mercoledì 30 maggio 2012

le domus de janas

La tipologia delle domus é alquanto varia:il tracciato piú semplice consiste in un'unica celletta,che puó essere rotonda o quadrangolare,ma puó consistere anche in un corridoio piú o meno lungo,oppure in un semplice pozzetto cui si accede attraverso un foro circolare.
É in quelle piú complesse,peró,che si puó cogliere il maggior sforzo architettonico,rivelatore,come dice l'archeologo Giovanni Lilliu, ' di un mondo carico di spiritualitá e di vita ideale,non disgiunto dai bisogni concreti'.
Alcune domus de janas sono davvero monumentali,formate da numerosi vani e sostenute da pilastri e colonne.Una delle piú grandi in assoluto é quella che si trova nel complesso di Sant'Andrea Priu,presso Bonorva: una ventina di aperture scavate nella parete rocciosa,precedute da solenni colonne che fanno pensare ad un principesco palazzo sotterraneo.
Non a caso é stata paragonata al famoso labirinto maltese di Hal Saflieni.

(dal libro 'Luoghi ed esseri Fantastici della Sardegna" edito da L'UNIONE SARDA,scritto da B.Vigna-G.Caprolu,con illustrazioni di P.L.Murgia


Da un disegno di P.L. Murgia




lunedì 28 maggio 2012

antichi popoli del mediterraneo

Pierluigi Montalbano - Capone Editore
Antichi popoli del Mediterraneo
Pelasgi,Minoici,Haou Nebout,Micenei,Kepthiou,Egizi,Hyksos,Filistei,Sherden

Link per candidare il libro al premio letterario "I Popoli del Mare"


Il mare,fin dall'alba dei tempi,rappresenta una risorsa vitale per l'umanitá.Le piú floride civiltá si svilupparono in prossimitá delle coste,laddove le risorse ittiche ampliavano la scelta dei prodotti commestibili e le foci dei grandi fiumi regalavano acqua dolce,terreni fertili e possibilitá di trasporto su zattere.
Circa 15.000 anni fa lo scioglimento dei ghiacci provocó l'innalzamento del livello del mare di 150 metri,costringendo l'uomo ad abbandonare le zone precedentemente occupate e sfruttate;uomo che,allo stesso tempo,affrontava la necessitá di un rinnovamento delle tecniche di caccia,dovendo adattarsi all'estinzione dei grandi animali conseguente ad un profondo cambiamento climatico.
Sfruttando le  conoscenze nautiche,acquisite in millenni di navigazione sottocosta,i piú audaci si spinsero verso luoghi con clima mite,approdando in quei territori dove l'agricoltura poteva diffondersi.
In mancanza di testi scritti,le testimonianza archeologiche portate alla luce lasciano molti dubbi sull'origine dell'uomo neolitico.Conosciamo il suo "stile di vita"ma non riusciamo a capire  a fondo i meccanismi che hanno comportato il piú grande salto evolutivo della storia dell'uomo.Uno degli indizi piú efficaci per capire l'evoluzione degli antichi popoli del Mediterraneo é costituito dalle rotte navali dell'ossidiana,percorse almeno dal 10.000 a.C.
La capacita' di addomesticare piante e animali,il culto dei defunti,le tracce architettoniche e la religiositá basta sulla Dea Madre arricchiscono il quadro d'indagine di questo lavoro.
Curiosamente la civiltá piú evoluta della storia marinara,la minoica,non aveva necessitá di costruire fortezze difensive per proteggere i porti: i minoici dominavano il mare e  nessuno osava aggredirli.
Solo una catastrofe naturale,l'eruzione del vulcano Santorini,che colpí il centro nevralgico del loro impero,oscuró quella stella.
Il libro si chiude con un approfondimento su una delle piu' antiche e misteriose civiltá occidentali,quella nuragica.
Porti e approdi della Sardegna,sono descritti minuziosamente,cosí da proporre al lettore un esempio di civiltá costiera dell'epoca,capace di edificare oltre 8000 torri per il controllo del territorio e per altre funzioni.



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venerdì 25 maggio 2012

dee ed esseri infernali

Si puó ragionevolmente ritenere che,in un tempo antichissimo,le janas siano state le divinitá pagane delle popolazioni sarde che poi ne hanno tramandato il ricordo attraverso la tradizione orale. Queste entitá dei boschi e delle fonti hanno visto mutare nel corso dei secoli la loro primigenia identitá. Da divinitá agresti,le janas sono divenute esseri dotati di poteri magici,capaci di influire sul destino degli uomini donando loro enormi ricchezze o colpendoli con la sventura. Ancora oggi di una persona particolarmente fortunata si usa dire che è bene fadada;al contrario,si dice male fadada per chi è incorsa in una disgrazia. Un'altra curiosa espressione é l'imprecazione 'mala jana ti currada' (cattiva fata ti insegua). 

Come giá detto,con l'avvento del cristianesimo si cercó di riportare entro un ambito cristiano i miti pagani e le entitá soprannaturali presenti nelle credenze popolari. Le janas vennero cosí declassate al rango di streghe e ritenute capaci di compiere sortilegi per pura crudeltá.Divennero delle creature infernali da cui era possibile difendersi soltanto con la preghiera o con l'ausilio di cose benedette quali la Bibbia,i crocifissi,la terra di camposanto. Questa evoluzione puó forse aiutare ad interpretare la presenza,tra le figure della tradizione,di personaggi contradditori quali Giorgia Rabiosa,Maria Mangrofa,Maria Abbranca ed altri. Si tratta di donne dotate spesso di poteri magici,descritte a volte come demoni o streghe dalle fattezze orribili;altre volte come creature benefiche ricche di virtú e qualitá.

In una leggenda si parla di una maga di nome Zicchiriola,che viveva in una grotticella insieme ad altri 'jannaressos' (questo il nome che viene dato agli abitatori delle domus de janas).
Si dice che possedesse una grossa conchiglia capace di produrre un suono simile a quello del corno.
Suonando questo strumento Zicchiriola attirava nella sua caverna le ragazze brutte per insegnare loro le arti magiche.

Altre storie riferiscono di una bellissima fanciulla di Orosei,dai capelli lucenti come seta,il cui nome era Maria Mangrofa.promessa in sposa ad un bel giovane,fu da questi abbandonata alla vigilia delle nozze.
Per la disperazione la ragazza lasció il suo paese ed andó a vivere in una grotta,trascorrendo tutto il tempo a filare.Poiché la grotta era molto bassa,Maria divenne ben presto gobba.
Anche i capelli persero il bell'aspetto di un tempo e a causa dell'umido si fecero ispidi e impettinabili.Perse anche tutti i denti e il suo aspetto divenne orribile.La gente inizió ad evitare di passare da quelle parti e si sparse la voce che Maria fosse una strega.
Costretta alla solitudine,quando la povera ragazza incontrava qualcuno faceva di tutto per trascinarlo nella sua grotta,promettendogli preziosi regali in cambio di un pó di compagnia.
pare infatti che dentro la caverna Maria conservasse i bauli contenenti il suo ricco corredo e i doni ricevuti per le nozze.
foto presa da  http://www.contusu.it/leggende-e-tradizioni/232-il-tesoro-di-maria-mangrofa


Un'altra tradizione vuole che Maria Mangrofa dimorasse lungo un tratto del fiume cedrino,in una zona ancora oggi chiamata 'sa costa de zia Maria Mangrofa'.
La donna sarebbe stata la custode della sorgente de Su Gologone,alle cui acque si attribuiva la proprietá di guarire le malattie degli occhi. Non a caso poco distante venne costruita la chiesetta di Santa Lucia (la santa protettrice della vista) i cui ruderi sono ancora visibili.

