lunedì 24 dicembre 2012

La Novena in Sardegna - Feste nelle chiese campestri - 1967

domenica 14 ottobre 2012

Dee ed esseri infernali

Si puó ragionevolmente ritenere che in un tempo antichissimo,le janas siano state le divinitá delle popolazioni sarde che poi ne hanno tramandato il ricordo attraverso la tradizione orale.
Queste entitá dei boschi e delle fonti hanno visto mutare nel corso dei secoli la loro primigenia identitá.
Da divinitá agresti,le janas sono divenute esseri dotati di poteri magici,capaci di influire sul destino degli uomini donando loro enormi ricchezze  o colpendoli con la sventura.
Ancora oggi di una persona particolarmente fortunata si usa dire che é bene fadada; al contrario,si dice male fadada per chi é incorsa in una disgrazia.
Un'altra curiosa espressione è l'imprecazione 'mala jana ti currada'(cattiva fata ti insegua).
Come giá é stato detto,con l'avvento del cristianesimo si cercó di riportare entro un ambito cristiano i miti pagani e le entitá soprannaturali presenti nelle credenze popolari.
Le janas vennero cosí declassate al rango di streghe e ritenute capaci di compiere sortilegi per pura crudeltá.
Divennero delle creature infernali da cui era possibile difendersi soltanto con la preghiera o con l'ausilio di cose benedette quali la Bibbia,i crocifissi,la terra di camposanto.
Questa evoluzione puó forse aiutare ad interpretare la presenza,tra le figure della tradizione,di personaggi contradditri quali Giorgia Rabiosa,Maria Mangrofa,Maria Abbranca ed altri.Si tratta di donne dotate spesso di poteri magici,descritte a volte come demoni o streghe dalle fattezze orribili;altre volte come creature benefiche ricche di virtúe qualitá.
In una leggenda si parla di una maga di nome Zicchiriola,che viveva in una grotticella insieme ad altri 'jannaressos'(questo il nome che viene dato agli abitatori delle domus de janas).Si dice che possedesse una grossa conchiglia capace di produrre un suono simile a quello del corno.Suonando questo strumento Zicchiriola attirava nella sua caverna le ragazze brutte per insegnare loro le arti magiche.
Altre storie riferiscono di una bellissima fanciulla di Orosei,dai capelli lucenti come seta,il cui nome era Maria Mangrofa.Promessa in sposa ad un bel giovane,fu da questi abbandonata alla vigilia delle nozze.per la disperazione la ragazza lasció il suo paese ed andó a vivere in una grotta,trascorrendo tutto il tempo a filare.
poiché la grotta era molto bassa,Maria divenne ben presto gobba.Anche i capelli persero il bell'aspetto di un tempo e a causa dell'umido si fecero ispidi e impettinabili.Perse anche tutti i denti ed il suo aspetto divenne orribile. La gente inizó ad evitare di passare da quelle parti e si sparse la voce che maria fosse una strega.
 http://www.contusu.it/leggende-e-tradizioni/232
Costretta alla solitudine,quando la povera ragazza incontrava qualcuno faceva di tutto per trascinarlo nella sua grotta,promettendogli preziosi regali in cambio di un pó di compagnia.

Pare infatti che dentrola caverna Maria conservasse i bauli contenenti il suo ricco corredo e i doni ricevuti per le nozze.  Un'altra tradizione vuole che Maria Mangrofa dimorasse lungo un tratto del fiume cedrino,in una zona ancora oggi chiamata 'sa costa de zia Maria Mangrofa'. La donna sarebbe stata la custode della sorgente de Su Cologone,alle cui acque si attribuiva la propritá di guarire le malattie degli occhi.
Non  a caso poco distante venne costruita la chiesetta di Santa Lucia (la santa protettrice della vista) i cui ruderi sono ancora visibili.

(dal libro 'Luoghi ed esseri Fantastici della Sardegna" edito da L'UNIONE SARDA,scritto da B.Vigna-G.Caprolu,con illustrazioni di P.L.Murgia).
foto presa da http://teatriemusei.ovest.com/it/sorgenti-su-gologone-di-oliena-sardegna.php

mercoledì 3 ottobre 2012

Cristoforo Colombo

Cristoforo Colombo pseudonimo di un nobile sardo.
 Suggestiva ipotesi di una studiosa spagnola
http://www.marellagiovannelli.com/mara_malda/cristoforocolombopseudonimodiunnobilesardoquestanuova.php




Cristoforo Colombo sarebbe nato a Sanluri in Sardegna, secondo la studiosa iberica Marisa Azuara. L’ipotesi, nuova e suggestiva, è contenuta nel libro “Christoval Colón. Más grande que la leyenda” appena uscito in Spagna e scritto dalla stessa Azuara. La quale, ha ricostruito (e completamente rivoluzionato) la biografia di Cristoforo Colombo (pseudonimo di Cristoforo da Siena e Alagon), dopo due anni di ricerche negli archivi storici di Cagliari, Oristano, Alghero, Torino, in quelli siciliani, nei documenti della Corona d’Aragona e dell'associazione Araldica e genealogica di Sardegna.
Alcuni stralci del libro sono pubblicati oggi nella pagina della Cultura dell’Unione Sarda. La clamorosa ipotesi avanzata da Marisa Azuara, punta a smantellare la tesi, comunemente accreditata, che vuole Cristoforo Colombo, nato a Genova il 3 agosto 1451, figlio di Domenico, un tessitore di lana, e di Susanna Fontanarossa.


La studiosa spagnola sostiene che il vero nome di Cristoforo Colombo era Cristoforo da Siena e Alagon, figlio di Salvatore da Siena Piccolomini e Isabella Alagon d'Arborea. Da parte di suo padre - era il secondo figlio del Grande ammiraglio di Sardegna - Colombo era imparentato con i Piccolomini e i Chigi di Siena, con i Todeschini Piccolomini Aragona dell'Umbria, con i Visconti di Milano e con i Spinola di Firenze. Riguardo sua madre, discendeva dagli Alagon di Saragozza, dei mitici giudici sardi Mariano e Eleonora d'Arborea e del sardo genovese Brancaleone Doria.
In base alla ricostruzione fatta da Marisa Azuara, Cristoforo futuro Colombo sarebbe nato nel 1436, nel castello di Sanluri, residenza della sua famiglia paterna e trascorse la giovinezza tra Oristano, Tortolì e Castelsardo a studiare le scienze e la nautica. La vita del giovane Cristoforo sarebbe cambiata, sempre secondo la ricercatrice spagnola, nel 1458 quando venne eletto Papa Enea Piccolomini, Pio II, imparentato con i castellani di Sanluri.

