’EL. I fenomeni toponomastici della Sardegna sono stati adeguatamente svelati e catalogati in uno studio recente1, e possiamo confermare che in nessun territorio (né in Sardegna né in Continente) i singoli popoli hanno omesso di dedicare alle proprie divinità una adeguata (direi vasta) porzione di siti. Valga come esempio il territorio più celebre dell’antichità mediterranea, Israele. La base etimologica di Yiśra’el può essere conosciuta dall’akk. išru(m) ‘villaggio recintato, fortificato’ + ebr. El ‘Dio altissimo’, con riferimento alla religione esclusiva degli Ebrei, che hanno sempre avuto un proprio Dio perfettamente distinto da ogni altro Dio dell’antichità. Il significato complessivo sembra proprio quello di ‘Dio del villaggio fortificato’, ‘Dio della nazione esclusiva’, e simili.
La stessa GerusalemmeYerûšālaym, ebbe significato sacro, da Šalimu (Giosuè 10,1), che è un dio della salute (il lemma ha il plurale in -im). Ricordo che proprio a Gerusalemme in origine c’era una fonte poderosa, una risorgiva che alla scaturigine creava un laghetto che in seguito fu scavato e ampliato per creare il serbatoio idrico per l’intera città. Ovvio pensare che in origine la gente andasse alla risorgiva non solo per attingere acqua ma anche per immergersi e curare certe malattie: da qui la dedica a Šalimu.
Il lemma Yerûšālaym è noto in varie forme secondo il popolo che lo scrisse. E così abbiamo ebr. יְרוּשָׁלַיׅם , gr. Ιερουσαλημ, ʿΙεροσόλυμα, lat. Jerusalem, assiro Urišläm, akk. UrusalimUrusalimmu. Per l’etimologia abbiamo ebr. יְרוּ* (*Iěru) ‘fondazione, insediamento di città’, da sum. iri ‘città’ + Šalam ( שׁלם) ‘dio della salute’, col significato di ‘città di Šalam’.




4a. I vari siti del culto


La Sardegna, manco a dirlo, dedicò alle divinità una buona porzione del sistema toponimico. Ad esempio, il territorio di Gadòni serbò alle divinità circa il 20% dei 250 toponimi registrati in carta. Lo stesso accadde un po’ in tutta l’isola. Da queste migliaia di toponimi sardi estrapolerò di seguito soltanto pochi esempi, tali però da rendere un’idea del rapporto che gli indigeni ebbero con la propria terra.

ARCUÉNTU è il monte più alto del Guspinese (m 785). Geologicamente è un neck, costituito dalla lava rappresa nell’ultimo conato d’eruzione. Ne è risultato un monte subconico che s’allunga spettacolare e solitario verso il cielo.
L’oronimo a tutta prima sembrerebbe derivare da Arculéntu, che in sardo significa ‘abrotano’ (Artemisia abrotanum L.), ma anche ‘erba prota’ (Achillea ligustica), e persino ‘millefoglio’ (Achillea millefolium L.)2. Alcuni lo vorrebbero derivare da Erculentu, collegandolo ad Ercole, cui sarebbe stato dedicato un tempio sulla vetta. Ma intanto chi pensa ad Ercole non dà ragione del secondo membro dell’oronimo (-entu). Certamente vi sorse un castello medievale, del quale resta­no le fondamenta, quasi certamente basate sul tempio più antico.
L’origine dell’oronimo pare chiara se assumiamo la base accadica arku ‘lungo, alto’ + bītum, fenicio bt, ebr. bait ‘abitazione’, ‘tempio’. L’originaria pronuncia sarebbe in tal caso *arcu-betu, con successiva epentesi della -n- per il richiamo all’idea del ventoArcuéntu significherebbe, con tale ricostruzione, ‘tempio elevato’. Ma è certamente più congrua l’etimologia basata sull’akk. (w)aru ‘Luna’, onde ritengo senz’altro che il significato sia ‘Tempio della Dea Luna’.

BARÚMINI comune dell’alta Marmilla, a circa 60 km da Cagliari, posto in un pianoro calcareo sopraelevato sul rio Mannu, il quale un tempo doveva essere un vero fiume. Presso il paese passava una delle rare vie di transumanza dalla Barbagia ed il fiume doveva essere guadabile. Il toponimo appare inRDSard. a. 1341 così com’è attualmente. Alla luce del significato di altri lemmi d’origine accadica quali Barumèle, ritengo che l’etimologia possa essere sumero-accadica. Abbiamo un composto di akk. barû(m) ‘to see, look at’, ‘sovrintendere’ + sum. min ‘two’ e possiamo interpretare che in questo sito fortunato ci fossero due templi al Dio Sole. Essi c’erano, in realtà, e sono il nuraghe oggi ritrovato al centro del palazzo marchionale, nonchè il nuragheprincipale, quello per cui Barùmini va famosa nel mondo. Quindi sembra chiaro che il paese prese il nome dall’epiteto che il popolo aveva coniato per i due templi del Dio protettore: ‘i Due Sovrintendenti’, ‘i Due Protettori’.
http://www.barumini.net/sardegna-in-miniatura/


BETILLI, località di foresta attualmente interessata dal casello della ferrovia minore, in agro di Sàdali. È un evidente composto. Pare che Betilli non abbia altro significato che quello dell’it. ‘bétilo’. In tal caso l’origine è fenicia (bt), parimenti ebraica (bait), e bet-el significò ‘casa del dio’. Nella storia biblica di Giacobbe bet-El è il nome del luogo sacro rivelatosi casa di Dio e contrassegnato da un cippo. In un testo fenicio del sec. VII a.e.v. (il famoso trattato di Asar-haddon) Baitili è il nome di una persona divina. Presso i Sumeri Beletili era il secondo nome di Damkina, paredra dei dio Enki poi divenuto Ea. Quanto al betilo, esso è la più antica forma che, agli occhi del semita, poteva esprimere la divinità: una scultura aniconica, come si deduce dal testo biblico ove si narra del betilo in forma di cippo, che Giacobbe ricavò dalla pietra da lui usata come capezzale.

