mercoledì 20 giugno 2012

domus de janas, crucifissu mannu porto torres



video da http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=JPxQ-zq_3yQ#!

mercoledì 13 giugno 2012

Eutanasia in Sardegna - Accabadoras, le sacerdotesse della morte.

Accabadoras, le sacerdotesse della morte

di Claudia Zedda


(articolo letto su http://pierluigimontalbano.blogspot.it/)

http://www.myspace.com/accabbadora/photos/20442346

C’era un tempo in cui la gente di uno stesso paese si conosceva per soprannome, un tempo nel quale la morte non era fatto di stato, un tempo in cui le strade al crepuscolo, poteva succedere venissero attraversate da piccole donnicciole che è d’obbligo immaginare vestite di nero. Non foss’altro per il loro tentativo di passare inosservate. C’era un tempo chi le chiamava sacerdotesse della morte e chi le chiamava donne esperte. Avete compreso delle nonnette alle quali mi riferisco? C’era chi le chiamava più sbrigativamente Accabadoras. Il termine è pregno di una sonorità tutta spagnola, e mai nessun altro sarà tanto evocativo. Degradazione di acabar, queste donne che l’immaginario racconta d’età avanzata, “accabavano” appunto, ponevano la parola fine alla vita degli agonizzanti, che stentavano nell’abbandonarla. Ci si è interrogati ampiamente sulla veridicità della figura, ci si è spesso chiesti se non si tratti di un residuo tradizionale, che in effetti non faccia capo ad alcuna realtà. Quesiti questi che altri prima di noi si posero. Alberto Della Marmora nel 1826 era quasi sicuro che queste donnette fossero esistite per davvero, e per quanto sottovoce, avessero operato. Ne sarà certo almeno fino al 1839, quando con la seconda edizione del suo Voyage en Sardaigne, cercherà di smorzare i toni. In meno di dieci anni era nata una polemica infuocata, e di offese malcelate ne erano volate un bel po’. Protagonisti l’eccellente ricercatore e abate Vittorio Angius, osservatore oggettivo della realtà che nuda gli si proponeva e Giuseppe Pasella che sfruttando L’indicatore Sardo, di cui era direttore, lo accusò di screditare Sardegna e sardi. Quasi che lo si potesse fare con le parole, piuttosto che non con i gesti. Un vespaio insomma, per niente dissimile da quelli moderni che non si esaurì troppo rapidamente. Il risultato fu duplice. Creare confusione nell’opinione pubblica e silenzio fra i sardi, che meglio d’altri popoli sapevano chiudersi a riccio e tacere. 


http://pierluigimontalbano.blogspot.it/
La confusione ha trovato un attimo di tregua quando Della Maria nel Bollettino Bibliografico Sardo ha riportato ciò che Monsignor Raimondo Calvisi gli aveva riferito qualche tempo addietro. Uno scoop davvero. Calvisi aveva avuto modo nel 1906, in Bitti, di assistere alla conversazione intervenuta fra la madre di un bimbo morente, e una donna anziana. Gli parve chiaro che la vecchia fosse un’accabadora, dato che la madre rifiutando il suo aiuto, le disse che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da solo. Da questo momento le attestazioni della presenza reale de s’accabadora aumentano notevolmente. Padre Vassallo e il gesuita Licheri, non solamente crederanno nell’esistenza di questa enigmatica figura, ma se ne faranno accaniti oppositori, definendo la morte aiutata dalla mano de s’accabadora, niente po po di meno che peccato mortale. Oggi le attestazioni in merito alla figura abbondano. “Eutanasia ante litteram in Sardegna” - Sa femmina accabadora, di Alessandro Bucarelli, medico legale all’Università di Sassari e Carlo Lubrano, medico anch’esso, o il più noto “Ho visto agire s’accabadora” di Dolores Turchi, non lasciano più adito a dubbi. E che questa abbia fatto parte della storia sarda, non è cosa che debba infondo sorprendere più di tanto. Non solo una figura simile è stata condivisa da quasi tutte le realtà agro pastorali tradizionali, ma soprattutto il suo scopo sociale doveva essere sentito importante. Diversamente l’inquisizione l’avrebbe scovata, e bruciata al rogo, imputandole certo qualche vizioso legame con su tentadori. La tradizione vuole che la donna agisse solo in casi del tutto eccezionali. Soprattutto quando il moribondo, sofferente e stremato comunque non riuscisse ad abbandonare la vita. I motivi potevano essere differenti. Si poteva immaginare che l’anima non abbandonasse il corpo perché ostinatamente protetta dagli amuleti che ogni sardo che si rispettasse, indossava. Questo era infondo lo scopo delle pungas, quello di impedire alla morte d’accostarsi. Nel caso peggiore si poteva pensare che in gioventù chi stentava ora a morire, avesse commesso uno di quei crimini che non conoscono perdono, e che si sapeva, avrebbero alla fine causato una grossa agonia. Poteva aver spostato una pietra di confine, o peggio ancora bruciato un giogo. Si trattava di elementi sacri, l’uno connesso alla intoccabile proprietà privata, l’altro al mito del quale si perse significato ma non ricordo.
http://www.gentedisardegna.it/topic.asp?TOPIC_ID=9928

