giovedì 5 settembre 2013

Festa Shardana 2013 - CONFERENZA di Leonardo Melis

Festa Shardana 2013
Leonardo Melis al Teatro A. Dei, accompagnato dalle note del BARDO A. SEKI all'arpa celtica e dalla pianista Miss Cloe. - Strumentazioni di Pino Piskedda e Franco Angius. Organizzazione Assoc. Janas e DanCro. Patrocinio Comune di Lanusei.





Hinghielu Male - Hinghìelu maschio

da ilsimplicissimus2.wordpress.com

I Mamuthones sono una maschera arcaica della Sardegna carnevale e rappresentano un antico e misterioso rituale, famoso non solo nel Mediterraneo, ma in tutto il mondo. Hanno la loro prima apparizione dell'anno, il 17 gennaio, in occasione del giorno di San Anthonys. Di solito, ma non solo in Sardegna, naturalmente, questo periodo dell'anno è dedicata ad una serie di rituali propiziatori per assicurare la fertilità dei campi, nonché la fecondità delle donne. La prosperità di tutta la comunità. Maschere terribili e spaventosi, i Mamuthones sono imponenti e orgogliosi. Si vestono di pelle animale e una maschera di legno nero. Rompono il silenzio surreale intorno a loro si stringono con forza i campanacci portati a spalla, in perfetto unisono. Mamuthones andare avanti con Issohadores, ottimi lanciatori di Soha, lazo, con cui abilmente catturano le donne, amici, spettatori, che intendono bene e fortuna. L'origine e il significato di questo rituale è in gran parte sconosciuto. Potrebbe essere una forma d'arte drammatica o la parodia di un evento storico o un antico rito propiziatorio. La tradizione orale è l'unico modo per la sua sopravvivenza. Hinghìelu maschio è un breve viaggio all'interno del rituale di Mamuthones dalle parole della più antica Mamuthone ancora in attività, Franco Sale. Un viaggio sul filo della memoria, la tradizione e l'amore per le proprie radici.

 The Mamuthones are an archaic mask of Sardinian carnival and they represent an ancient and mysterious ritual, famous not only in the Mediterranean area, but all over the world. They have their first appearance of the year on January 17, on occasion of the St Anthonys Day. Usually but not only in Sardinia, of course, this period of the year is dedicated to a series of propitiatory rituals in order to assure the fertility of the fields, as well as the fecundity of women. The prosperity of all the community. Terrible and frightful masks, the Mamuthones are imposing and proud. They dress animal leather and a black wooden mask. They break the surreal silence around them shaking powerfully the cowbells carried on the shoulders, in perfect unison. Mamuthones go along with Issohadores, excellent launchers of soha, lazo, with which they skilfully capture women, friends, spectators, wishing well and fortune. The origin and the meaning of this ritual is largely unknown. It might be a shape of dramatic art or the parody of an historical event or an ancient propitiatory ritual. Oral tradition is the only way for its survival. Hinghìelu male is a short trip inside the ritual of Mamuthones by the words of the oldest mamuthone still in activity, Franco Sale. A travel on the thread of memory, tradition and love for the own roots.