Il neo-Papa nominò Gonfaloniero dell'armata papale il nipote Antonio Todeschini che, a sua volta, nominò il sardo Cristoforo da Siena, esperto di cosmografia, Capitano di vascello della flotta pontificia. Lasciata la Sardegna e il castello di Sanluri, il Cristoforo che Marisa Azuara identifica con il futuro scopritore dell’America, cominciò a frequentare i più importanti eruditi della sua epoca, ampliando e perfezionando le sue conoscenze di matematica, astrologia e geografia.
mparò anche a disegnare mappe grazie a Fra’ Mauro, monaco camaldolese. Nei prossimi mesi una troupe di Canal Historia arriverà in Sardegna per girare uno speciale, basato sull’ ipotesi di Marisa Azuara che, in Spagna, sta suscitando grande interesse e notevole scalpore. La maggior parte degli storici, sulla base dei registri di nascita e della storia delle famiglie, ritiene che Cristoforo Colombo fosse genovese. Ma le sue origini e l’esatto luogo della sua nascita sono state sempre al centro di controversie, rivendicazioni e polemiche.
Mistero anche sul suo castigliano, pieno di parole in portoghese e in latino, e sulla mancanza di scritti lasciati da Cristoforo Colombo in lingua ligure o genovese. Sembra che avesse una pessima conoscenza della lingua volgare italiana che certamente capiva ma scriveva con molte difficoltà. Esistono invece vari documenti da lui scritti in latino ed in greco e due piccole note a margine, in italiano franco del Quattrocento, con alcune parole castigliane 
in intermezzo.







VENERDÌ 14 SETTEMBRE 2012

COMUNICATO STAMPA: CASTELLO DI SANLURI - VENERDI 5 OTTOBRE 2012 - INCONTRO CONFERENZA CON MARISA AZUARA AUTRICE DEL LIBRO "CRISTOFORO COLOMBO; LA CROCIATA UNIVERSALE"




giovedì 6 settembre 2012

Le rotte degli Shardana e gli studi sul sistema metrico dei protosardi

Pierluigi Montalbano HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM
Silanus Santa Sabina


Tra i campi di indagine di Giovanni Ugas, docente di Preistoria e Protostoria all’Università di Cagliari, vanno segnalati, oltre agli originali elementi alfabetici nati nell’Isola dopo il periodo nuragico, i sistemi ponderali e metrico lineari in uso nella Sardegna dell’antichità, basati sulla ricorrenza del 5,5 (grammi e centimetri) come parametro ricorrente. Nel contributo che pubblichiamo il professore presenta una breve sintesi dell’articolo “I segni numerali e di scrittura in Sardegna tra l’età del Bronzo e il I Ferro” nel quale affronta la problematica dei codici numerali e di scrittura al tempo dei nuraghi. Questo studio uscirà dalle stampe nella collana di Studi Archeologici “Tharros felix” (V) curata da Raimondo Zucca e da altri docenti archeologi e storici dell’Antichità per conto della casa editrice Carocci di Roma.

Le rotte degli Shardana e gli studi sul sistema metrico dei protosardi
di Giovanni Ugas (Fonte: L'Unione Sarda)

È noto che per circa sette secoli, tra l’età del Bronzo medio e finale (all’incirca dal 1600 al 900. C.), le popolazioni sarde furono governate dai capi tribù che risiedevano nei nuraghi mentre il resto della popolazione dimorava nelle modeste abitazioni dei villaggi. Il commercio intertribale era aperto alle transazioni con regioni d’oltre mare e almeno dal XIV a.C. la Sardegna fu raggiunta da contenitori in ceramica dipinta, grandi lingotti ox-hide in rame, manufatti in avorio e vetro del bacino orientale del Mediterraneo, mentre i Sardi navigavano con le loro merci in Sicilia, Grecia e Creta. É chiaro che, allora, i Sardi frequentavano popolazioni che adoperavano la scrittura e non a caso in 8 lingotti in rame importati (forse tramite Creta) sono stati rilevati contrassegni di scrittura lineare egea. Tuttavia, a parte l’esiguo numero e l’origine incerta di questi marchi, non è attestata nell’isola alcuna iscrizione avente almeno due caratteri sillabici insieme e allo stato attuale delle ricerche non esistono ragioni valide per sostenere che nella Sardegna del Tardo Bronzo fosse stato adottato un sistema di scrittura lineare affine a quello egeo, né di altra natura. A partire dal IX a.C., abbattuti i nuraghi, le comunità dei villaggi compirono un passo fondamentale verso una società urbana, sostituendo le residenze dei capi tribali con organismi collegiali e costruendo maestosi edifici pubblici, in particolare sale del consiglio, palestre per i giovani, terme, templi destinati a divinità celesti e dell’acqua. Le condizioni economiche e sociali migliorarono e ben presto i villaggi santuariali accumularono notevoli ricchezze. Allora la Sardegna fu raggiunta da mercanti fenici (che in parte vi si stabilirono), greci ed etruschi, ma non di meno i Sardi lasciarono le tracce dei loro movimenti (ceramiche e artistici bronzi) in Etruria e altre regioni peninsulari, Creta, Africa del Nord e Penisola iberica, mentre qualche Nivola o Sciola protosardo scolpiva le grandiose statue di Mont’e Prama. Non c’è da stupirsi se in questo clima di benessere e di apertura culturale del I Ferro anche in Sardegna maturarono le condizioni per la nascita della scrittura. Oggi si può contare su un complesso di 32 manufatti del I Ferro (IX-VI a.C.), in particolare vasi, pesi da bilancia e lingotti provvisti di 55 segni di scrittura alfabetica. Spesso i grafemi si presentano isolati per registrare misure di peso o di capacità, ma talora possono aver segnalato la proprietà o la fabbrica. Le iscrizioni con due e più grafemi finora individuate sono appena sei, ma le stesse e i segni isolati consentono di definire un omogeneo e originale sistema di scrittura alfabetica connesso con un codice numerale. Le iscrizioni fanno pensare ad un fenomeno d’élite, ma l’articolata distribuzione dei segni in ambito regionale porta a ipotizzare un’ampia diffusione; d’altronde, a oggi, sono assai poco indagati i templi e le sepolture del I Ferro (in particolare del VII-VI a.C.) da cui attendiamo nuove iscrizioni.