(dal libro 'Luoghi ed esseri Fantastici della Sardegna" edito da L'UNIONE SARDA,scritto da B.Vigna-G.Caprolu,con illustrazioni di P.L.Murgia).

Su Gologone
foto presa da http://lampinelbuio.iobloggo.com/archive.php?y=2006&m=04

giovedì 24 maggio 2012

cognomi sardi


di   Salvatore Dedòla.


Credo opportuno elencare in anteprima qualche cognome, facente parte di una ricerca completa, di imminente pubblicazione, relativa ai cognomi della Sardegna, dei quali sarà restituita la vera etimologia, in sostituzione di quelle improprie o inverosimili escogitate senza alcun metodo da altri linguisti.


BARRANCA cognome che Pittau presenta come spagnolo (Madrid etc), derivato dal sost. barranca ‘burrone, dirupo’, di origine prelatina. La proposta del Pittau s’ingaglioffa con le proposte dei linguisti spagnoli (es. il Corominas), che non sanno precisare quale sia il lemma basilare prelatino che avrebbe dato origine a barranca.

In ogni modo, credo più congruo ipotizzare per lo sp. e sardo Barranca la base accadica barrāqu ‘un ufficiale di corte’, con successiva epentesi di -n- eufonica. Una variante del cognome sardo è Baranca e pure Branca, anch’essi corretti da epentesi, i quali, al pari di Barranca, sono varianti di Barracca (vedi).
Occorre notare che ci sono pure altri cognomi sardi corretti dall’epentesi eufonica -n-, es. Burranca e Murranca (vedi), per i quali ipotizzo un diverso etimo.

BARRERA cognome gallurese che Pittau pensa sia originato dal catalano-spagnolo barrera ‘barriera’. Come sempre Pittau preferisce le vie più facili e sbrigative, che sono quelle della paronomasia, senza rendersi conto che in qualunque parte del Mediterraneo sarebbe stato difficile giustificare un cognome del genere, il quale non si riferirebbe né a cose utili alla società né a idee condivise dalla società.

Occorre andare al fondo della questione con scelte coraggiose, anche se possono apparire “fantasiose” a chi non ha mai riflettuto che il paniere dei cognomi sardi è un immenso crogiolo nel quale sono confluiti e sono ancora conservati, in forma cristallizzata, moltissimi appellativi o nomi di cose sardiane, di epoca nuragica e prenuragica.
Così è per Barrèra, un composto basato sull’akk. warûm ‘un copricapo’ + erû(m) ‘aquila, avvoltoio’ (stato costrutto war-erû > *barréru > Barrèra), col significato di ‘copricapo di aquila’, ossia copricapo fatto di piume d’aquila. Il pensiero di qualcuno andrà al diadema tipico dei capi degli Indiani d’America, mentre io penso al tipico copricapo di piume che rappresentò l’emblema della nazione Shardana, quella nazione che si auto-rappresentò nei propri bronzetti e che fu immortalata dal Faraone nelle epiche battaglie sul Delta.

BARRÌLE, Barrìli cognome pansardo che Pittau reputa propriamente italiano, corrispondente al sost. sardo barrile, -i ‘barile’, derivato dallo sp. barril. In alternativa lo considera italiano tout court. Pittau, nella sua immarcescibile idiosincrasia contro tutto ciò che è semitico, non potrà mai ammettere che Barrìli è un antichissimo epiteto riferito al Dio Sommo del Cielo, ad Ilu il dio dei Fenici, degli Ugaritici, dei Aramei, con base nell’akk. warûm ‘un copricapo’ + Ilu ‘Dio’ (stato costrutto war-Ilu), col significato di ‘copricapo di Ilu’ (ricordo che Ilu fu spesso rappresentato con lo stesso copricapo di piume col quale sono stati eternati gli Shardana).


BITTA cognome sul quale Pittau fa quattro ipotesi etimologiche: 1 corrisp. al sost. bitta, femm. di bitti ‘caprioletto, cerbiatto, mufloncino’; 2 corrisp. al sost. bitta ‘vetta, cima, ramoscello’ dal corrispondente italiano; 3 corrisp. al sost. bitta, vitta ‘benda, cordone, nastro’ < lat. vitta; 4 cgn propriamente italiano corrisp. al femm. del nome pers. Bitto, Vito.

Non vale assolutamente la pena d’inseguire Pittau nelle sue ipotesi “italianistiche” (che sono le ultime tre), poichè esse seguono la scia di mere apparenze fonetiche, senza riguardo alla storia e all’evoluzione dei cognomi sardi.
Quanto alla prima ipotesi, aggancio la discussione e l’etimo al cgn Bitti, sul quale mi attesto.

BITTI, Bitta. É un cognome; ma il primo termine appartiene pure a un comune della provincia di Nùoro. Esso ricorda per assonanza il fenicio bt ‘casa, abitazione’, l’ebr. beit ‘casa’, ed il genitivo possessivo accad. biti ‘della casa’ (OCE 88).

Ma in sardo bitthi/bizzi è il ‘piccolo del daino’. In logud. è chiamato bitti il ‘daino’. In Gallura è chiamato bittu il ‘muflone’. Nel Nuorese è chiamata bitta, betta la ‘cerva’. Questi nomi di animale derivano dal lat. bestia ‘animale: in genere’. Ma hanno l’antecedente nell’accadico.
Tanto per cominciare, l’origine del toponimo Bitti/Bitthi non è latina ma sardiana. Esso fa riferimento indiretto alla bellezza e alla ricchezza faunistica delle antiche foreste sarde e, al pari del nome comune bitti, bitta, ha la base nell’akk. bintu, bittu ‘figlia’, bīnu ‘figlio’ < binûtu ‘creazione, creatura’. Cfr. toponimi Bitte, Bittaléo, Bittaló, Bitaló, Bittalói, Bittelotte, Bittita, Bittitá, Bittitái, (con circospezione: Cala Bitta in Gallura e Bitticolái presso Dorgali).

BONA cognome che Pittau, al solito inseguimento dell’omologazione fonetica, crede di origine prettamente italiana, proponendo tre opzioni: 1 l’agg. bona ‘buona’ (di donna); o addirittura corrisp. al femm. del masch. bonu < lat. bonus; 3 infine pensa a un cognome propriamente italiano.