BONACATTU è un toponimo, un cognome ma anzitutto un nome personale, espresso al femminile: Bonacatta. Tutti i Sardi (compreso me) sono d’accordo che il termine deriva da Nostra Segnora de Bonacattu. Ma ecco le differenze: secondo tutti i linguisti viventi (escluso me), Bonacattu costituisce una etimologia popolare di Bonàrcado, interpretato come bonu accattu ‘buon ritrovamento’, ma che in realtà deriva – secondo loro – dal bizantinoPanáchrantos ‘immacolata, purissima’. Questa strampalata etimologia viene da lontano, prodotta da una messe di linguisti i quali, dietro la “intuizione” del primo ricercatore, si sono intruppati senza più rischiare di mettere al lavoro la propria cultura.
Autorevole sistematrice e stabilizzatrice di questa paretimologia è Carla Marcato (Dizionario di Toponomastica 85-86), la quale, partendo dal fatto che nel condághe di Bonàrcado il toponimo figura nelle varianti BonarkantoBonarchantoBonarckanto, conclude: «Si tratta di un nome di origine greco-bizantina, da Panákhrantos, ‘immacolata, purissima’, attributo della S.Vergine Maria venerata nel citato santuario del luogo. La presenza di b in luogo di p, frequente nei prestiti greco-bizantini, ha favorito la successiva e recente interpretazione del toponimo come Bonacattu ‘buon ritrovato’, in connessione con una leggenda secondo la quale un’immagine che raffigura la Madonna col Bambino sarebbe stata trovata da un cacciatore tra i cespugli che circondano il santuario». Il tramandatore di questa rassicurante favola è il prof. Giulio Paulis, noto cattedratico di linguistica sarda e collega della Marcato.
È singolare che i linguisti siano arrivati a sancire una paretimologia addirittura con una favola. Non è la prima volta. A tanto non si è spinto il prof. Francesco Cesare Casula, che nel suo Dizionario Storico Sardo si è attenuto esclusivamente al metodo scientifico, scrivendo che «il toponimo [Bonàrcado] potrebbe derivare dal greco-bizantino pan ‘tutto’ e árcados ‘senza macchia’, oppure direttamente da Monarcanto, così come lo troviamo scritto in qualche documento medievale». Rendiamo grazie al Casula per averci dato una quarta forma di rappresentazione del toponimo Bonàrcado. Egli non parla affatto diBonacattu. Infatti il condaghe di Bonàrcado non cita Bonacattu tra le varianti che nominano il sito (vedi CSMB, ristampa del testo di Enrico Besta riveduto da Maurizio Virdis), cita semmai BonarcatuVonarcatu e simili.
Ma la forma Bonacattu e relative varianti (prevalsa da secoli tra i residenti – o usata da millenni? – e rafforzata dai nomi personali di molte persone del luogo) è senz’altro una forma storica, quella che dà più affidamento nella ricerca. Quindi è storico ed affidabile il sintagma Nostra Signora de Bonacattu. Occorre capire, a questo punto, perché i linguisti abbiano messo in relazione Bonacattu con ‘buon ritrovato’, rafforzando il tutto con una favola. La loro risposta è inappellabile: la favola esiste, e il significato è questo; un fatto corrobora l’altro, non ci sono altre interpretazioni. Il carapace della loro cultura è inespugnabile. Siamo all’assurdo kafkiano.
Chi l’ha detto che Bonacattu significhi ‘buon ritrovato’? E nel passato, si è mai tentato d’indietreggiare, d’immergersi, di sondare? Bonacattu non può essere forse una paronomasia? Nessuno ha mai riflettuto sul fatto che, alla base delle vestigia del primo tempio bizantino, esistono vestigia più antiche, e che lo stesso Francesco Cesare Casula cita l’ipotesi degli archeologi che il primo santuario fosse quello di san Giorgio.
E, se fosse vera la primazia di san Giorgio, nessuno ha mai riflettuto sul fatto che in Sardegna è stato proprio san Giorgio a sostituire il “santo” celebrato e venerato ai primi dell’Anno? Insomma, si sa o non si sa che san Giorgio non è altro che il sostituto dell’antico Dio della Natura, quello tanto celebrato in periodo di Carnevale?
Altro che ‘buon ritrovato’! Bonacattu è una paronomasia. In origine fu un composto rituale sardiano, un giaculatoria, il ritornello di un inno sacro, basato sull’akk. būnu ‘bontà d’animo’, ‘espressione’, ‘buone intenzioni’ + kattû(m) ‘che rafforza, corrobora’. Questo è un classico appellativo rivolto al Dio della Natura, ed il suo primo membro (Bonu-, Bona-) è lo stesso che nomina il santuario di Bonu-Ighínu, da tutti incredibilmente tradotto come ‘Buon Vicino’.

BONASSÁI. Il toponimo Bonassái sta in agro di Olmedo. Indica in modo speciale il nuraghe del sito, ma è tutto il compendio ad avere questo nome. Attualmente ci sta il centro di ricerca sugli animali d'allevamento, ma questo sito pianeggiante è sempre stato privilegiato da terreni alquanto buoni, capaci di dare frumento, oltrechè biade. Il toponimo va diviso in Bon-assai.
Per Bon- vedi Bono e simili, con la base etimologica nel sum. bu ‘perfetto’ + nu ‘creatore, procreatore’; -assái va confrontato con la terminazione di origine anatolico-occidentale (ed anche lidia) dalla forma -ασσος (vedi Alikarn-assos) e «ritrova antecedenti in voci come ebraico ošjā (fondazione, fondamento) e più vigorosa risonanza in accadico āû (detto di costruzione che sorge, “protruding pillars upon the foundation terrace”)» (Semerano, IEM 23). QuindiBonassái significò in origine, con riferimento al nurághe quale altare del Dio Sole, ‘palazzo del Perfetto Creatore’. Vedi Ussassái.

BONASTÒRE. Questo toponimo in agro di Alà sembra a tutta prima doversi riferire all’astòre, dall’it. astore. In realtà esso è un epiteto sacro, indice dell’antica presenza di un tempio, un nuraghe. Ha la base nel sum. bu ‘perfetto’ + nu ‘creatore, procreatore’ + ašte ‘sedia, trono’ + ur ‘proteggere’. Il significato originario fu ‘trono del Protettore, Perfetto Creatore’.

BONUIGHÍNU sito celebre per aver dato nome alla Cultura di Bonuighίnu, Neolitico medio. Nella località sorse anche un castello e pure un'antica chiesa, poi ristrutturata nel '700.
Bonuighίnu (agro di Mara) viene tradotto come 'Buon Vicino', da cui per riflesso il catalano Bonvehí. Ma questa non è altro che una paronomasia. Tanto per avvicinarci all’etimo, occorre anzitutto ricordare che per ighìnas s'inten­devano (vedi Alta Ogliastra, dove ancora s'intendono) le sezioni di terreno di 40 are, 'vicine tra loro', donate dal comune agli sposi sino a tutto l'800. Non a caso l’etimo di ighìnas sta nell’ass. ikû ‘campo’. Tuttavia l’etimologia di Bonu Ighínuva cercata altrove, partendo dal fatto che il luogo fu considerato sacro fin dall’Età della Pietra. Il mistero dell’etimo sta quindi nella sacralità del sito. PerBonu abbiamo l’akk. būnu ‘viso’ di Dio, ‘favore, buona intenzione’ di Dio. Per Ighínu abbiamo il composto sumerico igi ‘viso, faccia’ + nu ‘Creatore’. In questo sito in origine si onorò il ‘Viso del Dio Creatore’, il Dio Unico nella sua epifania in quanto Dio Sole.

BRUNCO cognome di Nùoro corrispondente al sost. bruncu ‘ceffo, muso’ e ‘cima, punta di monte’. Per capire l’etimo di bruncufruncuruncu ‘grugno del maiale’, ‘ceffo, muso’, andiamo al Wagner, il quale ricorda il termine anche nelle denominazioni topografiche già nei documenti antichi, designandosi con esso una cima di montagna.
La base di queste accezioni – ivi compreso il cognome Brunco – è il composto sumerico bur ‘cultic location’ + un ‘to be high’ + ku ‘to place’ (bur-un-ku >b[u]runcu), col significato di ‘luogo alto per il culto’.
Cataloghiamo quindi bruncu come il sito privilegiato dove veniva eretto un edificio di culto. La Sardegna è piena di queste denominazioni topografiche.

CASTEDDU ‘E SU BROGÁRIU è così chiamato un sito del territorio di Ardaùli dove si trovano le migliori domus de janas.
Anche qui, come nel sito a domus de janas di Scala Mughères, siamo in un luogo sacro dove venivano fatte delle offerte per i defunti e celebrati i riti religiosi. La base etimologica è l’akk. burgû (un tipo di offerta), da cui l’aggettivo brugáriubrogáriu.