Domusnovas


Allo stato attuale il sistema alfabetico sardo consta di 21 lettere: 16 consonanti, di cui alcune problematiche, e 5 vocali. Finora non risultano attestati i grafemi per i fonemi B, D, TH, N, e ciò può dipendere in parte dalla documentazione ancora carente. Non solo l’aspetto formale, ma anche l’orientamento progressivo dei grafemi (da sinistra a destra) e l’uso delle vocali inducono ad affermare, sorprendentemente, che il sistema alfabetico sardo si apparenta al modello di scrittura greco “rosso” occidentale piuttosto che a quello fenicio. Colpisce la vicinanza formale con i più precoci alfabeti della Beozia e dell’Eubea. Basti richiamare i grafemi della statuetta bronzea tebana dedicata da Mantiklos ad Apollo arciere e quelli dell’iscrizione greca su un vaso di Gabii (Osteria dell’Osa), la più antica in ambito etrusco-laziale. Questo legame tra la Sardegna e il mondo beota ed euboico è suggellato da una serie di elementi in comune: gli ornamenti geometrici delle ceramiche e l’importazione precoce di vasellame euboico; i templi in antis sul fronte e sul retro; la relazione etnica tra la Sardegna e la Beozia proposta nel mitico racconto su Iolao e i Tespiadi, che fa retrocedere nell’eroica età del Bronzo un rapporto certamente vissuto nell’età del Ferro. Contemporaneamente nel IX-VIII a.C. era diffuso nell’isola un articolato codice numerale che impiegava segni alfabetici e geometrici. In 25 manufatti, si riscontrano segni numerici elementari, anch’essi con direzione di lettura progressiva, consistenti in tacche e cerchielli (o puntini), che avevano la funzione di registrare le misure di peso, unità e multipli. In alcuni pesi da bilancia e lingotti in piombo la disposizione dei punti e dei cerchielli per segnalare le cifre 3, 4, 5 e 6, è quella tipica dei dadi e ciò porta a credere che fosse praticato tra le comunità sarde il gioco dei dadi. Più tardi, a partire forse dal VII a.C., i Sardi adottarono un nuovo codice numerale a base 5 e 10, strutturalmente simile al sistema di numerazione decimale degli Etruschi e dei Romani.

venerdì 10 agosto 2012

Navigazione. Iniziò almeno 130.000 anni fa!

Pierluigi Montalbano

Creta, Plakia. La storia della navigazione iniziò oltre 130.000 anni fa
di Martina Calogero.



Indagini archeologiche effettuate nella Grecia meridionale, a Creta, hanno consentito di scoprire le prove dei primi viaggi per mare della storia che risalirebbero a centotrentamila anni fa. Gli scavi di Plakia hanno permesso di scoprire la più antica testimonianza della navigazione al mondo: alcuni reperti costruiti prima del Neolitico, in età paleolitica, fra i settecento e i centotrentamila anni fa.

I manufatti, delle asce, sono stati scoperti vicino a delle piattaforme sottomarne databili a circa centotrentamila anni fa: questa è la prova che le prime navigazioni nel Mediterraneo sono avvenute molto prima di quanto si credesse. Fino ad oggi, il più antico viaggio nel bacino del Mediterraneo era datato a dodicimila anni prima di Cristo. Il professor Curtis Runnels, un membro dell’equipe di archeologi che ha effettuato la scoperta, pensa che se gli abitanti di Creta potevano navigare nel Mediterraneo centotrenta mila anni fa, è probabile che riuscissero anche a compiere viaggi oltre al Mare Nostrum.

Secondo Eléni Panagopoulou e Thomas Strasser questi scavi faranno luce sulla storia della colonizzazione europea da parte di ominidi provenienti dall’Africa. Secondo gli storici, questi ominidi avevano viaggiato in Europa a piedi, ma le nuove scoperte dimostrano che alcuni di loro viaggiarono anche per mare.

Fonti: Archeorivista,HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM


martedì 24 luglio 2012

Il Gigante Rosso

Il Nuraghe Arrubiu di Orroli.

http://www.fontesarda.it/imgsarde/nurarr21.htm



Vicino ad Orroli nella Sardegna centrale troviamo il Nuraghe Arrubiu, che significa "rosso" con allusione al colore che può assumere il basalto, spesso ricoperta da licheni. Si tratta di un nuraghe pentalobato i cui lavori di scavo sono molto recenti, nel sito archeologico sono stati trovati anche dei reperti dell'epoca romana con strumenti per preparare il vino. Come spesso succede gli insediamenti che avevano una dislocazione particolarmente favorevole venivano utilizzati anche nelle epoche successive.
L'imponente struttura raggiunge i 15 metri di altezza e quasi 3000 mq come area. Purtroppo gli interventi archeologici veri e propri risalgono al 1981. Intorno alla torre centrale sorgono altre 5 torri, collegate l'una all'altra da imponenti muraglioni rettilinei, con un cortile irregolarmente pentagonale al centro.