mercoledì 4 settembre 2013

L'epoca dei fenici - 1° parte

L'età fenicia 
di Pierluigi Montalbano

 Levantini 
Nel II Millennio a.C., prima i naviganti minoici, poi quelli micenei e, infine, i levantini, furono attratti dalle ricchezze minerarie dell’isola, e dalle notevoli possibilità offerte dal mercato dei metalli. Sono da citare in uscita verso i mercati del Vicino Oriente, grandi quantità di argento, il metallo che costituiva la base delle transazioni commerciali. In Sardegna, le miniere e gran parte del processo industriale di trasformazione dei minerali erano prerogative delle popolazioni nuragiche, proprietarie dei giacimenti. Come è noto, nell’antichità la Sardegna era definita anche “l’isola dalle vene d’argento”, ed è interessante notare come i centri più antichi fossero collocati proprio nelle vicinanze dei più importanti giacimenti metalliferi. Nella seconda metà del XIII a.C., tutte le città costiere della Siria e della Palestina, sottoposte in precedenza al regno degli ittiti, stanziati in Turchia, e al regno d’Egitto, goderono di quattro secoli di indipendenza ed ebbero la possibilità di incrementare in totale autonomia sia il commercio che la produzione artigianale. In mancanza di miniere, la principale risorsa naturale del Libano era costituita dalle enormi foreste di cedri che ricoprivano le catene montuose e che fornivano legname pregiato. Anche lo sfruttamento delle risorse del mare fu intenso, soprattutto la conservazione del pescato sotto sale e la pesca dei molluschi (murici) utilizzati per la tintura color porpora dei tessuti. A ciò si aggiunge lo sfruttamento delle sabbie silicee per la produzione del vetro. Il rame di Cipro e della Sardegna, il ferro di Cilicia, il bisso e la porpora delle città siriane, l’avorio, l’incenso e le spezie africane, e gli animali esotici dell’India, contribuirono ad arricchire le città costiere libanesi. Queste imprese commerciali erano organizzate dai detentori del potere, ossia i membri della casa regnante e della casta sacerdotale dei luoghi di culto più ricchi. Solo pochi mercanti privati potevano affrontare lo sforzo economico di un’impresa che implicava due o tre anni di viaggio con notevoli rischi di naufragio. Fenici, punici e cartaginesi appartengono alla stirpe che ebbe origine proprio nella costa del levante, anticamente definita “Terra di Canaan”. I fenici emergono dopo gli sconvolgimenti politici e militari causati intorno al 1200 a.C. da una coalizione armata ricordata come “Popoli del Mare”. Ciò che definisce i fenici è la comunanza culturale, e non quella politica. Furono legati dalla lingua, dalla cultura e dalla scrittura, al pari delle città greche, che non realizzarono mai un’unità politica. La Fenicia era popolata da città stato, ciascuna con una propria politica e propri orizzonti culturali. I fenici d’occidente ebbero in Cartagine la massima espressione imperiale della loro storia. Attorno al 700 a.C., la potenza della città africana crebbe a tal punto che, liberandosi definitivamente del tributo pagato a Tiro, loro città d’origine, i cartaginesi iniziarono la loro espansione nelle terre oltremare. In Sardegna, la maggior parte dei luoghi in cui si fermarono i fenici era da tempo occupata dalle popolazioni nuragiche. La massima pressione economica lungo le coste è attestata a partire dall’VIII a.C., quando i nuragici, commercianti soprattutto di vino e delle anfore per contenerlo, autorizzarono i levantini ad integrarsi nei villaggi. In quel momento, piccoli gruppi di abitanti orientali, con il consenso dei locali, e congiuntamente con loro, diedero origine ai primi agglomerati urbani. Questo arrivo fu assolutamente pacifico perché i nuragici, se fosse stato necessario, avrebbero avuto buon gioco dei mercanti e avrebbero potuto respingerli agevolmente. Del resto, l’accoglienza fu buona perché i nuovi arrivati erano anche portatori di tecnologia. I rapporti delle città fenicie d’Occidente con la madrepatria libanese, cessarono definitivamente nel 650 a.C., come documentano le antiche fonti scritte che raccontano come la Fenicia divenne terra di conquista e fu occupata, in successione, prima dagli Assiri, poi dai Babilonesi e infine dai Persiani, che la conquistarono nel 550 a.C. Questi ultimi, nel Mediterraneo Orientale, incentivarono il commercio fenicio in concorrenza con quello greco.

da HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM

da www.archeo.it

martedì 3 settembre 2013

I Neanderthal erano navigatori? - Occhio sul Mediterraneo

da www.dailygreen.it
da www.lsdmagazine.com

L'immagine scimmiesca utilizzata anni fa per descrivere l'uomo di Neanderthal, non e' piu' coerente con le nuove realta' archeologiche: è noto che questa linea evolutiva, seppur separata dall'essere umano moderno, possedeva il fuoco, diverse forme di comunicazione, intratteneva scambi commerciali con i più recenti ed evoluti sapiens, fino addirittura ad incrociarsi con l'uomo anatomicamente moderno, e per certo, fu il primo artista della storia. Una serie di recenti scoperte nelle isole del Mediterraneo hanno suggerito anche l'ipotesi che i Neanderthal fossero in grado di costruire barche e navigare, spostandosi in lungo e in largo lungo sul mare fino a coprire distanze di centinaia di chilometri. "Devono aver necessariamente utilizzato un qualche tipo di imbarcazione; e' difficile pensare che abbiano percorso queste distanze a nuoto" spiega l'archeologo Alan Simmons della University of Nevada. "Molte delle isole non hanno ponti naturali con cui raggiungerle, per cui gli antichi esploratori dovevano possedere la capacità di costruire navi e le conoscenze per sapere dove condurle". Fino ad ora, l'archeologia si è concentrata quasi esclusivamente sui resti neolitici presenti sulle isole del Mediterraneo. "Su moltissime isole, ci sono incredibili resti di antichità classiche, per cui per molti anni nessuno ha cercato siti più vecchi" sostiene Simmons. Nelle ultime due decadi, tuttavia, sono emerse le prove che alcune isole siano state popolate fin da tempi ben precedenti al Neolitico: alcuni ritrovamenti sulle isole di Melos e di Cipro hanno rivelato artefatti risalenti a 11-12.000 anni fa. "Abbiamo scoperto le prove che alcuni cacciatori umani possano aver condotto all'estinzione gli ippopotami pigmei di Cipro circa 12.000 anni fa. Questo suggerisce che gli antichi navigatori non dovevano già possedere piante e animali addomesticati da portare su queste isole, cosa che rappresenta un complesso bagaglio di "trucchi", ma potrebbero essere stati semplici cacciatori-raccoglitori". "L'idea generale era che nessuna delle piccole isole del Mediterraneo ospitasse insediamenti prima del Neolitico perché erano troppo povere di risorse naturali per supportare un'occupazione permanente. Questo è probabilmente falso. I cacciatori e i raccoglitori possono diventare molto creativi". I suoi manufatti sono stati trovati in territorio greco sia sulla terraferma che sulle isole maggiori come Lefkada, Cefalonia e Zacinto. La spiegazione può essere duplice: o a quel tempo le isole erano collegate alla terraferma, perciò non erano isole, oppure i nostri antenati hanno attraversato il mare in qualche modo. George Ferentinos, dell'Università di Patrasso, dice che possiamo escludere la prima ipotesi perchè è certo che le isole esistevano già. Le acque in quell'area erano profonde almeno 200 metri; oggi sono 300 i metri, ma 100.000 anni fa per effetto della glaciazione le acque si sono abbassate di un centinaio di metri. Ferentinos è convinto che i Neanderthaliani abbiano accumulato decine di migliaia di anni di esperienza sul mare, mentre l'uomo moderno si pensa abbia raggiunto l'Australia via mare non prima di 50.000 anni fa. I viaggi dalla terraferma greca alle isole duravano poche ore ma, secondo Thomas Strasser del Providence College dell'isola di Rodi, i Neanderthaliani non si sono limitati a queste piccole tratte. Nel 2008 sono stati rinvenuti i loro attrezzi di pietra, databili a 130.000 anni fa, sull'isola di Creta. E Creta è certamente un'isola da almeno 5 milioni di anni e la terraferma più vicina è a 40 chilometri. Uno non si avventura per una tratta così lunga in mare aperto se non sa navigare e decidere la direzione. Probabilmente le loro barche erano tronchi svuotati con dei bilancieri per renderle stabili. Certamente non hanno fatto a nuoto 40 chilometri come è certo che non sono stati i primi ad andare per mare: un milione di anni fa l'Homo Erectus navigava tra le isole Indonesiane del mare di Flores!
Alcuni reperti indicherebbero date ben precedenti per la colonizzazione umana delle isole mediterranee: una serie di artefatti di pietra rinvenuti a Creta indicherebbero date superiori ai 110-170.000 anni fa, il periodo in cui si presume abbia avuto origine l'essere umano anatomicamente moderno. Sarà necessaria ancora molta, moltissima ricerca per scoprire la vera storia delle migrazioni umane. Uno dei problemi fondamentali è la datazione: gli artefatti di Creta vanno ben oltre le capacità di datazione del radiocarbonio, e la collocazione temporale di questi oggetti basata sulla stratificazione del terreno non aiuta a stabilire con certezza il periodo in cui furono realizzati. Non sono ancora state trovati, inoltre, resti di imbarcazioni primitive, probabilmente realizzate in materiali deperibili (come il legno) che non hanno resistito al passare del tempo.