DOINANÍCORODONIANÍCORO. Davanti alla complessità del toponimo, presento anzitutto il territorio. Questo è l’ombelico del Supramonte, il confine tra Orgòsolo e Dorgáli, un tempo aspramente conteso perché è l’unica pianura – circa tre chilometri quadrati – in mezzo alla marea di sassi, anfratti, gole, forre, creste, picchi, pareti dell’asperrimo territorio supramontano. Ciò che colpisce in questo luogo, oggi deserto ma ieri frequentato da pastori-agricoltori, sono poche cose significative che mancano nel restante Supramonte. Anzitutto il nurághe. Esso è piccolissimo (il più piccolo della Sardegna, assieme al diruto Casteddu ‘e Joni in agro di Ussassái) ma tuttavia esso esiste, ed è un fatto raro in tutto il Supramonte. Serviva a quanti gravitavano nel sito, per adorare il Sole (o per fare la guardia, a seconda delle teorie). Propendo per l’adorazione del Sole, considerato pure che gli Ilienses avevano lì accanto il più grande circolo solare della Sardegna (diametro circa 90 m). Sembra ovvio che ogni circolo solare della nostra isola servisse anche per praticare su Ballu tundu, la danza sacra mediterranea. Serviva, insomma, per far festa, specie dopo che, dentro il circolo, era stato trebbiato l’orzo o il triticum. Accanto alnurághe ed a questo circolo c’è pure il villaggio nuragico, con la tomba di giganti esattamente al centro dell’abitato. A poche centinaia di metri c’è la più importante fonte del Supramonte, ingrottata tre metri sotto una placca di calcare dolomitico. Allora, possiamo dire che Campu Doniancoro è un sito magico, un sito sacro.
Lo scenario di Campu Donianícoro si appalesa come uno sprofondamento montano immenso, con accanto la fonte. La base etimologica è il sum. tun‘sprofondamento, depressione’ + An ‘Dio Sommo del Cielo’ + kur ‘land, country’ (cfr. gr. χρος): stato costrutto tuni-ani-kurDoni-aní-coro significò quindi ‘Territorio pianeggiante dedicato ad Anu’.

ESTERZÌLI. Nell’intento di dare al toponimo una etimologia, osserviamo la sua grande somiglianza col nome fenicio di Astarte (Ištar, la dea dell’amore e delle acque generatrici). Non credo sia un caso che il paese possegga la celeberrima Domu ‘e Orgìa, il tempio post-nuragico a pianta greca (mégaron) sul monte S.Vittoria. Questa montagna è intestata, guarda un po’, alla Vittoria, a seguito della conquista del duce bizantino Zabarda, ma è palese che con tale nome s’intese cancellare il nome e la celebrità del tempio di Venere. Esterzili ha per base Ištar + illum ‘circondata dall’ombra, dal bosco’. Come dire: ‘(tempio di) Ištar tenebrosa’.
http://www.italiainfoto.com/gallery/sardegna


FURTÉI comune del Medio Campidano. Il toponimo appare in RDSard. a. 1341 come Frutey e potrebbe avere origine dal lat.mediev. fructetum ‘frutteto’ con successivo tema -ey che rende il collettivo -etum. Cfr. l’attuale cognome italiano Fruttero.
C’è poi un’altra ipotesi di traduzione proposta da Semerano (OCE) < (Venere) Orteia (gr. ’Oρθεία, Foρθασία, Boρθεία, Foρθεία) < akk. burtu ‘cisterna, piscina’ = burtia = Borteia = Ortheia = 'cisterna, piscina, sorgente'. Seguendo questa interpretazione, suppongo che in origine il villaggio sorse accanto a una grande sorgiva, che fu dedicata alla Dea delle Acque, altrove nota come Mamùsa.

ILIÀNA. La trascrizione cartografica del nome della celebre rupe in territorio di Seùi è Perda ‘e Liàna, ma è ipercorrettismo di Perda Iliàna, così chiamata ancora nel XIX secolo dall’Angius. Il cartografo non si è accorto del vezzo dei Seuesi di pronunciare y per ‘ede. Ma potrebbe dirsi pure il contrario, ossia che furono gli antichi (a finire con l’Angius) ad aver pronunciato male l’oronimo, interpretandolo sic et simpliciter Iliàna, che poi il cartografo corresse in ‘e Liàna. Tutto sommato, però, questa seconda ipotesi è un cavillo, ed è meglio attenersi alla pronuncia Iliàna.
Questa rupe perfettamente verticale, identica agli scenografici cilindri del deserto dell’Arizona, sta esattamente al centro della Sardegna, e domina le rapide del Flumendosa, il fiume sardo con maggiore portata. Da quassù si ha uno strano rapporto acqua-cielo. Come non bastasse tale visuale, che dalla vetta di 1293 metri spazia liberamente su mezza Sardegna, i Sardói eressero un nuraghe sopra il cilindro, creando un prolungamento del segno mistico della Sacra Virga. Avevano bisogno, evidentemente, di sacralizzare all’acmé questo cilindro, che a sua volta s’erge su un alto cono di deiezione, il quale a sua volta sta in vetta a un monte. La rupe è visibile dall’Arcu de Corr’e Boi (‘il passo a corno di bue’, il più elevato dell’isola), che è un totem lunare contrapposto al totem fallico della rupe Iliàna, nel classico binomio Dea-fecondata-dal-Dio-fecondante. I nostri padri, che disseminarono di menhirs l’intera Sardegna (se ne contavano a migliaia), avevano nella rupe Iliana l’unico vero Grande Totem naturale, in dialogo con la Falce Lunata, divisi-uniti da vallate ricche d’acque perenni.
La base etimologica dell’oronimo è sumero-accadica: ilianūm, indicante genericamente un albero < sum. ilianum. Fu dunque la forma fusiforme della rupe, diritta come un albero sacro, a produrre questo nome. La rupe dovette essere considerata “l’albero” per antonomasia, ossia il phallos del dio-Toro. Il termine accadico ilānu ‘dio, deità’ (con riferimento speciale alla statua-menhir del Dio), nonchè il termine ugaritico Ilu indicante il Dio supremo sono, chiaramente, termini primari col quale ilianūm si fonde. Ilu ha pure l’aggettivale ‘Eljôn ‘l’altissimo’, che può essere anch’esso la forma che ha prodottoIliàna.
Quindi è chiaro che i lemmi sardi comincianti con la radice il- debbono essere riferiti, spesso se non sempre, a questi termini originari accadico e ugaritico.

ILODÉI. Il toponimo Ilodéi Malu significa ‘sito del Diavolo’ o, tout court, ‘Diavolo’. Si trova a Funtana Bona in agro di Orgòsolo, esattamente dove ora sta la caserma della Forestale. Ilodéi va scomposto in Ilódhe + suffisso territoriale (con base ebraica) -i. A sua volta Ilódhe è variante di Lodhe ‘volpe’, ‘Diavolo’. Vedi, per il semantema, Brabaìsu ma, per la forma, anche Lodé.
Comunque il toponimo può derivare pure dall’accadico ilūtu(m) col significato di ‘divinità, casa degli dei’. In tal caso Malu fu aggiunto dai preti cristiani per demonizzare il sito.