lunedì 23 luglio 2012

Ichnusa - etimologia del termine secondo Salvatore Dedola



ICHNÙSA

I Greci ebbero la sorte di tramandare ai posteri molte opere scritte, e mediante esse hanno imposto la propria ragione presso gli studiosi dei moderni atenei, i quali a quei testi restano fideisticamente attaccati come all’unica verità. E così sembra a tutti lapalissiano che i nomi più antichi della Sardegna siano stati, in concorrenza tra loro, i seguenti quattro di tradizione greca:̉Ιχνοũσσα, Σανδαλιοτίς o Σανδαλώτη, ̉Αργυρόφλεψ, Σαρδώ(Sardinia presso i Romani).
Ma intanto nessuno ha notato che la Sardegna, in tal guisa, ricevette una considerazione immensa nel mondo greco-latino, poiché l’essere chiamata in tanti modi (che in definitiva sono sei) non era indice di scarsa frequentazione dell’isola – com’è lamentela generale – ma il contrario: era segno che tutte le flotte del Mediterraneo conoscevano bene i suoi approdi, e ogni flotta individuava l’Isola con un nome preciso.
A quei tempi mancavano le convenzioni geografiche internazionali, e ogni popolo del bacino greco chiamava l’Isola al modo che le singole marinerie si tramandavano. La tradizione greca riporta tali versioni, che però vengono limitate (consapevolmente) a quelle che circolavano nel bacino d’utenza. Furono omesse quindi le versioni semitiche, per la ragione che la Grecia, nella colonizzazione del Mediterraneo, si trovò sempre in aspra concorrenza coi Fenici, dei quali bisognava occultare e contrastare gli interessi anche su questo piano.
Vediamo per esteso le versioni di parte greca (e conseguentemente di parte romana). Lo Pseudo Aristotele scrive: «Quest’isola, come sembra, una volta veniva chiamata Ichnussa (̉Ιχνοũσσα) in quanto il suo perimetro riproduce una figura di molto simile all’impronta di un piede umano». È la prima notizia in assoluto, tramandata nel IV sec. a.e.v. Plinio, N.H. III, scrive: «Sardiniam ipsam Timaeus Sandaliotim appellavit ab effigie soleae, Myrsilus Ichnusam a similitudine vestigii» (i due studiosi citati da Plinio sono del IV sec. a.e.v.). Sallustio, II, scrive nel I sec. a.e.v.: «La Sardegna, situata nel mare Africo, ha la forma di un piede umano».
Da scrittore a scrittore, ̉Ιχνοũσσα (o ̉Ιχνοũσα) e Sandaliotis furono i due coronimi più tramandati, e tutti gli scrittori li riferirono alla ‘impronta di un piede umano’ ( ̉Ιχνοũσα) o a un sandalo (Sandaliotis): vedi Silio Italico, Manilio, Pausania, Aulo Gellio, Solino, Esichio (Σανδαλώτη), Claudiano, Isidoro, Paolo Diacono.
Se ne discosta lo Scolio al Timeo di Platone: «Costui (Tirreno), salpato secondo un vaticinio dalla Lidia, giunse in quei luoghi (= nel mare Tirreno) e da Sardo, moglie di lui (prese nome) sia la città di Sardis nella Lidia, sia l’isola che prima era chiamata Argiròfleps ( ̉Αργυρόφλεψ) e adesso Sardinia (Σαρδώ)».
Non metterebbe conto fare osservare che il greco ̉ίχνος ‘orma, traccia’, originariamente ‘segno, figura’, corrisponde all’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’, ‘posizionamento’ del piede. Il termine è quindi mediterraneo, non solo greco. Comunque sia, il greco ̉Ιχνοũσα, in quanto ‘Sardegna’, non ha la base in ̉ίχνος (mi spiace deludere quanti ci hanno creduto): è invece una paretimologia. Ciò non toglie che il coronimo, impostosi con la nota semantica e per le ragioni suddette, sia stato creduto il prototipo che racchiude e dimostra tutta la verità. Una verità indiscutibile, a cominciare dall’assurdità che i Greci (o chi, se non loro?) avessero misurato accuratamente la forma dell’isola già qualche millennio prima dell’Era volgare, ossia da quando il coronimo esisteva per suo conto, e quando essi, in quanto popolo, stavano ancora in mente Dei. Per contro, dobbiamo concederci, una volta tanto, la licenza di osservare la questione dal punto dei vista dei Sardi proto-nuragici e dei Sardi nuragici, ai quali possiamo accordare che abbiano abitato l’isola di ̉Ιχνοũσα quando ancora il popolo greco non esisteva, in un’epoca in cui, oltre ad erigere i superbi nuraghi, gli artisti sapevano scolpire le statue di Monti Prama. Ebbene, chiediamocelo: i Sardi o Sardiani (o Shardana: nome caparbiamente rifiutato da chi non vuole comprendere) dovettero veramente aspettare la nascita del genio greco per chiamare ̉Ιχνοũσα la propria isola? O dovettero prima attendere le visite dei Fenici?
̉Ιχνοũσα è proprio una paretimologia. Basterebbe questo a dimostrarlo: quando il coronimo sortì, mancavano quattro secoli al talento matematico di Claudio Tolomeo (circa 150 post e.v.), il primo geografo ad aver descritto l’Europa e la Sardegna con procedimenti ed approssimazioni che saranno resi migliori soltanto dai geografi dell’Età moderna. I geografi greci (e latini) precedenti Tolomeo descrissero l’isola col sistema dei peripli e con misure assai discordanti tra geografo e geografo, comunque imprecise, ingestibili. Nessuno di loro riuscì mai a dimostrare nei fatti ciò che il toponimo ̉Ιχνοũσα pretendeva descrivere: l’impronta d’un piede umano, o di un sandalo (Sandaliotis).
̉Ιχνοũσα, ̉Ιχνοũσσα è una perfetta paretimologia, ed ha la base antichissima nell’akk. iqnû‘lapislazzuli, turchese’, ‘smalto blu’ + - ‘the X-man’, in composto iqnû- > Iqnusa, che significa ‘l’uomo del Grande Verde’ e parimenti ‘quella (l’isola) del Grande Verde’.
Inutile nascondere l’evidenza: la Sardegna 3000-6000 anni or sono era nota come l’isola dei miracoli per la sua straordinaria feracità, per l’incredibile boscosità, per le numerosissime saline, per essere totalmente circondata da banchi di corallo rosso, per produrre enormi quantità di murici destinati alla porpora, principalmente era nota per le sue miniere. Non è un caso che sia stata chiamata pure ̉Αργυρόφλεψ, che in greco significò ‘dalle vene d’argento’.
La fama di “isola dei miracoli” spaziava specialmente nel bacino semitico, e non fu un caso che poi i Fenici si tennero stretta l’isola. Furono proprio questi, assieme agli Ebrei coi quali navigavano in stretto comparaggio, a dare all’isola un nome più appropriato alla visione del proprio mondo e della propria religione. La chiamarono Kadoššène, (Kadoš-Šēne = ebraico-fenicio ‘Madre Santa’). Precisamente kadoš ebr., qdš fenicio = ‘santo, sacro’; šn’ fenicio ‘maestro’ ma anche un certo tipo di ufficio (sacro). Nel fenicio šn’ sembrerebbe di poter cogliere quella che per gli Ebrei fu la Terra Santa, la Terra Promessa.
Questo termine in Sardegna rimase in uso fino a tutto il ‘700, ossia sino a tre secoli fa, con la pronuncia Cadossène, ed ancora oggi è ricordato, ed usato pure nelle insegne dei negozi (Nuoro).
Con ciò constatiamo che il coronimo indicante la Sardegna ha tre fonti: una sembra venire dal mondo greco, l’altra proviene senz’altro dai Fenici-Ebrei; la terza proviene senz’altro dai pre-Lidi, i quali con tale nome gentile vollero fare omaggio a Sardò, moglie di Tirreno. A ben vedere,Sardinia o Sardò è l’unico coronimo ad essere datato, poiché da Erodoto, I, 94, sappiamo quando i Lidi (pre-Lidi) mossero, guidati da Tirreno, verso il Mediterraneo occidentale.
Dicevo che una delle tre fonti “sembra venire dal mondo greco”. Sembra, ma non è. Ai Greci, mirabili contraffattori di nomi e toponimi altrui, fu facile credere che Ιχνοũσα, Σανδαλιοτίς significasse ‘quella dell’orma’, ‘quella del sandalo’, e rafforzarono tale illusione per il fatto che i naviganti fenici dicevano Kadoššène. Essi sapevano che in semitico -šēn significava pure ‘sandalo’ (così è l’akk. šēnu ‘sandalo’), e sapevano che l’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’, ‘posizionamento’ del piede, rafforzava la propria intuizione; onde gli fu facile intendere l’akk. iqnû- > Iqnusa come ‘orma del piede’, anziché nel suo vero significato di iqnû ‘lapislazzuli, turchese’, ‘smalto blu’ + - ‘the X-man’, ša ‘colei che’, in composto iqnû-iqnû-ša > Iqnusa, ossia ‘quella (l’isola) del Grande Verde’.