Per i più curiosi diremo come si racconta agisse s’accabadora. Se ricevuta l’estrema unzione il moribondo non moriva, si dice che una “donna esperta” venisse mandata a chiamare. Con estrema probabilità 


proveniva da un altro paese, non troppo distante da quello del nostro sfortunato agonizzante. E’ probabile che i tentativi di accompagnarlo nell’ultimo viaggio, inizialmente fossero del tutto rituali. L’accabadora l’avrebbe privato degli amuleti, avrebbe tolto dalla stanza tutte le icone sacre, (intesi come amuleti anch’essi), avrebbe posto accanto al capezzale un giogo, o magari un pettine. Gli oggetti potevano essere vari. Se tutte queste attenzioni non avevano successo, le si richiedeva l’uso di maniere un poco più fisiche, l’uso de sa mazzucca. Vittorio Angius ci racconta si trattasse di un corto mazzero che veniva battuto o contro il petto o contro il capo. Poco davvero si sa della pratica, dato che la donna veniva lasciata sola con il moribondo.
Questa non risulta domandasse in cambio alcun compenso, e sembra più probabile svolgesse la sua funzione sociale.
La vita era infondo intesa in maniera più concreta. Era fatta di nascita, di crescita e di morte. E di quest’ultima si parlava, si sapeva che sarebbe venuta. Per affrontarla baldamente la realtà sarda la ritualizzò istituzionalizzandola, tanto che si arrivò a poterla prevedere, affrontare, e superare. La famiglia che ne veniva colpita per un determinato periodo di tempo si allontanava dalla società, ma da questa veniva aiutata, attraverso quegli strumenti di mutuo soccorso che oggi sono stati completamente dimenticati.
Della morte oggi non si parla, sembra quasi faccia un po’ più paura che ieri, e la nostra società ha elaborato un nuovo modo per istituzionalizzarla. La ignora. Sempre che, è chiaro, non si trasformi in business politico. La parte conclusiva della vita di ciascuno è divenuta un tabù, e quando sopraggiunge sorprende e spaventa. Tanto più che non esistono ormai quei circuiti sociali di sostegno, che decenni addietro aiutavano la famiglia dell’individuo che veniva a mancare.
Ossessione silenziosa per la morte che spaventa che va a braccetto con la nuova ossessiva curiosità che circonda la figura de s’accabadora. E per ironia della sorte, quella figura che amava passare inosservata è oggi protagonista di un’accesa polemica, che infondo non è dissimile dalle precedenti. I protagonisti pure sono gli stessi, solo il cambiato nome, ma chi la storia la conosce, non si fa
ingannare. Gli ecclesiastici di allora sono i politici di oggi, ma il ritornello non è cambiato: morire per mano de s’accabadora è un peccato mortale. E chi si dovrebbe far portavoce del principio democratico, s’insinua come serpe nella sfera d’azione privata, cancellando il diritto fondamentale: quello di scelta. Quello che la tradizione, mossa dal buon senso concedeva senza dubbio alcuno. Quello che nel 1906 faceva dire ad una madre che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da se, o con l’aiuto de s’accabadora. Il diritto naturale alla libertà di scelta.