LÁURA termine greco-bizantino, λαύρα, significante ‘quartiere’ (Di.Sto.Sa. 832), da qualcuno raccordato alla base greca λας ‘pietra’. Nell’Ecclesiasticosignifica ‘chiostro, monastero: con celle separate’. Fu un’istituzione monastica bizantina, costituita da un raggruppamento di celle indipendenti, ma con una chiesa comune. In Sardegna il concetto è espresso con monistènemuristèni, o cumbessìa. Ma nel sottofondo della cultura sarda il termine láura rimane con molta forza attraverso vari toponimi. Furono i monaci basiliani a costruirle in Sardegna, e s’accontentarono di veramente poco. Il nome láura viene dato agli insediamenti dei monaci basiliani che dal IV secolo e poi dalla fine del VI secolo si sparsero un po’ ovunque al seguito delle truppe del duce bizantino Zabarda, poi continuarono a disseminarsi in Sardegna a seguito della lotta iconoclasta del 727 (Stefano il Giovane consigliava agli iconodùli di emigrare in paesi lontani per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Leone III l’Isaurico).
Le presenze di làure in Sardegna sono numerose, e ciò si deduce dalla storia, dall’archeologia, dalla toponomastica. Quest’ultima ci porta all’abitato diLùras, ch’ebbe origine da una láura bizantina. Ci porta sulla giara di Gésturi, dove le stupende láure (chiamate con ipercorrettismo is aúrras) sono sopravvissute nel Cuili Crabόsu (presso Scala s’Eramìda) e un po’ dovunque, adibite però a porcilaia. (Già Scala s’Eramìda ‘la risalita dell’eremita’, che da Sini conduce lassù, è prova dell’insediamento d’un eremitaggio ai bordi della Giara). A S.Vito, lungo la risalita che conduce al monte Lora, c’è il Cuìli Is áurras, con la solita capanna in pietra dalla sagoma e dal recinto caratteristici (per la forma della capanna, basta ricordare quella d’un celebre dolce torinese, il Gianduiòt). Sul monte Lora (che ne doveva essere zeppo, considerati i numerosi siti privilegiati: le cengie sui precipizi od i cocuzzoli) non si trovano più le capanne ma c’è una loro caratteristica base, un sito cacuminale appianato mercè una muraglia, per capire la quale basta visitare il basamento della fortezza punica di Saurrécci (Guspini), evidentemente riutilizzato da questi monaci. Saurrécci < sa urra béccia ‘la laura vecchia’. Dovunque ci sia una traccia o indizio d’un loro sito, lì si trova il fico e spesso anche l’ulivo ed il carrubo, i loro fruttiferi preferiti, capaci di dare cibo vegetariano a lunga conser­vazione.
Le láure sono i primi cenobî, manufatti ch’erano l’emblema della povertà dei monaci: un circolo di capanne. Láura è il secondo vocabolo della cristianità sarda: da akk. lawûm ‘circondare, mettere in circolo’ + rûmrū’urā’um ‘collega, amico, associato’: stato costrutto lawû-rûm, col significato di ‘circolo di associati’, ossia ‘cenobio’.

LODÉ comune delle Baronìe. Già da quando apparve in RDSard. a. 1341, Lodé non ha mai cambiato nome né forma. Forse non è un caso. Il toponimo è ritenuto incomprensibile. Per toglierlo dal mistero riprendiamo intanto il lemma sardo loddu, che significa ‘lurido, sporco, sudicione’. Wagner tralascia d’indicare l’origine di loddu dall’italiano lordo. Pittau lo incamera tra i vocaboli sardiani e propone il parallelo tra Lodé e il toscano-etrusco Loden(n)a. Forse ha ragione, perché lo stesso Sardella lo appoggia indirettamente (SLCN 445) indicando in Lodé un’origine sumera (LU2-DE = ‘il Signore giusto, santo, splendente’), ma più precisamente è lu ‘divampante’ + de ‘creare’, col significato di ‘Creatore divampante’ (riferito al Sole Dio Unico).
Per capire integralmente la proposta del Sardella rimando al lemma Liòri, in quanto anche Lode (ed il cognome Lodde) è uno dei tanti appellativi della volpe. C’è da supporre che l’intera popolazione di Lodé nell’alto medioevo si sia addossata le terribili canzonature dei preti cristiani per il fatto di favorire l’attività degli “stregoni”, onde tutto il villaggio fu marchiato con un nome “diabolico” e, in più, anche “sudicio”. Il fatto che il toponimo sia uno dei pochissimi ad esser rimasto stabile da oltre un millennio, la dice lunga sulla “maledizione” e la “rimozione” subita da questa popolazione per omnia saecula saeculorum.
Questa ricostruzione etimologica, in ogni modo, non mi conforta. Ritengo sia più congrua quella relativa a Ilodéi (vedi).

MATZANNI è una località montana in agro di Vallermosa, dove insiste un tempio punico e delle thóloi nuragiche interrate, con la stessa tipologia delle fonti sacre. Il toponimo è sardiano con base nell’akk. martianni ‘men, warriors’, con riferimento al fatto che il luogo sacro era dedicato agli eroi di quella località.

MASILÒGHI. È importante la notizia riportata da Dolores Turchi3 della festa di Santu Juvanne ‘e sos sordadéḍḍos, tenuta fino agli Anni Trenta del XX secolo presso S.Giov.Battista a su Gologòne, dal 5 al 13 agosto. «Tornavano in paese, a cavallo, con in groppa la fidanzata o la sposa, ma trovavano la strada sbarrata da un grande fuoco acceso davanti a una sorgente detta Masilòghi, poco distante dall’ingresso» di Olièna. «Si trattava di una grande pira, come quella che si costumava fare per la festa di Sant’Antonio Abate, sulla quale veniva poggiato un fantoccio fatto di paglia e ricoperto di stracci e di vecchie pelli... Quando i cavalieri venivano avvistati si dava fuoco alla pira e il fantoccio bruciava. Alla vista delle fiamme, che si levavano alte, i cavalli s’impennavano e spesso dame e cavalieri venivano sbalzati di sella».
La Turchi ricorda che la festa ha origini molto antiche, ed era riesumata specialmente in occasione di guerre, in particolare quelle navali fatte contro i Musulmani (quella centrale fu la battaglia di Lepanto). I soldati olianesi si raccomandavano a san Giovanni, ed una volta tornati lo onoravano in quel periodo. Il Mamuthòne, ossia il fantoccio, prima che fosse arso, era menato tre volte attorno alla vicina chiesa di san Francesco, poi veniva immerso nella fonte di Masilòghi. Dopo il rogo, cominciavano le danze e il divertimento si protraeva sino a tarda notte. La Turchi ricorda che nella Grecia arcaica quella del fantoccio annegato e bruciato era la sorte più comune delle vittime sacrificali, dei capri espiatori, del pharmakos, dei re sacri. Attorno a quel periodo, nell’antica Roma si svolgeva una solenne festa con luminarie dedicata a Diana Lucina (identificata con la Dea Madre mediterranea).
La Turchi (p. 66-67) suppone che Masiloghi fosse anticamente una fonte sacra. Il nome dei terreni circostanti è Prugatóriu ‘Purgatorio’, quindi è facile supporre che il sito fosse un luogo di purificazione, che lei ipotizza riservata agli affiliati ai Misteri Eleusini.
A parte il suo riferirsi ai Misteri Eleusini e non a quelli siro-fenici di Adone, l’interpretazione è giusta. Masilòghi è un composto sardiano con base nell’akk.masûm ‘detergersi, ripulirsi, purificarsi’ + lugû ‘porta, ingresso’, col significato sintetico di ‘Porta della Purificazione’.

MESSI. La Funtana Abbamessi si trova a Perdasdefógu. A Sàdali si trova Taccumessi; a Santulussùrgiu riu Messi. L’idronimo deriva dall’ass. mesû‘lavato, pulito’, ugar. mesû ‘lavare, pulire, purificare’: quindi il sintagma Abbamessi significò ‘acqua purificatrice’.