http://shardana51.altervista.org/Shardana.htm

Così andò la questione nei bacini marinari frequentati dai Greci, e, gravida di tale equivoco, l’autorità dei Greci ebbe presa pure nel mondo romano.
Resta da chiarire perché l’akk. Iqnuša significa ‘Isola del Grande Verde’ (o ‘Quella del Turchese, del Lapislazzuli’). Semplicemente perché in epoca arcaica, quando tutto lo scibile delle antiche civiltà aveva un senso, la Sardegna era nota in tale modo. Isola del Grande Verde era un coronimo antonomastico, poiché l’isola era incastonata al centro del Mediterraneo (chiamato ilGrande Verde), lontana da ogni costa, distante ma attrattiva per tutte le sue ricchezze.
Il Grande Verde: così lo chiamavano pure gli Egizi. E quando descrissero i Popoli del Mare, affermarono sempre che provenivano dal Grande Verde, da loro detto Uatch-ur, ‘the Great Green water’, ossia il Mare Mediterraneo. A saperlo interpretare foneticamente, l’egizio Uatch-ur è la base etimologica da cui deriva pure il ted. Wasser e l’anglosassone water. Parola mediterranea e pan-europea, questa, che però non replicava, se non nella semantica, il modo in cui gli Accadi, gli Assiri e i Babilonesi chiamarono per proprio conto il Mediterrraneo: Iqnû- ‘quello (il mare) del Lapislazzuli’.
Per il resto, gli Egizi seppero distinguere bene quando indicarono le varie parti del Mediterraneo. Quindi scrissero pure Uatch ura āa Meḥu, the ‘Very Great Green Water of the North Land’ i.e., the Mediterranean Sea; ma scrissero Uatch ur ḥau nebtiu ‘the Ionian Sea’, con una evidente distinzione.
Dopo questa ampia disamina della questione, ora sappiamo la vera origine di Ichnùsa. Ed abbiamo guadagnato finalmente pure una seconda certezza: che i celebri Shardana, gli invasori del Delta, uno dei Popoli del Grande Verde, non potevano che avere la propria base in Sardegna, a dispetto degli stuoli di archeologi che ancora lo negano a vantaggio della Sardi anatolica.

fonte : http://www.linguasarda.com/home.php

giovedì 19 luglio 2012

La Sardegna Antica

da 
Quotidiano di storia e archeologia
DIRETTO DA PIERLUIGI MONTALBANO

HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM

Dalle origini al nuragico

 Mesolitico
 Le uniche tracce mesolitiche (10.000-6.000 a.C.) finora rinvenute in Sardegna risultano essere quelle della Grotta Corbeddu di Oliena, nella costa baroniese. Gli scavi hanno messo in luce resti di cervidi e di Prolagus sardus (roditore estinto), in vari casi recanti tracce di fuoco, fatto che ne rivela la cottura e il consumo alimentare da parte dell’uomo. Neolitico Il Neolitico, o età della pietra levigata, ha inizio in Sardegna intorno al 6.000 a.C. Fu questo un periodo di grandi innovazioni, determinate dal miglioramento del clima, dall’introduzione dell’agricoltura e dell’addomesticamento degli animali, dall’invenzione della ceramica. Soprattutto l’agricoltura contribuì al cambiamento dello stile di vita delle popolazioni le quali, da nomadi, diventarono col tempo sedentarie. Le genti erano sparse nell’isola, organizzate in piccole comunità che, per comodità di definizione, oggi accomuniamo in “culture” con aspetti omogenei (tipologie ceramiche, abitative e funerarie). Una caratteristica del neolitico sardo fu inoltre il commercio nel Mediterraneo di importanti risorse, come l’ossidiana, la selce e, nel periodo più recente, anche il rame.

 Neolitico antico
 Il neolitico antico (6000 - 4000 a.C.) si divide in due fasi, Su Garroppu (Carbonia) e Filiestru (Mara), dai nomi delle grotte dove sono stati effettuati i rinvenimenti più importanti. Gli elementi caratteristici sono gli abitati in grotta o ripari naturali e la ceramica impressa del tipo cardiale. L’ossidiana della miniera del Monte Arci, nell’Oristanese, svolgeva in quest’epoca la fondamentale funzione di vettore per gli scambi commerciali e culturali nel Mediterraneo. Le varietà sarde del prezioso vetro vulcanico, infatti, sono state ritrovate in Corsica, Italia centrale e Francia meridionale. 

 Neolitico medio
 Il neolitico medio (4000 - 3400 a.C.) è caratterizzato dalla cultura di Bonuighinu, dall’omonima grotta in territorio di Mara, nel Sassarese (la grotta è anche chiamata Sa Ucca de Su Tintirriolu), che per la prima volta ne restituì le testimonianze. Queste genti vivevano organizzate in comunità agricole, abitavano prevalentemente in grotta, ma anche in primitivi villaggi all’aperto. Seppellivano i morti in grotte naturali ed in fosse scavate nel terreno; il corredo funebre era costituito da ceramiche e da statuine della dea-madre dalle abbondanti forme. Gli uomini del neolitico medio si nutrivano di molluschi terrestri e marini, come il cardium, e adoperavano utensili litici e ossei. Interessati da un processo di incremento demografico, sperimentarono vari tipi di colture, come l’orzo, la lenticchia e il grano, e allevarono buoi, pecore e capre. La produzione ceramica, dal colore nero o bruno lucidissimo, è inornanta o con eleganti decorazioni impresse o incise (puntinato) a festoni, triangoli isolati o composti “a dama”. 

 Neolitico recente 
È caratteristica del neolitico recente (3400 - 3200 a.C.) la facies San Ciriaco- Cuccuru Is Arrius. Si tratta di una evoluzione della cultura di Bunuighinu e prende nome da due località, rispettivamente in territorio di Terralba e Cabras, nell’Oristanese. Compare in una ventina di siti ed è caratterizzata da ceramica non decorata; tipica la coppa a colletto con prese a rocchetto. È questo un periodo di grandi innovazioni e di contatti con il Mediterraneo orientale e la penisola italiana. Compaiono le prime tombe a grotticella artificiale o domus de janas (Cuccuru Is Arrius) ed a circolo megalitico (Li muri-Arzachena), queste ultime segnalate da piccoli menhir. La religiosità si manifesta nelle statuette di dea-madre in stile geometrico-volumetrico, che esaltano un ideale di bellezza fertile e abbondante e che danno il segno del preminente ruolo della donna nella società neolitica (Cuccuru Is Arrius, Decimoputzu). 