E sì che il cognome è italiano. Ma pensare, con estrema faciloneria, alle due prime soluzioni, solo per un richiamo fonetico, è faccenda che non può riguardare un linguista.
Bona è un antichissimo termine mediterraneo, quindi anche italico, basato sull’akk. būnum‘uccello’.

BOSU cognome pansardo che Pittau considera propriamente italiano, da Boso, che secondo lui deriva da un aggettivo germanico *boso ‘cattivo’. Non è così. Non si può andare all’inseguimento di una omologazione fonetica qualsivoglia, a costo di inventarla (come in questo caso) e comunque di andarla a prendere a casa del diavolo.

Bosu è un cognome prettamente sardiano, basato sull’akk. būṣu ‘bisso’, ‘lino di qualità fine’.

BOTTA cognome sul quale Pittau fa tre ipotesi etimologiche, andando a cercare le omologazioni fonetiche presenti attualmente nei lessici dell’alto Mediterraneo. Comincia con ipotizzare una corrispondenza col sost. it. botta ‘motto pungente’; poi pensa a un cognome italiano di significato uguale; infine pensa al sardo botta ‘scarpa’ < cat.-sp. bota. La terza ipotesi è giusta. Ma Pittau, al solito, non va oltre, nel senso che si appaga nel credere che tutto abbia avuto origine nella penisola iberica. Non pensa affatto che Botta sia una omologazione, ossia una sardizzazione del cgn sardo Scarpa, dal popolo sentito a torto come corrisp. all’it. scarpa (mentre invece è un cognome di origine sardiana).

Scarpa è un cognome che Pittau, manco a dirlo, ritiene derivi direttamente dall'italiano scarpa (il suggerimento è del Wagner). Ma intanto Pittau ricorda che il cognome è già presente nei condaghes di Silki e di Trullas come Iscarpa. Al che può dirsi, senza margine di errore, che tutti i cognomi registrati nelle carte medievali sarde non erano di genovesi nè di pisani ma proprio sardi, per il fatto che il Giudice o gli altri che intendevano registrare notarilmente alcuni fatti, fin a quando gli era consentito andavano a cercare i testimoni tra la propria gente, tra quelli che, vivendo nell'agro, avevano vissuto i fatti sui quali erano invitati a testimoniare nero-su-bianco. Peraltro pisani e genovesi, immigrati alla spicciolata a cominciare dalla seconda metà dell'XI secolo, sceglievano le proprie sedi nelle città o nei paesi costieri, non certo nelle aree interne, dalle quali provenivano invece tutti i cognomi registrati nei condaghes.
I cognomi dei condaghes sono, al 100%, di origine antichissima. Infatti la base etimologica di Scarpa, Iscarpa è nell'ak. iṣu(m) 'albero, legname' + karpum 'chìcchera, tazza', col significato sintetico di ‘tazza lignea, tazza ricavata da un albero’. Questo nome fu l’equivalente dell’attuale sardo coppu, malùne etc., che sono le note tazze di sughero ritagliate direttamente da un bitorzolo del mastio della sughera. Ogni tazza, in età primitiva (in Sardegna ancora ieri) veniva ricavata dal legno. Pure l’etimo di chìcchera ci dà informazioni in questo senso: deriva infatti dallo spagn. jicara, e questo da una parola azteca che indicava il guscio di un frutto.
Peraltro ancora oggi l’etimo dell’it. scarpa è considerato alquanto inafferrabile. DELI ipotizza un (inesistente) germanico *skarpa ‘tasca di pelle’, probabile prestito dal fr. ant. escharpe ‘sacoche, bourse’. E nessuno si è accorto che le scarpe, specie quelle dei contadini, furono fatte spessissimo di legno (nel nord Europa era normale). Col che ritorniamo forzatamente all’etimologia semitica.

BRÁSIA è un cognome che Pittau registra a Orgosolo fin dal ‘700. Egli lo fa corrispondere al sost. brasia ‘bragia’, il quale secondo lui deriva dal corrispondente italiano bragia, brace, ossia ‘fuoco senza fiamma che resta da legna o carbone bruciati’.

Pittau è sorretto in questa interpretazione italianeggiante dai dizionari etimologici italiani, ivi compreso DELI che pone l’etimo di bragia, brace in un inesistente germanico *brasa ‘carbone ardente’ attraverso un antico (e inesistente) derivato *brasia.
Così si costruiscono le etimologie della lingua italiana. Non c’è chi – sia pure per eliminare quegli odiosi asterischi indicanti una sconfitta – vada a confortarsi nei dizionari semitici, per sapere se prima dei Germani e prima dei Romani nel Mediterraneo esistesse un vocabolo con certa fonetica e pari semantica.
Esisteva, naturalmente, ed era l’akk. barḫu ‘luccicante, brillante’, barāḫu ‘mandare fasci di luce, luccicare, brillare’, che fu la base del vocabolo sardo e di quello prelatino, successivamente di quello italiano. Vedi il cgn Barca, dal punico Barka, ebraico Barak (Brk) ‘fulmine’, akk. barḫu ‘luccicante, brillante’.

BRODU cognome che Pittau traduce all’italiana brodu ‘brodo’. Non si è reso conto che è poco metodico italianizzare i lemmi nell’intento di accedere a una omologazione fonetica qualsivoglia. Peraltro nemmeno DELI sa quale sia l’etimo di it. ‘brodo’. Ma questa è un’altra faccenda, visto che Pittau non si cura quasi mai di scavare diacronicamente alla ricerca di un etimo, bastandogli il conforto dei termini omofonici dell’oggi.

Brodu è un cognome autoctono. Non a caso esiste in mezza Sardegna. Esso è sardiano ed ha la base nell’akk. būru ‘giovane di animale’ + sum. udu ‘pecora’, col significato di ‘agnello’.

BRUSADÒRE cognome di Quartu che Pittau crede significhi ‘bruciatore, incendiario’ da brusiare ‘bruciare, incendiare’. Pittau non tiene conto che il termine brusadòre in sardo non esiste, anche perché non avrebbe avuto alcun senso. Gli incendiari nel passato non erano qualificati come terroristi, quali sono oggi, giustamente. Erano semplicemente persone che ripulivano i pascoli dagli sterpi, operatori di un debbio che la comunità normalmente accettava.

Brusadòre è una classica paronomasia, basata sul sumerico buru’az (un tipo di uccello) + dur ‘uccello’, col significato di ‘uccello buru’az’).

BUESCA cognome che Pittau, con un’operazione strabiliante, fa derivare dall’it. colto buesco, -a ‘da bue, propria del bue’. La proposta ha dell’incredibile. Peraltro non si riuscirebbe mai a capire perché un cognome sardo, che si ritiene antico, abbia origine da un sintagma it. “alla buesca” (come suggerisce Pittau). Che relazione potremmo evincere da un avverbio colto e un cognome regionale? Alla proposta manca una pur labilissima logica.

In realtà Buèsca è termine sardiano, basato sull’akk. bûm, pûm ‘uccello’ + sum. e-sig (un tipo di uccello), col significato di ‘uccello e-sig’.