MÓDOLO. Vaia 3a.

MUTTEḌḌU. Vai a 3a.

NULUTTU (rio Nulùttu) in agro di Esterzìli; ma c'è pure il toponimo Su Nulùttu in agro di Ulássai. La base etimologica è il sum. nu ‘creatore, origine’ +lutur ‘bambino, giovinezza’. Il significato sembra essere quello di ‘Creatore di gioventù, di giovinezza, di bambini’. Forse in tempi arcaici si vide in quel rio apportatore di acque fresche e purissime quasi lo sperma del Dio della Natura, quindi un generatore di nuova figliolanza. Va da sé che le donne del villaggio anticamente dovettero recarsi in processione sino al fiume per imprecare figliolanza da Dio.

NURDÒLE nuraghe in agro di Oráni. Dolores Turchi4 informa che al suo interno c’è una grande vasca avente funzioni lustrali. Collegandosi al fatto che in agro di Dorgáli esiste un nuraghe detto Prugatóriu ‘Purgatorio’, e legando questo toponimo a tanti altri esistenti in Sardegna con pari nome, ipotizza che in Sardegna in età pre-cristiana ci fossero parecchi siti destinati alla purificazione, più che altro legata, secondo lei, al culto di Dioniso ed ai Misteri Eleusini. Elemento centrale di tale intuizione è il toponimo-idronimo Masilòghi (vedi più su). Quanto a Nurdòle, per esso è da supporre un composto sardiano con base nell’akk. nūru ‘luce, splendore (del Sole, ossia di Dio)’ + dulû ‘secchiello’ (nel senso di contenitore d’acqua) < sum. dula ‘vaso’. Il composto (stato costrutto nūr-dulû) indicò in origine il ‘nuraghe della purificazione’.

NURÉCI comune dell’Alta Marmilla, prossimo alle falde della Giara di Gésturi. Il toponimo apparve in RDSard. a. 1341 come Nurichi. Al pari del paese di Nurágus, sembrerebbe derivare il nome da nurághe, che è dal babil. nuar ‘tempio elevato’, con successiva metatesi tipicamente sardiana; oppure direttamente dal sum. nuragu ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’. Ma Nuréci potrebbe ricevere, oltre a questa, anche la seguente etimologia: sumero nu ‘creatore’ + akk. reu ‘creatore’, tautologia per indicare e onorare, col doppio nome ripetuto in due lingue successive, il ‘Padre dell’Universo’. Se fosse così, dovremmo ammettere che non solo nel piccolo altopiano di Genòni fu eretto un tempio al Dio Padre Onnipotente, ma che ciò avvenne anche aNuréci, il cui tempio divenne così famoso da dare il nome – per antonomasia – a tutto il paese.

NURRA. Vai a 2f.

OLÉRI. Vai a 3a.

OSPOSIDDA. L’alto Monte Osposidda (m 919) in agro di Orgòsolo si trova quasi alla base delle falesie del Supramonte. Un tempo era boscosissimo (oggi lo è per interventi forestali), ma la sua bellezza deriva principalmente dalla forma perfettamente conica. Abbiamo già notato la vocazione sacra in altri monti di forma similare: erano adibiti come altissimo altare del Dio Sole. Doveva succedere anche qui. Per Osporrái ho indicato la base in gospo, (g)ospo‘stanziamento’; per questo monte ribadisco il significato di ‘stanziamento’, cui s’aggiunge il significato già indicato per Osìdda, che è forma femminile etrusca Usilla per Usìl ‘Sole’. Quindi Osposìdda significa ‘tempio del Sole’, ‘stanziamento, luogo dedicato al Sole’.

PALU. Vai a 3a.

PALU IRDE o Balu Irde. Vai a Palu3a.

PANI LÓRIGA. Il toponimo di Santádi sembra un doppio cognome: Pani che significa ‘pane’ + Lòriga che indicò propriamente l’anello di ferro accanto alla porta d’in­gresso per legarvi le briglie del cavallo. I toponimi del Sulcis hanno spesso due cognomi, in virtù della vecchia usanza di connotare ambo i coniugi. Ma se al toponimo vogliamo dare anche la patente di nobiltà meritata da questo sito strategico contenente importanti vestigia fenicie, ci sentiamo di proporre la base più consona, l’accadico pānu, che per i semiti è la ‘faccia, il colore (della faccia)’ e più precisamente la ‘faccia del Sole, di Dio (che sfolgora rossa e incandescente)’. È il greco Πν, anch’esso originariamente riferito al Sole ed in seguito alla deità dei boschi. In ebraico si diceva penû ’El‘faccia del Sole, di Dio’. Anche la dea della fertilità e dell’amore, Tanit, era detta Tanit Panè Baal = ‘Tanit Volto di Baal’, come dire ‘Volto dell’Universo, del Dio più grande, quello che governa il mondo’. In fenicio p‛n significa ‘volto di…’ e pny ‘davanti a’.
Va da sè che Pani Lòriga fu, fin da età pre-nuragica, un luogo sacro dove si adorava il Dio Sole. Pani Lòriga significò, a quei tempi, ‘Corona del Sole Splendente’.

PISCÁNO. Il Monte Piscáno in agro di Ardaùli è noto anche per un nuraghe. Tenendo conto del fatto che i nuraghi erano altari del Dio Sommo (rappresentato dal Sole), va da sé che Piscáno è un attributo di Dio medesimo, dall’akk. pišqupirqu ‘redenzione’ (di una persona da un pegno o promessa solenne). Vai al lemma Piscu.

PISCU. C’è il Nuraghe Piscu in agro di Suélli. Tenuto conto del fatto che i nuraghi erano altari del Dio Sommo (rappresentato dal Sole), va da sé che Piscuè un attributo di Dio medesimo, dall’akk. pišqupirqu ‘redenzione’ (di una persona da un pegno o promessa solenne).

PUTTU CODÍNU. Vai a 2a.

ROMANZÉSU è una località in territorio di Bitti dove c’è un sito nuragico originale, con un vero anfiteatro shardana, l'unico sinora conosciuto nell'isola, il quale, essendo allagabile, sembra avesse la vocazione di piscina battesimale.
Il toponimo Su Romanzésu non ha mai ricevuto traduzione, ma soltanto l'attenzione di paretimologie che lo rendono equivalente all'it. romantico. In realtà il toponimo è spia di un antichissimo appellativo accadico rivolto al Dio Sommo. La base etimologica è Rīmē 'Toro divino' + Anu(m), Annum 'Dio del Cielo' < sum. an 'cielo'. C'è anche il composto accadico Rīm-Anum 'Dono di Anu', 'istituire dono ad Anu'. Con tutta evidenza, il luogo doveva essere dedicato al Dio Sommo del Cielo.
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=28995

RONCA, Ronco, Ronchi cognome anche italiano, di origine mediterranea, la cui base etimologica è la stessa del cognome sardo Brunco e del comunebruncufruncuruncu indicante il ‘grugno del maiale’. Ho già trattato quel lemma più su.

ROTTU in Gallùra è l’aia a fondo lastricato. L’origine del nome è tutto un programma, dall’assiro rutumrutturū’ūtu ‘compagno, socio; amicizia, associazione’. Appare evidente che queste aie circolari lastricate fossero oggetto di contratti associativi. Erano normalmente situate lungo le strade nuragiche, in zona franca, e dovevano essere curate e gestite collet­tiva­mente, anche per il carattere sacro annesso alle operazioni della trebbia, tenute come autentici momenti di festa.