 Neolitico finale 
Nella grotta di San Michele, presso l’attuale abitato di Ozieri, nella regione del Monte Acuto, vennero per la prima volta alla luce i materiali della cultura che principalmente documenta il neolitico finale in Sardegna (3200 - 2800 a.C.). Tale cultura, detta per questo di San Michele (o di Ozieri), è forse il risultato di un influenza etnica orientale, cretese o cicladica, sul sostrato indigeno. La società è articolata, tende al miglioramento delle tecniche agricole, commercia le ricchezze minerarie, quali l’ossidiana, la selce e, per la prima volta, il rame. Si vive in villaggi di capanne fatte di frasche e si seppellisce nelle domus de janas, nei dolmen, nelle allées couvertes e nei circoli megalitici; spesso sono presenti i menhir ( perdas fittas, nella lingua sarda). La ceramica, che insieme a quella dei tessuti, stuoie, vesti e cestelli, è una produzione prettamente femminile, presenta nuove forme (tazze carenate, pissidi, tripodi con piedi a punta) e decorazioni a incisione, impressione o incrostazione, con motivi a spirale, festoni, cerchi, figure stellari e umane. La complessità culturale e spirituale della fase Ozieri è rappresentata anche dalla produzione artistica: gli idoli antropomorfi raffiguranti la Grande Dea Madre mediterranea si evolvono verso la stilizzazione della figura umana, che si assottiglia secondo uno schema a placca cruciforme. 

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 Eneolitico o Calcolitico 
Il passaggio dal neolitico all’eneolitico o calcolitico (2800-1800 a.C.) avviene in maniera lenta e graduale, ed è fondamentalmente caratterizzato dalla tendenza all’abbandono dell’ossidiana in favore della produzione metallurgica. La lavorazione ed il commercio del metallo si associano alla pastorizia e all’agricoltura, dando luogo ad un processo di trasformazione economica e sociale che porterà alle più evolute culture del bronzo. Il processo ha in effetti inizio nelle fasi finali del neolitico, ma è l’eneolitico a dargli un impulso determinante, poiché segna l’incremento dell’importanza della Sardegna nella rete di scambi tra le genti del Mediterraneo occidentale (Spagna, Francia meridionale) e centro-europee; si indeboliscono invece le influenze orientali che erano state tipiche del neolitico (Cicladi, Creta, Malta, Grecia). Le culture dell’eneolitico sardo sono probabilmente l’espressione di piccoli gruppi che, giunti nell’isola proprio dall’Europa, occuparono le sedi scelte precedentemente dagli uomini San Michele. La società, che va diventando guerriera e a dominio maschile, non limita dunque più la propria economia alla semplice sussistenza, ma inizia a fruire di veri e propri beni di consumo: lavora le materie prime, di cui l’isola è ricca (rame, argento, arsenico, piombo), realizza il prodotto finito, guadagna dal commercio e accumula eccedenze. 

 Cultura Sub-Ozieri, Filigosa
 Le facies Sub-Ozieri/Su Coddu di Selargius e Filigosa sono rappresentative dell’eneolitico iniziale sardo (2800-2600 a.C.) e si pongono sulla linea evolutiva della cultura tardo-neolitica di Ozieri. La prima facies è stata individuata in vari siti del Campidano (il principale in località Su Coddu, Selargius), con resti di abitazioni e ceramiche di tradizione Ozieri e di influenza mediterraneo-orientale. La seconda facies prende nome dalla necropoli di Filigosa (Macomer), caratterizzata da domus de janas precedute da un lungo corridoio scoperto. Di eccezionale interesse il monumentale tempio-altare di Monte D’Accoddi (Porto Torres), con rampa inclinata d’accesso, piattaforma tronco-piramidale e sacello sovrastante, la cui forma richiama le ziqqurat mesopotamiche (fasi Sub-Ozieri, Abealzu).

 Cultura Abealzu 
La cultura di Abealzu, dall’omonima necropoli in territorio di Osilo, caratterizza l’eneolitico medio sardo (2600-2400 a.C.). E’ da attribuire a queste genti la produzione delle prime leghe e dei primi pugnali di rame (tomba di Serra Cannigas, Nuraminis-Villagreca). Le espressioni materiali della cultura Abealzu, tra questi i tipici vasi a fiasco con bozze mammellari, richiamano contesti dell’Italia tirrenica centro-meridionale e padana, dell’area franco-elvetica, della Corsica, dell’area siculo-eoliana e della Grecia. Sono di quest’epoca anche le più antiche forme di statuaria dell’isola. L’area del Sarcidano-Mandrolisai ha infatti restituito numerosi esemplari di menhir protoantropomorfi e antropomorfi e di statue menhir maschili e femminili, le cui tipologie trovano riscontri nell’area alpina, Trentino e Lunigiana. Notevoli le statue-menhir “armate”, recanti scolpito il pugnale, simbolo del potere, ed il “capovolto”, simbolo del defunto, probabilmente interpretabili come simulacri di eroi divinizzati. 

 Cultura Monte Claro
 L’eneolitico recente (2400-2100 a.C.) vede affermarsi nell’isola la cultura di Monte Claro, dal colle cagliaritano che ne restituì per la prima volta, in un ipogeo funerario a pozzetto, la caratteristica ceramica. In questa fase, l’incremento demografico, l’estendersi delle superfici coltivate ed il perfezionamento delle tecniche agricole, spingono la popolazione a ricercare una più elevata qualità di vita. Pur utilizzando ancora l’abitazione in grotta di tradizione neolitica, le comunità Monte Claro si insediano preferibilmente nei villaggi, organizzandovi gli spazi abitativi e le pertinenze agricole (San Gemiliano di Sestu, Monte Olladiri di Monastir). Sorgono i primi edifici megalitici (Villagreca, Olmedo, Oliena, Castelsardo). Vengono utilizzati vari rituali di seppellimento: in grotta, più spesso negli ipogei a corridoio megalitico o a pozzetto con più vani (Monte Claro, Sa Duchessa, Cagliari), o in ciste litiche (San Gemiliano, Sestu) e dolmen (Motorra, Dorgali). La ceramica è caratterizzata da forme a situla e decorazioni a solcature e costolature parallele. Lo spirito guerriero delle popolazioni si manifesta nella metallurgia, soprattutto nei tipici pugnali di rame a lama lanceolata, frutto forse di tecniche di fusione e di colata provenienti dall’esterno od opera di stranieri giunti nell’isola. 

Cultura del Vaso Campaniforme 
Sul finire dell’eneolitico (2100-1800 a.C.), l’isola viene interessata da una corrente culturale che dalla penisola iberica si diffonde nel territorio europeo ed oltre. La contraddistinguono alcuni tipici oggetti: innanzitutto il beaker a campana rovesciata con decorazioni ad incisione e punteggiato (vaso campanifome), ma anche scodelloni similmente decorati, bottoni in osso con perforazioni a “v”, pendenti a crescente lunare, punte di freccia in selce ad alette squadrate, brassard e un particolare tipo di pugnale. Delle genti portatrici di tali produzioni materiali s’ignorano l’origine razziale, le modalità insediative, l’organizzazione socio-economica e l’ideologia: sembra peraltro accreditabile l’ipotesi di un loro arrivo nell’isola a piccoli gruppi e a diverse ondate, con tendenza all’integrazione con le popolazioni indigene. I materiali sardi provengono da domus de janas riutilizzate, tombe a cista, fosse terragne, dolmen e grotte. Molto prezioso è un corredo di oggetti d’ornamento proveniente dalla sepoltura di Padru Jossu (Sanluri).