BÙRGIAS cognome che Pittau, in un eroico sforzo di trovare una qualsivoglia omologazione, pensa che corrisponda al sost. logud. (b)urza, úrgia ‘criniera di cavallo’, ‘ciuffo di capelli lasciato crescere per nascondere la calvizie’. Non riuscendo a capirne l’origine, pensa a un relitto sardiano, del quale ovviamente non rende conto. Peraltro Burgias è documentato nel CDS II 45 per l’anno 1410.

Burgias è senz’altro relitto sardiano, ma è lungi dall’avere le parentele attuali dalle quali il Pittau parte, non riuscendo a fare a meno del suo parossistico bisogno di avere per ogni cognome un riscontro nell’attualità.
Burgias ha la base nel sumerico burgia ‘offerta rituale’, ed è uguale al cognome italiano Bòrgia.

BUSONÈRA cognome che Pittau dà di origine spagnola, corrisp. al sost. buzonera ‘chiavica’, ‘pozzetto di scolo’. Non contesto l’origine geografica del cognome, ma certamente l’interpretazione. Va bene il significato del termine comune spagnolo. Ma esso non si estende al cognome, per il semplice fatto che nessun cognome ha mai assunto, alle sue origini, dei significati infamanti. Per capirlo, basta collocarsi ai tempi in cui i cognomi cominciarono, alla chetichella e sempre più estesamente, a guadagnare utenti. Ogni famiglia ebbe sempre la libertà e il modo di assumere o rigettare un certo soprannome (perché di un soprannome si trattava, per lo più). Quindi Busonèra non è altro che una paronomasia: di ciò dobbiamo essere certi.

Il vero etimo va cercato nella lingua mediterranea, con base nell’akk. būzu ‘brocca di vetro’ + nīru ‘luce’. Questo termine ‘vetro-luce’ si deve evidentemente riferire all’epoca in cui i Fenici (e gli Egizi) cominciarono la produzione degli utensili di vetro. Il ‘vetro-luce’ dovette essere il più trasparente e raffinato in assoluto, degno di figurare alla mensa dei faraoni.

BUTTA cognome di Cagliari, Oristano e Sassari che Pittau fa corrispondere al sost. campid. butta ‘botta, colpo’ < italiano. Non credo affatto a questa derivazione. Un lingua straniera (tale è quella italiana in rapporto al paniere sardo da cui sorsero i cognomi) non può essere presa come base di cognomi sardi, tanto per soddisfare l’esigenza di equivalenze fonetiche.

Butta non può che essere un lemma sardiano, e il reale significato va cercato nella base sumerica, dove possiamo ricavare bu ‘perfetto’ + tu ‘formula magica’, col significato di ‘formula magica esemplare’, o ‘modello di formula magica’ o ‘formula magica perfetta’.

BUTTU cognome che Pittau fa corrispondere al sost. buttu ‘mozzo della ruota’ < piemontese but. Sembra impossibile che un cognome sardo si sia formato, per poi espandersi un tutta la Sardegna, con tre soli secoli di dominio piemontese. In realtà Buttu non è altro che la variante di Butta (vedi).


BÚRDZA, úrdza, búldza, úldza logud. ‘frangia, ‘tela della frangia’, ‘orlo estremo dell’ordito’; (Orgosolo, Fonni) gúrgias; (Urzulei) ar búrgiulas. Wagner non trova l’etimo. Gli sarebbe stato facile reperirlo, se avesse aperto il dizionario sumerico, che per gur dà ‘orlo’. In sardiano evidentemente il lemma sumerico venne trattato in forma aggettivale, aggiungendovi il suffisso in -ia del tipo di quello latino e simile a quello ebraico (cfr. Ozia, Isaia, Geremia, Sedecia, Netanya, Ezechia, Elia, Anania, Zaccaria, termini pronunciati in modo diverso a causa dello spostamento dell’accento: -ìa).


CABÉCCIA cognome di Sassari e Sorso che Pittau crede di origine spagnola, da cabeza ‘testa, capo’. In realtà il cognome sembra di origine còrsa: a Tempio dal 1622 al 1658 si registrò un Cabezia, Capecha, la cui forma ufficiale odierna, Capece, fu rifatta agli inizi dell’Ottocento su quella di un noto cognome napoletano (Maxia CS 152).

La probabile origine còrsa dà più forza al possibile retaggio sardiano (intendendosi per sardiano un aggettivo che riguarda, ovviamente, i Sardi e i Corsi preromani e precristiani).
Cabéccia è un termine importantissimo per il popolo sardiano, basato sull’akk. qābu ‘pozzo’ + ēqu (un oggetto di culto). In assiro per bīt ēqu s’intende un ‘sepolcro sotterraneo’, letteralmente ‘tempio-sepolcro’; invece i Sardiani hanno utilizzato la forma di stato costrutto qāb-ēqu indicante proprio il ‘pozzo sacro’, esattamente ‘pozzo destinato al culto’. Ora conosciamo anche il nome dei celebri “pozzi sacri” della Sardegna.

CABELLA cognome presente a Cagliari, Guspini, Oristano, Tempio Pausania, Trinità d’Agultu. Secondo Pittau può essere una variante del cgn Gabella significante it. ‘gabella, tassa, dazio’; o può essere un cgn propriamente italiano derivato dall’espressione Ca(sa) Bella.

Non sono d’accordo con la tendenza del Pittau d’inseguire una omologazione fonetica purchessia, che lo porta molto spesso ad abbandonare il campo della linguistica sarda per sondare i recessi meno plausibili della lingua italiana. Maxia CS 195, nell’evidenziare l’elemento còrso nella diocesi di Sorres del XV secolo, registra un Paulu Cabeda. Essendo quindi il cognome piuttosto antico, relativo peraltro ad aree interne e non alle città sarde, è impossibile immaginarlo di diretta origine italiana.
In realtà Cabella è un importantissimo lemma sardiano, legato indissolubilmente all’altro lemma che ha generato il cognome Cabéccia. Infatti Cabella ha la base nell’akk. qābu ‘pozzo’ + ellu ‘puro, sacro’ (stato costrutto qāb-ellu), col significato proprio di ‘pozzo sacro’.
Sembra non esserci scappatoia: anche gli antichi Sardiani (o Shardana) avevano il proprio nome per individuare il ‘pozzo sacro’.

CABÍLLA cognome di Baunéi e Silanus, esprimente il femminile dell’epiteto cabíllu (secondo Pittau DCS 148).