SANTÁDI comune del Sulcis. Si vuole il toponimo di origine agionimica, corrispondente a Sant’Agata, perché secondo lo Spano (1882) in carte antiche figurerebbe nella forma Sant’Ada (Carla Marcato). Ma non convince. In Sardegna abbiamo troppi nomi di sante nati dal nulla. Questo termine ha forte attinenza coi termini anta (s’anta) e Antas (vedi). In accadico Antu è la dea del Cielo, paredra di Anu ‘dio del Cielo’ (OCE 538). In fenicio è la stessaAštart.
Considerata l’importanza di Santádi nei culti shardana e fenici (vedi il grande tesoro trovato intatto nella grotta di Su Benatzu), dobbiamo pensare a Santádicome a un paese che ha per nome un epiteto sacro.
Possiamo proporre due etimologie accadiche: la prima è ša Antu adû ‘il villaggio di Antu leader’; la seconda può essere da sāntusāmtu ‘alba’ + adû‘leader’: sāmt-adû, col significato di ‘Aurora (nostra) guida’. Si noti che il lemma sāntusāmtu ‘alba’ non fu altro che ša Antu ‘quella di Antu, relativa ad Antu’, ossia proprio l’Aurora, la dèa Antu che si eleva al Cielo).

SANT’ANNA ARRÉSI comune del Sulcis. È proposto dal Paulis come derivato dall’antroponimo latino Arn(i)ensis, mentre la Atzori propende per vederci il campidanese arrési ‘rettile’ o ‘volpe’. Ricordo anzitutto che questo antichissimo villaggio, abbarbicato ad un nuraghe millenario, è tipicamente agricolo e, come altre volte ho dimostrato, i villaggi agricoli di pianura prendono nome da funzioni agrarie o da erbe tipiche o da animali e simili. Osservando il toponimo, leggo in filigrana una paronomasia creata apposta dai monaci bizantini, noti per la foga di cancellare ogni e qualsiasi segno delle antiche religioni. Il sito, grazie proprio al nuraghe accanto al quale è cresciuto l'abitato, doveva essere sacro al Dio sommo del Cielo, che per i Babilonesi ed i Semiti in generale era AnuAnnum. In origine il toponimo doveva essere Annum + rīšu 'celebrato, adorato': ci troviamo così dinanzi al nome + attributo del Dio altissimo.

SANT’ELÌA nome di varie località, ed anche cognome. È corruzione del cgn Santeddu (vedi), operata, ovviamente, dai preti bizantini durante la guerra contro le religioni “pagane”. Infatti Santeddu (in origine SantelìaSant’Elìa) era scritto sāntellu, stato costrutto di sāntusāmtu ‘alba’ + ellu ‘(ritualmente) puro’, col significato di ‘Alba, Aurora pura, sacra’ (epiteto riferito alla dèa Antu, la paredra del dio Anu (Dio sommo del Cielo, che rappresentava il dio Sole: infatti il lemma sāntusāmtu ‘alba’ non fu altro che ša Antu ‘quella di Antu, relativa ad Antu’, ossia proprio l’Aurora, la dèa Antu che si eleva al Cielo).
Da tutti i ricercatori è riconosciuto che il nome personale Elìa mascherò il Dio sommo del Cielo, ossia il fenicio-ebraico EliElu, che nella nuova religione cristiana fu degradato a “santo”. Quindi è ovvio che SantelìaSant’Elìa può anche significare ‘Ascesa di Eli’ ossia ‘Ascesa del dio Sole’, ‘il sorgere del dio Sole’. Sono quindi valide ambo le ipotesi qui fatte, quella di sāntellu e quella di sāntu Eli, Elu.

SCALA MUGHÉRES è un sito del territorio di Ardaùli dove stanno delle domus de janas. Per approcciare acconciamente l’etimologia occorre sempre ricordare che le domus de janas furono dei luoghi sacri, sorta di “chiese”, dove i parenti o l’intera comunità in giorno preciso si recavano a pregare e offrire doni o sacrifici. In tal guisa, l’etimologia può essere individuata nell’akk. muru (un genere di offerta), o (un genere di preghiera), o (una costruzione cultuale). Scala Mughères indicò una delle tre cose. Non indicò giammai la ‘scala delle mogli’ (spagnolismo), che è una paronomasia intervenuta con la conquista spagnola secondo il seguente processo: muru > muhére (diventato il plurale mujeres in virtù della pluralità degli scavi).

SERRÈLI cognome per il quale una prima ipotesi etimologica può essere quella di un composto d'origine accadica, šerru(m) 'bambino', 'discendente' + eliš'come un dio', col significato complessivo di 'discendenza divina'. Ma un esame più attento fa propendere per un'origine ugaritico-ebraica: da rry 'altura' +Ilu 'Dio', ebr. El, col significato complessivo di 'altura di Dio' ossia 'altura dove si adora Dio’, dove c'è un tempio uranico per onorare il Dio del Cielo.