 Fonte: www.apolidesardus.altervista.org



martedì 10 luglio 2012

La principessa Tsìppiri

Albertina Piras              
Mauro Atzei
Pierluigi Montalbano
TSI’PPIRI 
Una storia d’altri tempi, raccontata in questi tempi

dal blog 

http://sardegnaomnia.altervista.org/shardana-i-veri-padroni-del-mediterraneo/





(scritto da Pierluigi Montalbano)




Sono lieto di annunciare a tutti gli amici del quotidiano on line, che oggi, 10 Luglio 2012, è stato pubblicato Tsìppiri, un romanzo storico ambientato nel 540 a.C.
Il libro in formato pdf è scaricabile gratuitamente al link  http://www.tsippiri.sardu.eu/download/tsippiri.pdf


E' un lavoro che ha coinvolto un gruppo di 3 "amici" che non si conoscono personalmente, due disegnatori che hanno contribuito a "visualizzare" parte della storia, e un tecnico che ha provveduto a inserire in rete tutto il materiale. 

Abbiamo deciso di offrire, sempre gratuitamente, una serie di pagine di presentazione relative al libro al link: www.tsippiri.sardu.eu .

http://pierluigimontalbano.blogspot.it/








mercoledì 13 giugno 2012

Eutanasia in Sardegna - Accabadoras, le sacerdotesse della morte.

Accabadoras, le sacerdotesse della morte

di Claudia Zedda


(articolo letto su http://pierluigimontalbano.blogspot.it/)

http://www.myspace.com/accabbadora/photos/20442346

C’era un tempo in cui la gente di uno stesso paese si conosceva per soprannome, un tempo nel quale la morte non era fatto di stato, un tempo in cui le strade al crepuscolo, poteva succedere venissero attraversate da piccole donnicciole che è d’obbligo immaginare vestite di nero. Non foss’altro per il loro tentativo di passare inosservate. C’era un tempo chi le chiamava sacerdotesse della morte e chi le chiamava donne esperte. Avete compreso delle nonnette alle quali mi riferisco? C’era chi le chiamava più sbrigativamente Accabadoras. Il termine è pregno di una sonorità tutta spagnola, e mai nessun altro sarà tanto evocativo. Degradazione di acabar, queste donne che l’immaginario racconta d’età avanzata, “accabavano” appunto, ponevano la parola fine alla vita degli agonizzanti, che stentavano nell’abbandonarla. Ci si è interrogati ampiamente sulla veridicità della figura, ci si è spesso chiesti se non si tratti di un residuo tradizionale, che in effetti non faccia capo ad alcuna realtà. Quesiti questi che altri prima di noi si posero. Alberto Della Marmora nel 1826 era quasi sicuro che queste donnette fossero esistite per davvero, e per quanto sottovoce, avessero operato. Ne sarà certo almeno fino al 1839, quando con la seconda edizione del suo Voyage en Sardaigne, cercherà di smorzare i toni. In meno di dieci anni era nata una polemica infuocata, e di offese malcelate ne erano volate un bel po’. Protagonisti l’eccellente ricercatore e abate Vittorio Angius, osservatore oggettivo della realtà che nuda gli si proponeva e Giuseppe Pasella che sfruttando L’indicatore Sardo, di cui era direttore, lo accusò di screditare Sardegna e sardi. Quasi che lo si potesse fare con le parole, piuttosto che non con i gesti. Un vespaio insomma, per niente dissimile da quelli moderni che non si esaurì troppo rapidamente. Il risultato fu duplice. Creare confusione nell’opinione pubblica e silenzio fra i sardi, che meglio d’altri popoli sapevano chiudersi a riccio e tacere. 


http://pierluigimontalbano.blogspot.it/
La confusione ha trovato un attimo di tregua quando Della Maria nel Bollettino Bibliografico Sardo ha riportato ciò che Monsignor Raimondo Calvisi gli aveva riferito qualche tempo addietro. Uno scoop davvero. Calvisi aveva avuto modo nel 1906, in Bitti, di assistere alla conversazione intervenuta fra la madre di un bimbo morente, e una donna anziana. Gli parve chiaro che la vecchia fosse un’accabadora, dato che la madre rifiutando il suo aiuto, le disse che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da solo. Da questo momento le attestazioni della presenza reale de s’accabadora aumentano notevolmente. Padre Vassallo e il gesuita Licheri, non solamente crederanno nell’esistenza di questa enigmatica figura, ma se ne faranno accaniti oppositori, definendo la morte aiutata dalla mano de s’accabadora, niente po po di meno che peccato mortale. Oggi le attestazioni in merito alla figura abbondano. “Eutanasia ante litteram in Sardegna” - Sa femmina accabadora, di Alessandro Bucarelli, medico legale all’Università di Sassari e Carlo Lubrano, medico anch’esso, o il più noto “Ho visto agire s’accabadora” di Dolores Turchi, non lasciano più adito a dubbi. E che questa abbia fatto parte della storia sarda, non è cosa che debba infondo sorprendere più di tanto. Non solo una figura simile è stata condivisa da quasi tutte le realtà agro pastorali tradizionali, ma soprattutto il suo scopo sociale doveva essere sentito importante. Diversamente l’inquisizione l’avrebbe scovata, e bruciata al rogo, imputandole certo qualche vizioso legame con su tentadori. La tradizione vuole che la donna agisse solo in casi del tutto eccezionali. Soprattutto quando il moribondo, sofferente e stremato comunque non riuscisse ad abbandonare la vita. I motivi potevano essere differenti. Si poteva immaginare che l’anima non abbandonasse il corpo perché ostinatamente protetta dagli amuleti che ogni sardo che si rispettasse, indossava. Questo era infondo lo scopo delle pungas, quello di impedire alla morte d’accostarsi. Nel caso peggiore si poteva pensare che in gioventù chi stentava ora a morire, avesse commesso uno di quei crimini che non conoscono perdono, e che si sapeva, avrebbero alla fine causato una grossa agonia. Poteva aver spostato una pietra di confine, o peggio ancora bruciato un giogo. Si trattava di elementi sacri, l’uno connesso alla intoccabile proprietà privata, l’altro al mito del quale si perse significato ma non ricordo.
http://www.gentedisardegna.it/topic.asp?TOPIC_ID=9928