Cabíllu a sua volta è un termine oscuro e comunque incompreso. Lo si è considerato, da parte di moltissimi, dalla gente comune e, a quanto vediamo col Pittau, pure da certi linguisti viventi, come un aggettivo etnico indicante ‘chi è del Capo di Sopra’ ossia chi è della Sardegna settentrionale. Ma i dizionari sardi non recepiscono il lemma; in più, non si è dato conto di quel tema in -íllu. Peraltro, se cabíllu significasse realmente ‘quello del Capo di Sopra’, ci aspetteremmo che quanti risiedono a nord dell’isola usino anch’essi un epiteto reciproco per indicare “quelli del Capo di Sotto”. Ma non c’è alcun epiteto. È un dato reale che questo epiteto sia usato soltanto nel sud dell’isola. Nel nord è sconosciuto, se non da parte di quanti lo hanno udito pronunciare dai residenti del sud. Un rompicapo.
Si risolve il problema esclusivamente se mettiamo in campo il vocabolario semitico, dove abbiamo l’akk. ḫābilu, ḫabbilu ‘criminale, malfattore’. Il significato non ha bisogno di commenti. Ma si pone il problema di quando sia potuto nascere un tale epiteto. Poiché il lemma è arcaico, sembrerebbe di poter affermare che sia nato in epoca prelatina, addirittura prefenicia. Ma in ciò occorre prudenza. Infatti la durata della parlata accadica in Sardegna non è ancora cessata neppure oggi, e si può supporre che questa sia stata usata – con piena e reciproca comprensione da parte dei residenti – almeno fino all’anno 1000 di questa Era, nonostante lo sforzo del clero orientale mirante a omologare la parlata sarda a quella di Bisanzio.
È verosimile che l’epiteto sia nato durante l’epoca buia dei quattro Giudicati, allorchè i quattro regni si combatterono tra loro senza esclusione di colpi in vista di una supremazia e con lo scopo di unificare l’isola. L’epiteto, viste le premesse, è nato sicuramente nel giudicato di Càlari.

CACCEDDU, Caceddu cognome che Pittau crede una variante tipicamente olianese del cgn Catteddu e pertanto significante ‘cagnolino’. A me non sembra affatto. Pittau è incorso nella ennesima paronomasia, costruendo una paretimologia.

Cacceddu è un lemma sardiano, pronunciato alla sardiana, ed ha la base in un termine commerciale antico-assiro (II millennio a.e.v.), usato dai commercianti assiri della Cappadocia per nominare una particolare veste della città hittita di Ḫaḫḫum, chiamata ḫaḫḫītu(m). Evidentemente questo vestiario fu commercializzato nell’intero Mediterraneo.

CADDÙCCIU cognome che Pittau colloca nella Gallura e lo fa corrispondere al dim. di caddu ‘cavallo’ < lat. caballus.

C’è molto da discutere sulla trafila etimologica del Pittau. Anzitutto va detto che cáḍḍu è vocabolo autonomo dal latino, ed ha la base accadica, da kallû(m) ‘messaggero espresso, pony express’. Questa tradizione è ancora viva nel Logudoro, dove l’equivalente di ‘cavallaio’ (da lat. căballus) non esiste, preferendosi amante de sos caḍḍos, mentre ‘cavalleria’ si traduce con militia a caḍḍu, e ‘cavallerizzo’ è chìe pigat a caḍḍu. Quindi appare ovvio che cáḍḍu è vocabolo sardiano riferito all’uso nobile del quadrupede, all’uso per la monta, per fini militari, per le competizioni (pony) e, principalmente, per i servizi postali. Quest’ultimo uso, esplicitato dalla radice accadica, lascia ampiamente capire quanto fossero importanti e quale uso si facesse, prima dei Romani, delle strade sardiane che i nostri studiosi insistono a chiamare “romane”.
Ma a parte l’etimologia di caḍḍu, che riguarda esclusivamente il ‘cavallo’, è l’intero cognome Caddùcciu a non basarsi sul sardo caḍḍu. Esso è sardiano ed ha la base nel sumerico kadu ‘copertura’ + uhul ‘pecora’, col significato di ‘ricovero per pecore’.

CADELLO cognome creduto dal Pittau forma italianizzata del cgn Cadeddu. Ma la questione è letteralmente capovolta. È Cadeddu ad avere avuto origine da Cadello.

Andiamo con ordine. Cadeddu è cognome che Pittau considera probabile svolgimento del latino catellus ‘cagnolino’, il quale compare come cognome Catellu nel CSMB 65 e come Cadello nel CDS II 43, 44 per l’anno 1410. Così pensa anche Paulis NPPS 180, che assume questa ipotesi nel trattare il fitonimo cadèḍḍa (Escolca, Nuragus) ‘ranuncolo dei campi’ (Ranunculus arvensis L.).
In realtà, così come ho già spiegato per il fitonimo catheḍḍìna, il termine cadèḍḍu, cadèḍḍa non ha alcuna relazione con i cagnolini e neppure coi cani. Esso è un composto sardiano con base nell’akk. ḫadû(m) ‘gioia’ + ellu(m) ‘puro’, col significato complessivo di ‘pura gioia’ (in relazione alla bellezza del fiore). Cadéllo in quanto cognome indica anch’esso questo fiore, ed è la forma primitiva dello stesso cognome. Cadéḍḍu non è altro che la forma seriore del cognome, dopo aver subito la palatalizzazione della -ll-.


domenica 20 maggio 2012

le fate - le domus de janas

Nelle fiabe popolari sarde,la frequente presenza delle fate,chiamate fadas o janas,é da ricollegarsi all'esistenza dei caratteristici pertugi scavati artificialmente nella roccia e denominati appunto domus de janas (case delle fate),ma conosciuti anche con altri appellativi quali furreddas,concas o concheddas,precias o preccas.
Queste strane cavitá (se ne contano circa millecento sparse in tutta l'isola) hanno costituito per molto tempo un vero e proprio enigma archeologico.
Troppo piccole per essere abitate da persone, nelle credenze popolari sono diventate le dimore di esseri fantastici molto simili ai Fairies della tradizione anglosassone.Infatti,la parola jana (che forse deriva da Diana,dea della luna) indica una creatura magica a metá strada tra le streghe e gli elfi.
Oggi gli studiosi ritengono che le domus de janas rappresentino il primo esempio di costruzioni funerarie in cui si esprime la capacitá architettonica delle popolazioni prenuragiche.
Si tratta,infatti, di sepolcri scavati nella roccia e riproducenti nella forma le abitazioni dei vivi.
La loro funzione era quella di accogliere il defunto in un ambiente familiare e consentirgli,secondo le credenze comuni a quasi tutti i popoli antichi,di perpetuare la vita dopo la morte.
Esse erano la sede di cerimonie e liturgie religiose che venivano compiute periodicamente insieme alla deposizione rituale dei pasti destinati agli estinti,a conferma della fede nella sopravvivenza.
Nelle domus i posti venivano posti in posizione rannicchiata o supina,gli uni accanto agli altri,e spesso venivano dipinti di un colore ocra,che rappresentava il sangue,considerato elemento rigeneratore della vita.
In molti casi,oltre all'abbigliamento che ne indicava la posizione sociale o la professione,i defunti portavano collane di carattere amuletico costituite di pietre,ossa e denti di maiale che,secondo le primitive concezioni magico-religiose,avevano lo scopo di garantirne l'immortalitá.
Accanto ad essi venivano deposte suppellettili,armi e statuette di marmo e basalto raffiguranti la Dea Madre.
Questa,insieme al dio Toro richiamato nei graffiti che ornavano le pareti della tomba,veniva invocata a protezione dei morti.