fonte originaria : http://www.claudiazedda.it/
riproposto da http://www.contusu.it/
                       HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM


http://ciresell.blog.tiscali.it/2011/10/26/s-accabbadora-la-sacerdotessa-di-morte/




lunedì 11 giugno 2012

sardegna nord cetacei 2012


Sardegna Nord Cetacei al capolinea
Incoraggianti i dati raccolti dal progetto






SASSARI. La varietà di cetacei che vivono nel Mediterraneo è presente in tutto il nord della Sardegna, lo stato di salute delle differenti specie continua a essere buono nonostante la pesca e il traffico nautico. Sono incoraggianti i dati raccolti dai ricercatori dell'Università di Sassari che, tra il 27 maggio e il 4 giugno scorsi, hanno condotto una spedizione scientifica a bordo di una barca a vela per studiare la presenza e il comportamento di delfini, balenotteri e tursiopi nelle acque comprese tra i porti di Olbia e Bosa.


I risultati della missione,  che è parte integrante della campagna di ricerca e monitoraggio "Sardegna Nord Cetacei", sono stati illustrati alla stampa questa mattina alla presenza del Rettore Attilio Mastino, del Direttore del Dipartimento di Medicina Veterinaria Salvatore Naitana e di tutti i membri dell’equipaggio di "Nonna Clò", composto da veterinari, biologi e naturalisti dell'Ateneo turritano. In un percorso che ha alternato rotte costiere a transetti pelagici per un totale di 486 miglia (400 di monitoraggio e 85 di navigazione), i ricercatori, affiancati dal team di comunicazione, hanno registrato ben 26 avvistamenti per un totale di 216 esemplari: 59 tursiopi, 105 stenelle, 1 balenottera, 1 zifio e ben 50 Delphinus delphis. In particolare l'avvistamento di unico e cospicuo gruppo di esemplari di questa specie molto rara, tanto da essere ritenuta estinta nel Tirreno fino al precedente avvistamento nel 2011, ha suscitato molto entusiasmo nell'equipaggio. Durante le 140 ore di monitoraggio sono stati raccolti, inoltre, dati sulla presenza del traffico nautico, con particolare attenzione alle imbarcazioni da pesca, e sulla fauna marina associata, con numerosi avvistamenti di uccelli marini, tra i quali principalmente berte minori, berte maggiori e gabbiano corso. Significativo è stato inoltre l’avvistamento di 4 esemplari di Caretta caretta, 3 dei quali in evidente difficoltà natatoria. L’avvicinamento di uno degli esemplari ha inoltre consentito il campionamento ai fini degli esami parassitologici che verranno realizzati nei prossimi giorni presso i laboratori del Dipartimento di Medicina Veterinaria. Tutto il progetto è stato documentato con riprese video e con un aggiornamento costante di un diario di bordo pubblicato in tempo reale sul blog http://sardegnanordcetacei.blogspot.it/ (8.000 contatti in 50 giorni) che continuerà a vivere anche nei prossimi mesi con la pubblicazione di immagini, grafici e dati su quanto è stato possibile rilevare e su quanto verrà da oggi rielaborato. 
Sardegna Nord Cetacei è un progetto di monitoraggio dei cetacei nell’area, costiera e pelagica, compresa tra i golfi di Olbia, Bosa e Bonifacio. Finanziato dalla Fondazione Banco di Sardegna, il progetto è realizzato dal Dipartimento di Medicina Veterinaria in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell'Università di Sassari, l’Istituto di Oceanografia Spagnolo di Murcia, le associazioni 41 nord e JoinUs e la Lega Navale di Alghero sotto il patrocinio della provincia di Sassari, dei comuni di Sassari, Stintino, Castelsardo, Santa Teresa di Gallura, La Maddalena, del parco nazionale di La Maddalena e della Riserva Naturale delle Bocche di Bonifacio. 