 fonte:University of Nevada

da http://portalemisteri.altervista.org/blog/

lunedì 2 settembre 2013

NURAGHE, NURAKE -linguistica sarda e semitica - monumenti sardi

NURAGHE, NURAKE

di Salvatore Dedòla
da www.linguasarda.com


Su questo antichissimo nome troppi linguisti hanno elucubrato invano. Il lemma, che molti considerano un aggettivale (radice nur + tema ake), in realtà non è scomponibile. Gli viene dato il significato di ‘(torre in) muratura’, termine che avrebbe preso piede nell’alto Medioevo, mentre prima sarebbe stato diverso. Per svelare l'enigma occorre muoversi con cautela, lasciando parlare anzitutto i più quotati analisti. Comincio col Sardella (Il Sistema Linguistico della Civiltà Nuragica 325 sgg.) che demonizza quanti, riportando i significati attuali della radice nur-, collegano nuraghe al sardo nurra e traducono quest’ultimo vocabolo a un tempo come ‘mucchio di pietre’ e (con logica capovolta) come ‘vuoto, cavità, voragine’. Egli sostiene che nuraghe e nurra non sono imparentati, e dà per la torre nuragica il significato di ‘lo splendore del santuario’ (sumero nur-a-a-ak-k-i): composto del quale accetto (con riserva) solo il significato di nur 'splendore'. Il Semerano (Origini della Civiltà Europea 592) parimenti non ammette parentele tra nurra e nuraghe, ma rende il problema più avventuroso. A seguire l’esimio studioso, partiamo dalla seconda porzione del lemma, che per lui non è un tema flessivo ma un vocabolo abbinato al primo per stato costrutto. Esso avrebbe la stessa base di lat. arx < accadico arku ‘(abitazione) alta’, ebraico ārōh ‘alto, lungo’, 'luogo inaccessibile, fortificato’. Per il nome intero l’accadico darebbe, secondo Semerano, na(w)u-arraku ‘arce, castello’. Nāwûm come supposta prima parte del composto nur-ake significa ‘abitazione nomadica, pascolo’; ha la sua espansione semitica nell’ebraico nā’ā ‘abitazione, pastura’, forma allotropa di nāwe ‘abitazione, pastura’: a questa stessa base risale il verbo denominativo greco ναίω ‘abito’. Sostando sul termine intero, Semerano confronta il significato anche col latino castrum, suo sinonimo. Lo sforzo ricostruttivo del Semerano non coglie il segno, e va tentato un terzo approccio. La forma nurake potrebbe essere confrontata, per Massimo Pittau (Lingua Sardiana o dei Protosardi 163), con la forma murake largamente presente nel quadrilatero Macomer-Silanus-Abbasanta-Paulilatino-Bonarcado. Ma già sorge l'obiezione che ciò imporrebbe automaticamente anche l’equazione mur-ake = mur-ge (i noti rilievi pugliesi), che invece non hanno la base in arx (accad. arraku, arku ‘alto, lungo’) ma, soltanto per la prima parte del termine, nel latino mūrus ‘muro, mura, muraglia’. Il Pittau fornisce un apparato esauriente dei lemmi affiliati in qualche modo a nuraghe, definendoli «tutti relitti sardiani imparentati col lat. mūrus ‘muro’, con l’antroponimo etrusco Muru e col toscano mora, morra ‘mucchio di pietre, muriccia’». Egli non ammette la parentela nurra- ‘voragine’ con nurra-‘catasta’, e prosegue: «Rispetto alla base nura/mura o nurra/murra… l’appellativo nuraghe/muraghe risulta essere un aggettivo sostantivato e il suo significato originario sarà stato ‘(edificio) murario’, ‘(torre) in muratura’». Ma anche la seducente discussione del Pittau è sbagliata. Anzitutto perchè non ha fatto i conti col termine Nora, che designa la celebre città fenicia della Sardegna, significante ‘Luce (di Dio)’. E qui torno al Sardella ed alla mezza verità da lui espressa sul significato di nuraghe. Capisco che avvicinare l’etimologia di nuraghe a Nora sia una turbativa agli occhi della maggior parte degli studiosi, ma è uopo farlo: occorre che ognuno abbandoni le posizioni rigide su cui sinora si è arroccato circa la funzione dei nuraghi. Sino a che non si accetterà come ovvio e naturale che i nuraghi non erano fortezze ma altari sulla cui sommità splendeva il fuoco perenne, non si capirà niente nemmeno della loro etimologia. Essi, prima d’essere identificati con un ‘muro costruito’ (accezione operata nel Medioevo dal clero cristiano, interessato a smantellare i cardini della precedente religione), erano semplicemente gli altari della Luce di Dio (del fuoco sacro) ed affiancavano il proprio nome a quello di Nora; beninteso, senza immedesimazione dei due lemmi, che non hanno la stessa etimologia. Infatti per nuraghe dobbiamo mettere in campo il termine babilonese nuḫar ‘tempio elevato, ziggurath’. Sul termine intervenne la metatesi sardiana nuḫar > nuraḫ > nuragh-e. Per la fase metatetica, vedi l’iscrizione latina sopra il nuraghe Aidu Entos, che scrive esplicitamente NURAC. Così interpretando, dobbiamo ammettere che è giusto quanto affermano gli archeologi, circa la maggiore antichità dello ziggurath di Monte d’Accoddi (Sassari). E dobbiamo aggiungere che fu proprio