(dal libro 'Luoghi ed esseri Fantastici della Sardegna" edito da L'UNIONE SARDA,scritto da B.Vigna-G.Caprolu,con illustrazioni di P.L.Murgia). 



Domus de janas di Sennori
Domus de janas di  Sant'Andrea Priu
(da http://www.luoghimisteriosi.it)

sabato 19 maggio 2012

le fate - il monte delle fate

Nel Logudoro, tra gli abitati di Torralba e Pozzomaggiore, non molto distante dalla strada statale 131,esite un'altura di origine vulcanica denominata Monte Oes.
Si presenta a forma di tronco di cono e sulla sua sommitá si aprono delle fenditure da cui in tempi antichissimi é fuoriuscita la lava che ha ricoperto le pendici.
Si racconta che qui ,in un lontano passato,sorgesse un meraviglioso palazzo abitato dalle fate.Era una sontuosa reggia con colonne ed arcate scolpite nella roccia ed immensi sotterranei naturali ornati di stalattiti e stalagmiti.
Vaste sale si susseguivano le una alle altre in un intrecciarsi di scale e ambienti sontuosamente arredati.Le pareti ricche di sculture testimoniavano il lavoro paziente di generazioni di abili scalpellini;i pavimenti di pietra levigata erano ricoperti di pesanti tappeti riccamente lavorati.
Nei sotterranei del palazzo venivano custoditi inestimabili tesori che suscitavano la cupidigia degli uomini.Molti avevano cercato di appropriarsene,ma inutilmente:era infatti molto difficile riuscire ad accedere al castello senza il consenso delle fate.Talvolta ,peró,queste scendevano nei paesi vicini e penetravano nelle case attraverso il buco della serratura.
Se trovavano una persona simpatica la svegliavano sussurrandole tre volte il nome all'orecchio.
Quindi la conducevano a Monte Oes e le mostravano bauli ricolmi di gioielli,pietre preziose e monete d'oro,invitandola a prendere ogni cosa.
Ma tutto ció che la persona avesse toccato si sarebbe tramutato immediatamente in cenere.
In questo caso il prescelto doveva tornare lá il giorno seguente,alla luce del sole,portando con sé un rosario e dell'acqua benedetta da gettare sul tesoro.
Solo in questo modo l'incantesimo si rompeva ed i preziosi potevano essere portati via.


(dal libro 'Luoghi ed esseri Fantastici della Sardegna" edito da L'UNIONE SARDA,scritto da B.Vigna-G.Caprolu,con illustrazioni di P.L.Murgia).

estratto da un disegno di P.L.Murgia


mercoledì 16 maggio 2012

La Stele di Nora: lettura di Salvatore Dedola.

La Stele di Nora.