articolo preso da http://www.sassarinotizie.com/articolo-11291-sardegna_nord_cetacei_al_capolinea_incoraggianti_i_dati_raccolti_dal_progetto.aspx


sabato 9 giugno 2012

Antichi Popoli del Mediterraneo - Video della presentazione del libro

Antichi Popoli del Mediterraneo Relazione dell'autore,  Pierluigi Montalbano, a Sa Illetta, 19 Maggio 2012 








(playlist composta da 8 filmati)

Questo è l'abstract del libro:
Nei miti greci ed egizi troviamo la descrizione degli antichi padri che al termine dell’ultima glaciazione crearono la più evoluta civiltà del passato. I personaggi descritti sbarcarono da un luogo lontano, indistinto, collocato nel mare, in grandi isole poste oltre i confini del mondo conosciuto. Gli antichi papiri egizi li ricordano come Haou-Nebout, mentre per i greci si tratta dei leggendari Pelasgi, il popolo generato dalla terra allo scopo di creare la razza umana. Più tardi, nelle età dei metalli, queste genti assumono una fisionomia più concreta e lasciano tracce evidenti costruendo città con spettacolari palazzi. Per 1000 anni solcano il Mare Mediterraneo con le loro navi commerciali, sono conosciuti con il termine “Minoici”. L’esplosione del vulcano Santorini, avvenuta nel XVII a.C., causa la loro decadenza, e nuovi popoli si affacciano nel Mediterraneo e ripercorrono le stesse rotte commerciali: i “Micenei”. Nel 1274 a.C. a Qadesh e nel 1175 a.C. nel Delta del Nilo, si consumano le ultime speranze dei faraoni Ramessidi di mantenere il dominio armato nel Vicino Oriente. Nuove genti, abili nella navigazione e nel combattimento corpo a corpo, distruggono le città degli Ittiti, dei Mitanni e dei Cananei, e si insediano nelle province egizie determinando il crollo dei grandi imperi. Sono ricordati con un nome che, ancora oggi, rimane misterioso e suscita rispetto: “Coalizione dei Popoli del mare”. Questi guerrieri s’insediarono nel Vicino Oriente e fondarono città, riscuotendo tributi dal popolo e ripristinando le antiche rotte commerciali. Frequentarono le coste fondando approdi e globalizzando il mondo mediterraneo. Migliorarono le tecnologie dei locali, rifornirono di metalli i sovrani e dominarono per 400 anni il panorama politico. I testi li chiamano filistei, sardi, cretesi, ciprioti, tiri, gibliti, sidoni, siculi, tirreni. Nel libro “Antichi Popoli del Mediterraneo” sono chiamati “Levantini”.



da HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM

Sardegna - Manuale di archeologia per dilettanti - 5° dispensa

Dal Neolitico all’Età dei metalli

di Pierluigi Montalbano


Nel processo evolutivo delle comunità protosarde, le miniere hanno esercitato un ruolo decisivo. Nell'Iglesiente sono presenti le strutture geologiche più antiche dell'area mediterranea, per cui la Sardegna è considerata una delle regioni più interessanti d'Europa per ricchezza e varietà di minerali. Già dal Neolitico, le risorse minerarie dell’isola erano oggetto d’interesse da parte di diversi popoli che, dall’Anatolia e da altre regioni del Vicino Oriente, avviavano spedizioni commerciali nel vasto bacino mediterraneo, raggiungendo le estreme regioni occidentali e toccando anche la Sardegna, cuore delle rotte navali fra oriente e occidente. La prima grande risorsa geomineraria a essere sfruttata fu l’ossidiana, un composto di lava vitrea di colore nero intenso e notevole durezza, presente nei vasti giacimenti del Monte Arci, presso Oristano. Fu utilizzata per realizzare armi, utensili e altri oggetti.
Nell'intero bacino mediterraneo, erano presenti appena cinque giacimenti di questo prezioso materiale, tutti in isole: Melos (Egeo), Pantelleria, Lipari (Eolie), Palmarola (Ponziane) e Sardegna. Per millenni questa rara materia prima percorse tutto il Mediterraneo, raggiungendo i mercati più lontani dell'Africa settentrionale, dei Balcani, della penisola Italica, dell'Iberia e della Provenza. Con i moderni metodi di analisi fisico-chimici si scoprì che l'ossidiana sarda dal VI al III Millennio a.C. era esportata in Corsica, nell'isola d'Elba, nell'Italia del nord e nella Francia meridionale dove soppiantò l'ossidiana proveniente da Lipari. Gli intensi rapporti commerciali, e i movimenti di genti all'interno della Sardegna, avevano prodotto sull'isola, già nel neolitico, una vita culturale intensa. 
Alle origini, la ricerca dei metalli avveniva sulla base dei colori: azzurro per l’azzurrite e verde per la malachite. L’estrazione dai minerali di rame seguiva le vene superficiali e non raggiungeva grandi profondità. La roccia accumulata e coperta di legna da ardere era spaccata con l’aiuto del fuoco, in modo da recuperare il metallo grezzo, che era poi lavato e separato a mano dalla pietra. Infine era messo in un forno con la legna e i materiali fondenti per facilitare la fluidità del metallo. La temperatura del forno era aumentata mediante ventilazione forzata, soffiandovi dentro con i mantici, attraverso dei manicotti (tuyères) di argilla inseriti nella parete del forno. L’attività legata alla lavorazione dei metalli implicava forti disboscamenti per mettere a nudo le rocce e per ricavarne combustibile.
La più recente delle culture neolitiche della Sardegna porta il nome del suo primo importante insediamento: la grotta di San Michele presso Ozieri. Sebbene ancora neolitica, come testimonia la ricca produzione di strumenti in ossidiana, specie affilate lame di coltelli, cuspidi di frecce, lance e giavellotti, la cultura di San Michele di Ozieri (3200-2850) documenta l'esordio della più antica metallurgia del rame e dell'argento, materie reperibili in abbondanza nei giacimenti minerari dell'isola.
Il Mediterraneo era un bacino culturale all'interno del quale la Sardegna, e le regioni costiere vicine e lontane, svilupparono culture indipendenti e localmente differenziate, ma con svolgimento parallelo delle fasi evolutive essenziali. Gli uomini erano pacifici agricoltori, pescatori e pastori, e vivevano in caverne naturali oppure all'aperto, in villaggi non fortificati che intorno al 3000 a.C. crebbero notevolmente in numero e grandezza. Villaggi con un centinaio di capanne non sono rari, soprattutto nel Campidano. Nei corredi funerari e nei vasi rituali si osserva una tale profusione di elementi decorativi che la loro lavorazione fa pensare a un intenso fervore religioso. Anche gli idoli femminili sono comuni alle culture Bonuighinu, San Ciriaco e Ozieri.