lo ziggurath di Monte d’Accoddi (e quelli babilonesi) il modello religioso (non formale) da cui s’evolvettero i nuraghi quali altari del Fuoco perenne di Dio. Ho scritto in varie parti che l'ipotesi - ancora oggi tenacemente sostenuta da molti - che i nuraghi fossero fortezze, non ha alcuna base logica. I nuraghi in Sardegna sono (furono) almeno diecimila, e come strumenti difensivi sarebbero un numero enorme. Accettarli come fortezze significa che i pochissimi Sardi dell'epoca (gli storici e gli antropologi hanno supposto non più di 300.000 anime) avessero costruito un nuraghe per ogni 30 persone. Il dato è incredibile, perchè dobbiamo accettare l'assurdo che i Sardi - a gruppetti di 30 - si facessero l'un l'altro una guerra permanente. La quale sarebbe illogica, perchè in breve tempo i Sardi sarebbero dovuti sparire, mentre invece non sparirono. A questo assurdo si sommerebbe l'altro, che per erigere un nuraghe non bastano 30 persone (delle quali peraltro metà sono bambini, l'altra metà va spartita tra uomini e donne, e poichè le donne avevano altro da fare, ad erigere il nuraghe avrebbero lavorato non più di sette uomini). Altro assurdo: ogni nuraghe copre mediamente un territorio non più ampio di 3 chilometri quadrati, che sarebbe lo spazio vitale di ogni tribù di 30 persone... pari a sole tre famiglie! Un assurdo affastellamento di torri difensive. Infine va fatto un ragionamento decisivo: per annientare la "tribù" avversaria non c'era bisogno di affrontarla in campo aperto, bastava aspettare il vento, attendere che la "tribù" entrasse a dormire nel proprio castello, accendere dei falò a ridosso del nuraghe, ucciderli tutti per asfissìa. I nuraghi non furono castelli ma altari. Il popolo Shardana non fu mai in guerra intestina d'annientamento, ma fortemente coeso. Riuscire a costruire una pletora incredibile di altari d'una perfezione architettonica assoluta presuppone una fortissima unità di popolo. Gli Shardana erano così religiosi, che s'aiutarono l'un l'altro ad erigere queste prodigiose torri, che da quasi quattromila anni sfidano il vento e l'insipienza degli interpreti. Circa la radice NUR su citata, essa era nota ai Fenici, con la quale appellarono la città di Nora, chiamandola Ngr (il termine è nella Stele di Nora: vedi capitolo a parte). La Fuentes Estanol, autrice del Vocabolario Fenicio, dà a Ngr appunto il significato di Nora. Accetto la sua tesi e affermo che Ngr si adatta indifferentemente a Nora ed a Nùgoro/Nugòro (che è la città di Nùoro). Per dirimere la questione, faccio le osservazioni seguenti. In Logudoro Nùoro (Nùgoro) è chiamata Nùaru. Quest'ultimo toponimo a prima vista sembra ripetere proprio il nome antico del 'nuraghe' (nuḫar, con affievolimento e successiva caduta della fricativa velare -ḫ-). Invece non è così: il log. Nùaru ha la base nell'ant.accad. nawāru(m) 'essere brillante, splendere' > agg. nawru(m), nauru(m) 'brillante, scintillante' (di corpi celesti, come epiteto divino), incrociato con nuwwurum 'intensità (di luce)'. Nùgoro a sua volta ha la base in nuwwurum, con successiva consonantizzazione delle velari -ww- > -g-. Preciso, a scanso d'equivoci, che nuwwurum è un epiteto riferito direttamente al nuraghe quale sede luminosa del Dio del fuoco, e che dunque i toponimi Nùgoro e Nùaru, sorti in virtù di tale epiteto, sono sempre riferiti in prima persona al nuraghe, che era il tempio del Sole. Nella persistenza millenaria delle due pronunce Nùgoro e Nùaru rientra a pieno titolo anche la parentela semantica esistente tra 'intensità di luce' (nuwwurum riferito alla sacralità del nuraghe quale altare del fuoco)' e 'nuraghe' (nuḫar), che portò all'immedesimazione della "torre" col suo epiteto. Nel Nuorese prevalse la lettura toponomastica riferita alla brillantezza del nuraghe quale altare del fuoco, che è nuwwurum; l'antica semiconsonante debole (w) fu assimilata poi alla /g/ che è la velare sonora più vicina alla /w/. Il processo fonetico che portò a pronunciare Nùgoro può essere capito anche partendo dall'agg. nawru(m), nauru(m) 'brillante, scintillante' (di corpi celesti, come epiteto divino). Al riguardo entra in gioco la legge della semplificazione del dittonghi protosemitici (riguardante l'antico accadico), che dalla base naurum produce nū(w)rum; l'antica semiconsonante debole (w) fu assimilata, dagli Shardana abitatori dell'altopiano nuorese, alla /g/. La /w/ è sparita invece nel toponimo Nora [< Nū(w)rum]. Presso i Fenici che frequentarono Nora aveva prevalso, come abbiamo visto, il rafforzamento o consonantizzazione delle -ww- di nuwwurum, e chiamarono la città di Nora Ngr, giusta l'intuizione della Fuentes Estanol; presso gli Shardana abitatori della stessa città di Nora prevalse invece l'affievolimento e la successiva caduta di -ww-, onde nuwwurum >Nu(ww)ra > Nōra.