Per i più curiosi diremo come si racconta agisse s’accabadora. Se ricevuta l’estrema unzione il moribondo non moriva, si dice che una “donna esperta” venisse mandata a chiamare. Con estrema probabilità 


proveniva da un altro paese, non troppo distante da quello del nostro sfortunato agonizzante. E’ probabile che i tentativi di accompagnarlo nell’ultimo viaggio, inizialmente fossero del tutto rituali. L’accabadora l’avrebbe privato degli amuleti, avrebbe tolto dalla stanza tutte le icone sacre, (intesi come amuleti anch’essi), avrebbe posto accanto al capezzale un giogo, o magari un pettine. Gli oggetti potevano essere vari. Se tutte queste attenzioni non avevano successo, le si richiedeva l’uso di maniere un poco più fisiche, l’uso de sa mazzucca. Vittorio Angius ci racconta si trattasse di un corto mazzero che veniva battuto o contro il petto o contro il capo. Poco davvero si sa della pratica, dato che la donna veniva lasciata sola con il moribondo.
Questa non risulta domandasse in cambio alcun compenso, e sembra più probabile svolgesse la sua funzione sociale.
La vita era infondo intesa in maniera più concreta. Era fatta di nascita, di crescita e di morte. E di quest’ultima si parlava, si sapeva che sarebbe venuta. Per affrontarla baldamente la realtà sarda la ritualizzò istituzionalizzandola, tanto che si arrivò a poterla prevedere, affrontare, e superare. La famiglia che ne veniva colpita per un determinato periodo di tempo si allontanava dalla società, ma da questa veniva aiutata, attraverso quegli strumenti di mutuo soccorso che oggi sono stati completamente dimenticati.
Della morte oggi non si parla, sembra quasi faccia un po’ più paura che ieri, e la nostra società ha elaborato un nuovo modo per istituzionalizzarla. La ignora. Sempre che, è chiaro, non si trasformi in business politico. La parte conclusiva della vita di ciascuno è divenuta un tabù, e quando sopraggiunge sorprende e spaventa. Tanto più che non esistono ormai quei circuiti sociali di sostegno, che decenni addietro aiutavano la famiglia dell’individuo che veniva a mancare.
Ossessione silenziosa per la morte che spaventa che va a braccetto con la nuova ossessiva curiosità che circonda la figura de s’accabadora. E per ironia della sorte, quella figura che amava passare inosservata è oggi protagonista di un’accesa polemica, che infondo non è dissimile dalle precedenti. I protagonisti pure sono gli stessi, solo il cambiato nome, ma chi la storia la conosce, non si fa
ingannare. Gli ecclesiastici di allora sono i politici di oggi, ma il ritornello non è cambiato: morire per mano de s’accabadora è un peccato mortale. E chi si dovrebbe far portavoce del principio democratico, s’insinua come serpe nella sfera d’azione privata, cancellando il diritto fondamentale: quello di scelta. Quello che la tradizione, mossa dal buon senso concedeva senza dubbio alcuno. Quello che nel 1906 faceva dire ad una madre che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da se, o con l’aiuto de s’accabadora. Il diritto naturale alla libertà di scelta.




fonte originaria : http://www.claudiazedda.it/
riproposto da http://www.contusu.it/
                       HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM


http://ciresell.blog.tiscali.it/2011/10/26/s-accabbadora-la-sacerdotessa-di-morte/




lunedì 11 giugno 2012

sardegna nord cetacei 2012


Sardegna Nord Cetacei al capolinea
Incoraggianti i dati raccolti dal progetto






SASSARI. La varietà di cetacei che vivono nel Mediterraneo è presente in tutto il nord della Sardegna, lo stato di salute delle differenti specie continua a essere buono nonostante la pesca e il traffico nautico. Sono incoraggianti i dati raccolti dai ricercatori dell'Università di Sassari che, tra il 27 maggio e il 4 giugno scorsi, hanno condotto una spedizione scientifica a bordo di una barca a vela per studiare la presenza e il comportamento di delfini, balenotteri e tursiopi nelle acque comprese tra i porti di Olbia e Bosa.


I risultati della missione,  che è parte integrante della campagna di ricerca e monitoraggio "Sardegna Nord Cetacei", sono stati illustrati alla stampa questa mattina alla presenza del Rettore Attilio Mastino, del Direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria Salvatore Naitana e di tutti i membri dell’equipaggio di "Nonna Clò", composto da veterinari, biologi e naturalisti dell'Ateneo turritano. In un percorso che ha alternato rotte costiere a transetti pelagici per un totale di 486 miglia (400 di monitoraggio e 85 di navigazione), i ricercatori, affiancati dal team di comunicazione, hanno registrato ben 26 avvistamenti per un totale di 216 esemplari: 59 tursiopi, 105 stenelle, 1 balenottera, 1 zifio e ben 50 Delphinus delphis. In particolare l'avvistamento di unico e cospicuo gruppo di esemplari di questa specie molto rara, tanto da essere ritenuta estinta nel Tirreno fino al precedente avvistamento nel 2011, ha suscitato molto entusiasmo nell'equipaggio. Durante le 140 ore di monitoraggio sono stati raccolti, inoltre, dati sulla presenza del traffico nautico, con particolare attenzione alle imbarcazioni da pesca, e sulla fauna marina associata, con numerosi avvistamenti di uccelli marini, tra i quali principalmente berte minori, berte maggiori e gabbiano corso. Significativo è stato inoltre l’avvistamento di 4 esemplari di Caretta caretta, 3 dei quali in evidente difficoltà natatoria. L’avvicinamento di uno degli esemplari ha inoltre consentito il campionamento ai fini degli esami parassitologici che verranno realizzati nei prossimi giorni presso i laboratori del Dipartimento di Medicina Veterinaria. Tutto il progetto è stato documentato con riprese video e con un aggiornamento costante di un diario di bordo pubblicato in tempo reale sul blog http://sardegnanordcetacei.blogspot.it/ (8.000 contatti in 50 giorni) che continuerà a vivere anche nei prossimi mesi con la pubblicazione di immagini, grafici e dati su quanto è stato possibile rilevare e su quanto verrà da oggi rielaborato. 
Sardegna Nord Cetacei è un progetto di monitoraggio dei cetacei nell’area, costiera e pelagica, compresa tra i golfi di Olbia, Bosa e Bonifacio. Finanziato dalla Fondazione Banco di Sardegna, il progetto è realizzato dal Dipartimento di Medicina Veterinaria in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell'Università di Sassari, l’Istituto di Oceanografia Spagnolo di Murcia, le associazioni 41 nord e JoinUs e la Lega Navale di Alghero sotto il patrocinio della provincia di Sassari, dei comuni di Sassari, Stintino, Castelsardo, Santa Teresa di Gallura, La Maddalena, del parco nazionale di La Maddalena e della Riserva Naturale delle Bocche di Bonifacio. 

articolo preso da http://www.sassarinotizie.com/articolo-11291-sardegna_nord_cetacei_al_capolinea_incoraggianti_i_dati_raccolti_dal_progetto.aspx