SICCUSu Siccu è il nome d’un litorale oggi inglobato nell’area urbana di Cagliari, tra il porto militare ed il Canale di Mammarranca (o delle Saline). Il sito originario doveva stare esattamente alle falde e davanti all’altura calcarea oggi dominata dalla chiesa catalana di Bonaria (l’attuale sito pianeggiante ai suoi piedi – Piazza dei Centomila e dintorni – è chiamato Su Siccu per estensione, essendo stato riempito con le macerie dei bombardamenti della Seconda Guerra mondiale).
L’origine del toponimo dovrebbe essere dal bab. sikkum ‘bordo, margine’, da interpretare come ‘molo, linea regolare di battigia (ai piedi del colle)’: non a caso vi approdò la flotta d’invasione iberica nel 1323. Va rammentato che ai tempi dei Fenici questo sito doveva essere poco o punto antropizzato (esclusa forse l’esistenza di un’area cimiteriale). Se attività c’erano, esse erano al servizio della vicina salina, per l’ammasso del sale destinato all’imbarco. In ogni modo lungo il litorale doveva passare una strada che da Karallu (Cagliari) procedeva a sud transitando per Lapòla (vedi lemma), con capolinea al tempio diVenus Ericina sul Capo S.Elia.
Venus Erycina (la Venere o Astarte di Erice) godette d’un culto molto esteso, tanto ch’era adorata persino a Cartagine, esattamente a Sicca Veneria, borgo fondato dai Siciliani alla sommità d’un rilievo alto 770 m presso la casbah di El Kef, da cui proviene una statua di Venere. «Il culto africano di Venus Erycina è documentato specialmente nella narrazione di Eliano relativa al trasferimento della Dea di Erice per nove giorni ogni anno, in Africa, e del suo ritorno in Sicilia. Valerio Massimo aggiunge la notizia della prostituzione sacra a Sicca Veneria»5. «Anche per la Sardegna dobbiamo ammettere una derivazione siciliana, mediata dai Punici, del culto dell’Erycina, documentato in modo diretto in una iscrizione punica di Carales. Il tempio di Aštart ericina di Carales venne scoperto nel 1870 da Filippo Nissardi alla sommità del promontorio di S.Elia… presso la torre omonima. All’interno [del tempio ridotto alle fondazioni] era applicata una lastra in calcare frammentata, con iscrizione dedicatoria ad Aštart Ericina, in punico». «Le dimensioni ridotte dell’epigrafe denunziano evidentemente il carattere privato del voto, secondo il modulo noto ad esempio nel tempio di S.Nicolò Gerrei (Cagliari) dove un Cleon salari(ussoc(iorums(ervusdedit Aescolapio Merre un altare in bronzo» (Zucca: idem).
Sono grato a Raimondo Zucca delle preziose note, ed altrettanto grato all’archeologa Carmen Locci che me le ha fornite ed illustrate. Ciò mi consente d’ipotizzare, a sud di Karallu, un terzo sito di prostituzione sacra, oltre a quello di Lapòla e di Capo S.Elìa, un sito incastonato probabilmente dove fu poi edificata la chiesa catalana di Bonaria. Non dovrebbe meravigliare più di tanto una pletora di lupanari in quel di Karallu, considerato che, intanto, tutte le donne dovevano prostituirsi almeno una volta prima di convolare a nozze.
Mi è forza insistere sulla tesi del terzo lupanare, non tanto e non solo per la ripetizione in terra sarda di un toponimo (Siccu) pressoché identico a quello del territorio cartaginese (Sicca), ma perché ancora oggi in Sardegna sopravvive un gesto “volgare” chiamato proprio sicca (altrove ficca) o meglio, al plurale,siccasficcas. Il gesto si fa infilando il dito pollice tra l’indice e il medio, stringendo il pugno (anzi i due pugni, per raddoppiare l’effetto) e puntando lesiccas contro la persona interessata, o contro il cielo in segno di maledizione.
Per la verità, le siccas non sono sempre dei gesti maledicenti: oggi spesso lo sono, ma ancora più spesso sono apotropaici, un tempo dovevano essere soltanto segni apotropaici. Ciò dimostra che, dopo quasi duemila anni, il popolo, redarguito dal clero cristiano, è ancora indeciso sulla finalità delle siccas. Dobbiamo ricordare che, nella ritualità antico-romana e mediterranea in generale, fare la sicca e toccarsi con essa la fronte (meglio: fronte-bocca-petto, proprio come oggi si fa il triplice segno della croce) era un gesto propiziatorio rivolto – al solito – alla divinità che sovrintende alla fertilità ed alla vita sul pianeta.
Che la sicca indicasse, schematicamente, un organo sessuale, è chiaro. Va chiarito quale. La sicca è fatta principalmente dalle donne. Poiché gli uomini – oggi ed anche in epoca romana – usano ed usavano fare lo stesso gesto con altre dita (il medio dritto e tutte le altre dita piegate, in modo che risalti lo schema d’un pene eretto), è chiaro che le donne con la sicca intendevano esprimere la vulva, dove il pollice appena emergente dal pugno indica il clitoride ch’emerge dalle grandi labbra.
Questo stupefacente impasto di gesto, di toponimo, di storia sacra mediterranea è una interessante sopravvivenza che il clero cristiano è riuscito (non del tutto) a cancellare. Sembra ovvio che la Sicca in epoca cartaginese rappresentasse simbolicamente, per tutto il popolo sardo, proprio il culto di Aštart d’Erice. Infatti la sicca/ficca sopravvive ancora oggi in tutta la Sardegna.
Tutto questa disamina non deve far dimenticare che nella Sardegna interna vige ancora oggi, con lo stesso significato, il termine friscas, dove si scorgono dei significati convergenti con quelli qui esaminati. La base etimologica di friscas è l’akk. per’uperu ‘bud, shoot, gemma, germoglio’, scion, rampollo, descendant’ + isu(m) ‘assegnazione’, ‘offerta’. I due termini accadici, uniti in stato costrutto e soggetti a metatesi, sembrano dipingere un quadro tenebroso per noi moderni: per’-isu > fr-isca sembrerebbe interpretabile come ‘assegnazione, destinazione (del primogenito: bud, shoot, scion) alla divinità’. Ma potrebbe essere interpretato anche come ‘offerta delle primizie’ (della terra).

SIGHIÁNZU è un nuraghe in agro di Ardaùli. Il termine sembra uno stato costrutto accadico, esattamente un termine sacro, un epiteto legato al fatto che il nuraghe fu l’altare del Dio Sommo (nella figura del Dio Sole). Sighiánzu potrebbe essere scomposto nell’akk. u ‘detenzione, cattività’ o siki ‘pelliccia, piumaggio (d’animale) + Anzû ‘aquila con testa leonina’: stato costrutto i-Anzû, col significato di ‘detenzione di Anzu’ oppure siki-Anzu ‘piumaggio di Anzu’. Anzu, originaria aquila-araldo di Ningirsu che era patrono della città sumerica di Lagash, fu talvolta identificato con lo stesso dio. In altri momenti vediamo che Enki, dio della sapienza e delle arti, raccomanda il mostro Anzu al servizio di Enlil (figlio di An, arcaico dio dell’aria).
Un’altra etimologia di Sighianzu può essere dal sum. sigi (una dèa delle nascite) + an ‘cielo’ + zu ‘conoscenza’, col significato di ‘dea che genera la conoscenza’, oppure sigi-Anzu col significato di ‘Madre di Anzu’.
Per una maggiore conoscenza di Anzu, preciso che Imdugud o Im.dug.ud.mušen è probabilmente il modo corretto con cui i Sumeri chiamavano questa creatura terrificante. Il suo equivalente in accadico è An-zu-u.
L'origine e il significato del nome della creatura sono ancora praticamente sconosciuti. È certo che con AnzuAnzud veniva identificato un uccello rapace gigantesco che gli stessi Sumeri immaginavano simile alla fitta e spessa nube che ricopre il cielo annunciando l'arrivo di un uragano. Il suo volto e la sua testa sono come quelli di un giovane leone, le sue ali d'aquila gigantesche agitandosi provocano turbini e tempeste di sabbia. La combinazione di parti di più animali letali (leoni, serpenti, scorpioni,aquile) nell'iconografia mesopotamica solitamente veniva adoperata per indicare una manifestazione demoniaca che, come già descritto, era ritenuta pericolosa ma non necessariamente malvagia. Infatti l'immagine di Anzu è stata ritrovata in numerosi manufatti, anche di tipo cultuale, fin dal periodo sumero più antico. In tali raffigurazioni lo vediamo sia come "predatore" che come "protettore". Diffusa è inoltre la sua presenza nei testi letterali come "Lugalbanda e Enmerkar" e il "Mito di Anzu e le Tavolette dei Destini". Nel primo componimento, Lugalbanda stesso, conscio della potenza di tale essere, se lo rende amico donandogli del cibo e promettendogli la costituzione di un culto in suo onore. In cambio la creatura divina lo ricompensa con poteri sovrannaturali. Nel secondo poema, molto più famoso e interessante, Anzu, dapprima al servizio di Enlil, sovrano degli Dei, lo tradisce rubandogli le insegne talismaniche dell'Autorità Suprema, le Tavolette dei Destini. Tale evento provoca un collasso dell'andamento cosmico, dell'ordine universale. Il racconto si conclude con l'intervento di Ninurta che sconfigge Anzu, recupera le preziose tavolette e riporta così l'ordine al mondo.