La Stele di Nora: contiene la lingua sarda delle origini


 La memoria linguistica più alta e importante dell’antichità fenicia in Sardegna è la celebre Stele di Nora, il documento scritto più antico dell’Occidente.
  Sin dall’Ottocento, non c’è stato studioso di razza che non abbia tentato di misurarsi con la sua traduzione. Ed ogni tentativo ha lasciato una versione radicalmente diversa dalla precedente e da tutte le altre.
  Non è che la pluralità delle versioni non abbia qualche aspetto da addurre a propria scusa, a causa della condizione alquanto precaria della stele, la cui vetustà (3000 anni) è rimarcata dalla sua composizione arenacea. Infatti attualmente soltanto metà delle lettere lascia intendere a primo acchitto e nettamente il solco tracciato dal lapicida, mentre le altre possono essere percepite solo dopo un’attenta osservazione delle slabbrature e degli sfarinamenti prodottisi nel lungo lasso temporale. Trovata nel tophet, la stele fu prontamente utilizzata per l’erezione della casa del guardiano. Oggidì il testo è leggibile più che altro per la vernice che rimarca ogni lettera, cui occorre attenersi fedelmente, non foss’altro che per uniformare la base di partenza della traduzione. E tuttavia il team di studiosi che ha coraggio samente deciso di marcare ed evidenziare le lettere con la vernice rossa e violetta deve avere avuto qualche problema, ed ha persino preso qualche cantonata. Ad esempio, la prima lettera della seconda riga è stata rimarcata come che fosse una W (da pronunciare u) mentre, a volerla osservare meglio, la traccia fenicia indica una N [qui e in seguito mi esprimo con l’alfabeto latino, e ricordo che l’elenco dei grafemi è indicato secondo il sistema fenicio, da destra a sinistra].
  A complicare i fatti si sono messi anche i “fedeli” traspositori dei grafe mi fenici: questi in certi libri sono chiaramente alterati rispetto a quelli lapi dei. Ad esempio, l’osservazione diretta della riga sesta della lapide fa ca pi re, con sicurezza, che ci sono 6 lettere e non 7. Quindi la settima lettera, inserita in GES 614, è da espungere perché nella lapide non è riportata.
  Quanto ai traslatori delle singole lettere dal fenicio al latino, essi hanno avuto forse una moderata difficoltà dal fatto che alcune lettere fenicie cambiano significato secondo l’inclinazione. E quindi non gli faccio colpa per aver proposto come D una R (riga sette, lettera 6). Certamente l’inclinazione della lettera faceva il loro gioco, ma ritengo che non dovevano procedere meccanicamente e alla cieca sibbene dovevano, con un pizzico di senso comune, notare anzitutto le incertezze del lapicida, che nell’intera stele esistono, e dovevano poi aiutarsi eventualmente col dizionario fenicio per capire a fondo le intenzioni del lapicida medesimo e la correttezza lessicale delle parole.
  Singolare poi è la lezione che si trae dalla lettera M scritta a riga 4 ed a riga 8. A riga 4 il lapicida aveva inizialmente scritto una N che poi, notato l’errore in corso d’opera, fu corretta (o fatta correggere) in M, vista la possibilità d’emendarla con poco danno. A riga 8 il lapicida, credendo d’operare secondo le intenzioni del committente (forse assente al momento), scrisse d’impulso una M (ipercorreggendosi ma sbagliando, perchè proprio lì occorreva invece una N, che a quel punto non fu più possibile emendare considerata la grafia complessa della M). Evidentemente il lapicida non era un fior di letterato.
  In ogni modo, e tutto sommato, l’intero testo fenicio non è proprio quella palestra di difficoltà che qualcuno sembra voler accreditare, e con l’aiuto del dizionario fenicio il testo può essere tradotto con sicurezza e senza sbavature. Eppure non tutti hanno azzeccato.
  Il testo, secondo Semerano, reciterebbe così: Et rš š ngr š Ea b Šrdn šlm et šm ṣbt mlk t nb nš bn ngr lpn j. Ma evidentemente Semerano non ha letto la stele nell’originale, altrimenti non avrebbe fatto una messe di errori e sbagliato totalmente la traduzione, che per lui è la seguente (OCE 836): Et (Accanto è)  (il sacello) š (quello che) ngr (l’ambasciatore) š (di) Ea (Ea) b (in) Šrdn (Sardegna) šlm (ha edificato): et (questa) šm (memoria) ṣbt (esprime il voto)  mlk (che il re) t (per iscritto) nb (espone): (elevi) bn (la costruzione) ngr (l’ambasciatore) lpn (davanti) j (all’isola).
  Altri studiosi in varie epoche hanno messo la propria impronta su questo testo venerando, sbagliando anch’essi. Nonostante che le difficoltà fossero facilmente sormontabili, sembra proprio che la traduzione sia stata intrapresa più per dovere che per passione. Certi altri studiosi, nella presunzione di dare una datazione precisa del testo (e dell’alfabeto che lo sottende), hanno persino dimenticato d’inserire alcune lettere nell’alfabetario ricavabile dalla Stele (vedi ad esempio Giovanni Garbini apud Moscati F 110).
  Un’altra clamorosa sviata è l’interpretazione del Moore-Cross nel 1984, avvenuta quattro anni dopo la pubblicazione del Dizionario Fenicio della Fuentes Estanol. La sua traduzione – cui attinge anche Ferruccio Barrecca (CFPS) – è la seguente: btršš (…a Tarsis) wgrš h’ (ed egli li condusse fuori) bšrdn š (tra i Sardi) lm h’ šl (egli è adesso in pace) m sb’ (ed il suo esercito è in pace) mlktn bn (Milkaton, figlio di) šbn ngd (Subna, generale) lpmy (di re Pumay: ossia Pigmalione).
  Tralascio di registrare ulteriori inaccettabili versioni, dalle quali però non posso evitare di trarre scandalo per la superficialità dei ricercatori, i quali si sono perfino dimenticati, candidamente, la tecnica delle epigrafi dedicatorie imparata sui banchi dell’Università. Non gli sarebbe stato difficile trovare la giusta traduzione, se avessero ripassato quella tecnica e poi avessero sfogliato il Dizionario Fenicio, dal quale si estrae senza difficoltà un testo lineare, pulito, inappuntabile, che è il seguente:
BT  RŠ  Š  NGR  Š  H’  BŠRDN  ŠLM  H’  ŠLM  ṢB’  MLKTNBN  Š  BN  NGR  LPNY
  Traduzione. [Questo è] il tempio principale di Nora che io in Sardegna ho onorato in segno di pace [o: compiendo un voto sacrificale, un olocausto]. Io che onoro in segno di pace sono Ṣb’ figlio di Milkaton, che ho costruito Nora di mia propria iniziativa.
  Traduzione interlinearebt (il tempio)   (principale)  š (di)  ngr (Nora)  š (che)  h’ (egli, io)  bšrdn (in Sardegna)  šlm (ho onorato in segno di pace).  h’ (io che, chi)  šlm (auguro pace)  ṣb’ (sono Ṣb’: leggi Saba)  mlktnbn (figlio di Milkaton)  š (che)  bn (ho edificato)  ngr (Nora)  lpny (di mia propria iniziativa).
  Etimologia. Di seguito confronto il testo della Stele di Nora con le altre lingue semitiche e con la lingua sarda (procedura etimologica), affinchè venga appreso appieno lo spirito della traduzione. Infatti è proprio con le lingue semitiche consorelle (e con la lingua sarda) che ogni studioso qua citato avrebbe dovuto misurare la propria traduzione, al fine di corroborare, rassicurare ed eventualmente correggere il proprio procedere. Operazione evidentemente negletta, che ora tocca a me evidenziare e puntualizzare:
-  BT  ‘casa, tempio’: cfr. ug. bt, akk. bītu, ass. bētu, ebr. bâit ‘casa’, ‘tenda’, ‘tempio’; e cfr, il lat. habitatiō ‘l’abitare’, ‘domicilio, stanza, dimora, abitazione’ < sumeroḫa ‘vegetale’ + akk. bītu ‘casa’: ḫa-bītu ‘casa di vegetali’ ossia ‘capanna’.
-    ‘principale’: cfr. akk. rāšû ‘ricco, benestante’, ar. ras < sum. rašu; cfr. sardo Monte Rasu (è la montagna più alta della catena del Marghine-Goceano, che supera i m 1260).
-  Š  ‘di’: cfr. akk. ša ‘di’, ‘quella che’; šu ‘di’, ‘quello che’; cfr. sardo sasu, articolo determinativo ma anche pronome determinativo: ‘quella che, quello che’ (es. Sa ‘e MulínuSu ‘e Mulínu ‘la proprietà terriera di Mulinu’).