Mamuthones e Issohadores di Mamoiada: Museo della maschera

da http://www.museodellemaschere.it/

Is brebus de Zia MAriagiuseppa


da http://www.contusu.it/

Quand’ero piccolo (avrò avuto sette-otto anni) a casa mia allevavamo conigli. Ne avevamo parecchi e tutti discendevano dalla capostipite che avevamo chiamato Antonietta. Era un magnifico esemplare, dalla taglia molto grossa e aveva la caratteristica di essere molto prolifica. Ricordo nidiate anche di 18 coniglietti! Non tutti sopravvivevano, ma una buona dozzina riusciva a tirarli su. Col passare degli anni Antonietta (o Antoniettedda, come la chiamavamo noi bambini) era diventata un’istituzione. Non ci sfiorò mai l’idea di ammazzarla, come si faceva con gli altri suoi simili e perciò era come un’icona vivente, da tutti ammirata e coccolata. A casa avevamo l’abitudine, ogni tanto, di liberare nel cortile tutti i conigli che potevano così sgranchirsi le zampe e offrire un insolito spettacolo ai passanti e vicini di casa. A quei tempi (negli anni’50) a Villacidro c’erano numerosi cacciatori e non era raro vederli transitare nelle vie del paese con il fucile a tracolla. Una mattina passò ziu Antonicu che portava il fucile a tracolla. Si avvicinò al portone e osservò quello stuolo di conigli che si muovevano liberamente nel cortile. Tra una chiacchiera e l’altra con mio padre, si tolse il fucile dalla spalla e puntatolo addosso ad Antonietta disse per scherzo: «Immoi dda sparu!» (Adesso le sparo!). Naturalmente non lo fece, limitandosi a mimarne l’azione. Poi se ne andò. La sera stessa Antonietta accusò i primi sintomi di uno strano malessere: rimase accovacciata e immobile in un angolo, senza mangiare. Il fatto si ripeté nei giorni seguenti: restava sempre immobile, senza mangiare tant’è che cominciò a deperire e nel giro di una settimana era ridotta a pelle e ossa. Non moriva ma era evidentemente sofferente e colpita da qualche grave morbo. Visto che non si riusciva a capire cosa le stesse capitando mia madre pensò di farla vedere da zia Mariagiuseppa, una vecchia del paese, famosa perché conosceva e praticava is brebus che spesso risolvevano situazioni impossibili. Così, una sera mia madre e io andammo con Antonietta dentro una scatola di cartone a casa della guaritrice. Arrivati, la vecchia osservò a lungo la coniglia e finalmente disse in tono grave: «Iscùra…è pigàda in ogu! Portat su coru spaccau!» (poveretta…ha il malocchio! Ha il cuore spaccato!). Allora iniziò il rituale di guarigione del quale conservo indistinti ricordi. Recitò in segreto is brebus e poi, rivolgendosi a mia madre: «Bai cun Deus –disse- ca sa coilla gei sanada ! » (Vai con Dio, ché la coniglia di sicuro guarisce). Il giorno stesso Antonietta riprese a mangiare e nel giro di alcuni giorni riacquistò prodigiosamente l’aspetto florido e sano di sempre. Visse ancora alcuni anni, fino a quando morì di vecchiaia.

da http://www.contusu.it/