SIRIMÁGUS. Il Monte Sirimágus, in agro di Carbònia, fu ritenuto l’abitazione del Diavolo. Vietato portarci le greggi, andare a far legna, avviare coltivazioni. Sta al centro di un triangolo tabuico nell’area collinare tra Carbònia, Tratalìas e Perdáxius. Soltanto le pendici del Monte fanno eccezione, grazie alle sorgenti. L’area è meglio nota come Sa schìna de s’Ifférru ‘la schiena dell’Inferno’. Si dice però (ecco il fatto illuminante) che fino a circa 400 anni fa il Monte fosse meta di pellegrinaggi cristiani: ai canonici che ci avevano eretto una chiesa si portavano cibi e doni. Qualcosa andò storto, e la zona divenne off-limits. Sino a poco tempo fa, le vecchie dicevano che chi si avventurava rischiava di venire schiacciato da massi rotolanti.
La memoria della gestione pretesca delle processioni riguarda, a quanto pare, la volontà della Chiesa cattolica di controllare certe processioni paganeggianti. Che poi tale controllo sia cessato con l’avanzare dell’Inquisizione e della Controriforma, fu soltanto perché si preferì rendere maledetto il sito. Queste notizie, estrapolate da pag. 39 de L’Unione Sarda del 16 luglio 2006 (articolo di Andrea Scano), aprono uno squarcio sui processi di dominio della Chiesa, operati sino ad epoche recenti, considerate le varie tendenze paganeggianti ancora presenti nelle tradizioni popolari.
Il mistero di quelle processioni pagane e della loro logica intrinseca può essere chiarito soltanto con l’indagine etimologica, mediante la quale si capisce cheSirimágus è un composto sardiano con base nell’akk. īru(m) ‘esaltato, supremo, splendido’ di un dìo + maû(m) ‘delirare, diventare frenetici’. Si capisce allora che il Dìo venerato sul Monte era il dio della Natura, destinatario delle processioni bacchiche e orgiastiche mirate alla rigenerazione.

SPINELLI cognome di area italiana avente a base il cgn Spina, che è un composto avente la base nell’akk. sippu(m) ‘contrafforte, sperone’ delle mura cittadine + īnu ‘punto di vedetta’ (letteralmente: ‘foro per spiare’), col significato complessivo di ‘contrafforte di guardia’. La sua trasformazione fonetica passa per lo stato-costrutto sipp-inu > s’ippìna (inteso poi come ‘la spina’) > spina. Quindi in Sardegna Bruncu Spina (la vetta gemella di Punta la Marmora nel Gennargentu) risulta essere una tautologia che indica lo stesso fenomeno. Nel caso di Spinelli, al cgn Spina è stato apposto il suffisso -élli che denota qualcosa di sacro, di rituale, dall’akk. ellu ‘sacro, ritualmente puro’. Il significato di Spinelli fu, dunque, ‘vetta sacra’, ‘altura sacra’.

TÀNGARI cognome in Oristano ma di area italiana, che non corrisponde al sostantivo offensivo tàngarotànghero, come invece propone Pittau DCS. A mio avviso, la base è accadica, da dânudiānum ‘dare giustizia’, ‘esercitare la giustizia’ + arû ‘santuario’, col significato di ‘santuario dove si amministra la giustizia’.

URPÌDAPardu Urpìda è un prato alquanto vasto e molto umido, che sta alla base della falesia trachitica sotto l’abitato di Ardaùli, nella quale sono state scavate delle domus de janasUrpìda non ha alcuna attinenza col sardo ùrbidu, che invece è un ‘viottolo stretto e ingombro di selva’, una ‘forra’, spesso con rocce alte che la delimitano.
Il lemma Urpìda può avere attinenza con la sacralità del sito, nel quale forse il popolo si riuniva in preghiera davanti al tempio rappresentato dalle domus de janas. Se l’ipotesi è congrua, la base etimologica starebbe nell’akk. urû ‘scodella, conca’ + pīdu ‘perdono, indulgenza’: stato costrutto ur-pīdu col significato di ‘valle, conca delle indulgenze’.

UTA. Vaia 3f.

VALVERDE. È paronomasia di Palu IrdeBalu Irde. Per la discussione vai a Palu3a.

VILLA CLARA. Oggi il poggio calcareo dove sta la facoltà di Lettere è inglobato nell’abitato di Cagliari. Lo possiamo tradurre come Villa Claro, dandole il nome giudicale del sito di S.Chiara a Balláo. Anche la chiesa di santa Chiara a Cagliari era situata in una scarpata calcarea, esattamente come a Villa Clara. In quel di Balláo si pensa esistesse un tempio ad Apollo Clario, ch’era un Apollo oracolare come l’Apollo Pitio, ma proveniente dall’Anatolia. Meloni (398) dà qualche chiarimento al riguardo. «Un certo interesse nella storia delle istituzioni religiose sarde riveste l’iscrizione rinvenuta fra le rovine della chiesetta di S.Nicola presso Villa S.Pietro di Pula e da riportare, quindi, a Nora, con una dedica “Agli Dèi e alle Dee secondo l’interpretazione dell’oracolo di Apollo Clario”: Dis Deabusque secundum interpretationem oracoli Clari Apollinis. La stessa dedica è attestata in altre quattro province dell’impero, in Britannia (ove il dedicante è una coorte ausiliaria di stanza nell’isola), in Dalmazia ed in Africa, nella Numidia e nella Mauretania Tingitana. Tutte e cinque le iscrizioni vengono ritenute coeve e, sulla base del nome della coorte di Britannia ( la I Tungrorum), datate fra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C.; inoltre, poiché solo un’alta autorità poteva dare disposizioni per porre questa dedica in province dell’impero tanto distanti fra loro, si è pensato allo stesso imperatore Settimio Severo (193-211) o, preferibilmente, al figlio Caracalla fra il 213 e il 214. L’oracolo Clario era quello di Claro, una località della Lidia, nella costa occidentale dell’Asia Minore, ed è probabile che i dedicanti fossero sempre reparti militari. Il culto di Apollo sembra attestato in Sardegna per Carales dal riferimento di una «Via Sacra detta di Apollo» – per Sacram Viam quae dicebatur Apollinis – che si trova nella Passione di S.Saturno, se si accetta la storicità della notizia».
Dopo questa dotta presentazione, notiamo che l’etimologia del lat. clārus ‘luminoso, famoso’ si basa sull’akk. qalûm ‘ardere, raffinare’, qālû ‘acceso’ (OCE II 368). Si deve pensare che in origine questi toponimi e le loro località riguardassero il culto del Dio Sole.

VILLAGRANDE STRISÁILI comune dell’Ogliastra. È diviso in due villaggi, Villagrande S. e Villanova S.; il secondo toponimo è un’evidente derivazione dal primo, per una suddivisione insediativa resa necessaria al fine di gestire più correttamente i terreni migliori e più estesi, che sono gli alti-pascoli arborati.
Il secondo lemma del toponimo apparve già nel RDSard. a. 1341 come Strissayli, poi Strisaili. L’abitato giace in una pianura montana su granodioriti tonalitiche, con suoli buoni per la semina dell’orzo. Oggi il villaggio, che sta vicino al lago alto del Flumendosa, è vocato al pascolo, ed infatti il territorio è tutto un pascolo arborato. L’appellativo Strisáili, antichissimo, deriva sicuramente dal fatto che l’ondulato altipiano, ricchissimo di pascoli e d’acque (ci nasce persino il fiume più potente dell’isola, il Flumendosa), fu ritenuto un autentico dono di Dio, e così nominato, dal babilonese šitrau ‘splendidissimo, superbissimo (epiteto di dei)’ + ilu ‘Dio’, su cui fu in seguito operata la classica metatesi. Strisaili (da Šitrai-ilu > *Štrisai-ilu) significa dunque ‘Dio splendidissimo’.


1  Salvatore Dedola, La toponomastica in Sardegna, Grafica del Parteolla, 2012
2  Per la cui etimologia vai a Salvatore Dedola, La Flora della Sardegna
3  Maschere, Miti e Feste della Sardegna 60 sgg
4  Masche, miti e feste della Sardegna 70