-  NGR  ‘Nora, Nògora’; è la stessa Fuentes Estanol a proporre questa soluzione. Anche per questo c’è la giusta spiegazione etimologica, che viene addotta nel sottostanteDizionario Etimologico  alle voci Nora e Nùoro.
-  Š  ‘che, quella che’: cfr. sopra.
-  H’  ‘egli’, ‘io’: cfr. sum. ĝae (1a pers. sing. del pronome personale). Cfr. sardo giéo ‘io’ a Désulo).
-  B-ŠRDN  ‘in Sardegna’: cfr. ug. b ‘in’, ebr. be- ‘in’; la particella cananea è sempre agglutinata alla parola retta, che in questo caso è Šarden ‘Sardegna’ (šrdn).
  L’avverbio di luogo ugaritico-fenicio-ebraico b (be) è a pari titolo anche sardo, sardiano. Si ritrova quasi sempre in tutte le indicazioni di luogo nelle forme bebeibi; indica sempre un luogo, non sempre preciso, lontano dal parlante: ‘lì’, ‘in quel luogo’, ‘a quel luogo’: siéntzia bei cheret, no bestire!a contos male fatos si bi torradaite b’ada?in s’isterzu de s’ozu non be podiat aer che murcade listincu be ndh’aìat prus de una molinadaa campu bi anḍo déobazibbéi a domo suaa bi sezis, si benzo a domo bostra?in su putu bi at abbano bi creo!
-  ŠLM  ‘ho onorato in segno di pace’: cfr. ug. šlm ‘pace, salute’ (anche ‘vittima’, ‘sacrificio di comunione’), ebr. šālom ‘salute, pace’, arabo salâm ‘pace, salute’, akk.šâlu ‘gioire’, lat. sālus ‘salute, salvezza’. Il termine è mediterraneo.
  Purtroppo il lemma antico-sardo che oggi sopravvive in Sardegna appare corrotto dal latino: salùdesaludáre. Ma esistono ancora le prove che il termine šālom fu pure sardiano, antico-sardo; infatti queste provengono da un monte presso Dolianova, Bruncu Salámu, di origine granitica, celebre per rigettare alle sue pendici delle fonti di acqua purissima considerata curativa, quasi miracolosa. Accorre, da epoca immemorabile, tanta gente. Alcuni sanno persino scegliere tra sorgente e sorgente, dichiarando che certi getti curano il mal di fegato, altri i reni.
-  H’  ‘chi’, ‘io che’: vedi su.
-  ŠLM  ‘augura pace’: vedi su.
-  ṢB’  ‘(è) Saba: nome proprio di origine berbera che si ritrova tra i Punici, ma è pure di origine cananea; Anche per Ṣb’ c’è la giusta spiegazione. Il nome era noto agli Ebrei già in 1Re 10,1-10.13; 2Cr 9,1-9.12; Gb 1,15; Is 43,3; 45,14; Gn 10,7.
-  MLKTN-BN  ‘figlio di Milkaton’; il lemma è di quelli che poi divennero cognominali, e va letto mlktn-bn, cfr. ug. bn ‘figlio’, ebr. ben ‘figlio’, akk. būnu ‘figlio’, sardiano bunu > cgn Bonu; ma vedi anche sum. banda ‘bimbo’, bunga ‘bimbo’ < bun ‘vescica (seno)’ + gu ‘mangiare’, col significato arcaico di ‘colui che mangia dal seno’ ossia ‘poppante’; poi passò a indicare anche i bimbi cresciutelli, le bimbe grandicelle.
  Milkaton è un composto possessivo (bahuvrihi) nilotico-semitico-sardiano: Mlk-Aton, col significato di ‘Reggitore di Dio in terra’ (nome personale, in pratica ‘faraone’), damlk (melek) ‘reggitore, principe’ + Aton ‘Dio Sole’.
  Milkaton fu anche nome maschile sardiano, e la prova sta negli arcaici cognomi Melkis (MerchisMelcaMerke) + Atene. Il primo membro, Melkis, può essere considerato, secondo il modo ebraico, diminutivo di Melkisedek, ma pure nome diretto, originario appunto da melek; il secondo, Atene, è dall’egizio AtenAton (Dio Sole).
-  Š  ‘che’, ‘il quale’ (vedi su).
-  BN  ‘ho edificato’: cfr. ug. bnt ‘costruzione, edificio’, bnwn ‘edificio’, b-n-y ‘costruire, ricomporre’, akk. banû ‘creare’, ‘costruire’. La base di tutte queste forme verbali è il termine che abbiamo già analizzato all’inizio: bt  ‘casa, tempio’: cfr. ug. bt, akk. bītu, ass. bētu, ebr. bâit ‘casa’, ‘tenda’, ‘tempio’; e cfr, il lat. habitatiō ‘l’abitare’, ‘domicilio, stanza, dimora, abitazione’ < sumero ḫa ‘vegetale’ + akk. bītu ‘casa’: ḫa-bītu ‘casa di vegetali’ ossia ‘capanna’.
  Si noti che alle origini l’idea di ‘tenda’, ‘capanna’ fu recepita dal comportamento della ‘vite’, un rampicante che allo stato naturale crea delle vere e proprie coperture sugli alberi, delle tende. La base etimologica di lat. vitis è il termine accadico già visto: bītu ‘casa, tenda’.
-  NGR  ‘Nora’: vedi su.
-  LPNY  ‘davanti a me’, ossia ‘di mia propria iniziativa’ (termine agglutinato da l particella suffissata + pn + -y): cfr. fen. pny ‘davanti a’. Per l, cfr. ug. l ‘da’, ‘per (finale)’, ‘in’, ‘accanto a’, ‘presso a’, ‘unito a’; vedi anche sum. la ‘mostrare’. Per pn, cfr. ug. pnm ‘faccia, viso’; l pn ‘davanti a’, ‘in faccia a’, ‘a faccia a’ (cfr. akk. penûpanû ‘fronteggiare’, ‘essere a fronte di’, ‘faccia’; ebr. penû ‘faccia’). Per -y ‘me, di me’, cfr. ug. -y (morfema pronominale suffissato) in relazione genitivale ‘me, mio’, in relazione accusativa ‘me’, ecc.; e cfr. akk. -ya ‘me’ (1a sg. pron. suff.).
  In Sardegna abbiamo dei riscontri antichissimi a questo composto fenicio. Cominciamo da L, da confrontare col camp.  ‘a, verso’, ‘ecco!’ < ebr. לְ     le, preposizione indicante che una cosa esiste o agisce in avantiin presenza di. Dobbiamo pure tenere conto di la, locuzione esortativa campidanese, usata in frasi quale La chi ti partu de conca! ‘Sta attento che ti parto di testa, che ti dò una testata!’; La chi ses fendi su scimpru! ‘Attento a te che stai facendo lo scemo!’. La base etimologica sembra sia l’akk. di Emar la, ingl.to, it. a, lat. tibi. Ma è più congruo il  lemma sumerico la ‘mostrare, esporre’, col significato quindi di ‘guarda!’.
  Per il finale -y di lpny, significante ‘me, di me’ in accezione genitivale, possiamo avere il conforto nel seuese y, che viene usato al posto di de ‘di’ genitivale: Perda-y-liana =Perda ‘e liana.
  La porzione centrale di lpny è pn, significante ‘faccia, viso’. Ha il riscontro con l’antico sardo PaniPane (oggi cognome), significante ‘viso’ (sottinteso: di Dio).
  Quindi l-pn-y significò, anche in sardo antico, ‘davanti a me’, ‘in mia presenza’.
  Dalla Stele di Nora non s’inferisce alcunché circa guerre, eserciti contrapposti che depongono momentaneamente le armi, come sostengono il Cross e l’infingardo Barrecca.Šlm (Šalom in ebraico) è un classico motto di pietà, di mitezza e pace innata, poco adatto a generali che invadono terre altrui ed entrano, per conto d’un supposto re Pigmalione, nei santuari a violare religioni straniere. Ai tempi della Stele di Nora i Fenici erano di casa in Sardegna almeno da uno-due secoli, e sino ad oggi non c’è stato alcuno storico che abbia osato arguire che vi siano entrati  con l’impeto e la violenza d’un esercito conquistatore. Si è sempre detto e scritto l’opposto, in armonia con quanto sappiamo da tutti gli storici greci. Saba pose la stele sul tophet – chiamato, secondo l’uso fenicio e cartaginese, “tempio principale” nonostante che fosse un santuario non costruito, un santuario uranico  – e sul tophet fece un sacrificio, un olocausto. Così recita la stele. Šlm infatti non significa soltanto ‘augurare pace’ ma anche ‘compiere un atto pacifico’, ‘compiere un gesto rituale solenne e pio’ quale è appunto l’olocausto.
  Avverto che il testo fenicio, da me proposto dopo la rigorosa lettura de visu della Stele, presenta tre lettere diverse rispetto a certi testi riprodotti a disegno in altri libri. Le prime due lettere riguardano entrambe il nome di Nora:
- alla riga 2 ho pertanto sostituito – com’era giusto secondo l’analisi critica prima addotta – N a W;
- alla riga 7 ho preferito R a D (causa la grafia della stele poco perspicua);
- alla riga 8 ho preferito N ad M (causa il supposto ipercorrettismo del lapicida).
  Le tre lettere fenicie da me scelte sono molto simili a quelle sostituite e consentono – ecco l’importante – di avere dei riscontri nel Dizionario della Fuentes Estanol. Peraltro è la stessa Fuentes Estanol a dare l’esempio nel proprio Dizionario, proponendo spesso delle sostituzioni a causa di evidenti errori dei testi, forse causati dalla scarsa conoscenza della lingua o dell’alfabeto da parte dei lapicidi.


fonte:  www.linguasarda.com