 La cultura di Ozieri presenta vasi ricavati da pietre locali (steatite, calcite, clorite), abilmente lavorate, chiari indizi dell'influenza del Mediterraneo orientale. La religiosità della cultura di Ozieri si manifesta soprattutto nelle 3000 tombe rupestri (domus de janas), scavate nella roccia con primitivi picchi da scavo in pietra. Analoghe tombe rupestri a camera sono note per tutto il III millennio a.C. in tutta l'area mediterranea. Presso Arzachena, nel santuario funerario Li Muri, le ciste litiche sono circondate da diversi anelli concentrici composti da lastre più piccole disposte verticalmente. Al margine degli antichi tumuli vediamo altre ciste litiche più piccole per le offerte funebri e numerosi pilastri di pietra (betili), talvolta entro una piccola ghirlanda di sassi. Fra i doni funebri abbiamo asce di pietra levigata, teste di mazza, coltelli di selce e collane. In ognuna delle ciste litiche si trovò di regola un solo defunto, posto in posizione rannicchiata: è possibile dedurne l'esistenza di una struttura sociale aristocratica presso le stirpi dei pastori. L'elemento caratteristico, la cista litica nel tumulo, era diffuso dalla Palestina fino all'area egea e ai Pirenei. Molte di queste perdas fittas, come vengono chiamati in Sardegna i menhir, possono essere attribuite alla cultura di Ozieri. Verso la metà degli anni Settanta sono state ritrovate presso Goni le più spettacolari serie di menhir sarde, pur se la ricostruzione dell’allineamento, coraggiosamente eseguita il secolo scorso, non consente di apprezzarne il significato originario.
Nella grotta di San Michele furono rinvenuti vasi tripodi finemente lavorati con motivi geometrici incisi sull'argilla e colorati con ocra rossa. Nelle pianure e nelle montagne sarde sorgono oltre 200 centri rurali, costituiti da capanne in pietra, con un muro circolare o rettangolare sul quale veniva adagiata una struttura in legno ricoperta di frasche. La mancanza di fortificazioni e la scarsità di armi rinvenute nelle sepolture, lasciano intuire che queste genti coabitavano pacificamente. La religiosità di queste popolazioni era legata alla natura e al culto legato alla fecondità rappresentata dalla Dea Madre, come i loro predecessori neolitici.

L'abbondanza dei prodotti e la mitezza del clima accompagnavano la descrizione dell'antica Sardegna da parte degli scrittori classici. Le fonti letterarie relative alla divinità protosarda Aristeo, raccontano che al tempo dei nuraghi la Sardegna era ricca di olio, latte e miele, ma anche di alberi da frutta delle campagne, del bosco e della macchia. La scoperta dei primi metalli, rame e stagno, indusse l'uomo ad accantonare progressivamente l'uso delle pietre dure. Nel periodo di passaggio dal Neolitico al Bronzo, le armi e gli utensili di rame svolsero un ruolo subordinato in confronto a quelli in pietra, perciò quest'epoca è chiamata Età del Rame. Gli inizi della metallurgia in Sardegna risalgono al periodo della cultura di Ozieri, ma la tecnologia si sviluppò soprattutto nel periodo delle culture di Abealzu, Filigosa e Monte Claro, dove le tracce della lavorazione del rame diventano sempre più frequenti. Si producono anche pugnali che sono colati in forme e induriti a colpi di martello. La prova più antica di una lavorazione locale di minerali di piombo ci è fornita da una ciotola in stile Monte Claro rinvenuta presso Iglesias, aggiustata con graffe di piombo proveniente dai giacimenti di galena situati nei dintorni di Iglesias. 
Funtana Raminosa, la più grande miniera di rame della Sardegna, si trova invece nella valle al confine fra il Sarcidano e la Barbagia di Seulo. Sul vicino altopiano, a Laconi, si sono trovate le prime statue-menhir della Sardegna, sulle quali sono raffigurati pugnali di metallo. Sotto alla linea della cintola, spicca un doppio pugnale a lame triangolari con impugnatura centrale. Il tridente rappresentato sul petto dei menhir è fonte d’interpretazioni differenti. Per alcuni studiosi simboleggia una figura umana capovolta: un morto. Per altri si tratta di una protome taurina con un pugnale verticale al centro. La mia romantica visione della civiltà sarda propone per i menhir figurati un connubio fra due divinità: la Dea Madre avvolge tutta la pietra, si notano i lineamenti del viso e il mantello che riveste i lati e la parte posteriore; il tridente è il forcone del Dio del Mare (Poseidone); nella parte bassa del menhir troviamo uno scettro, ossia il potere del sovrano. Si tratterebbe, in sintesi, della raffigurazione del mondo dell’epoca: Dea Madre, Dio del Mare e sovrano che gestisce il potere sotto la protezione degli dei. L'area di rinvenimento delle statue-menhir di Laconi dista meno di 8 km in linea d'aria dai giacimenti di calcopirite, galena e blenda di Funtana Raminosa, nei monti del Sarcidano, lungo il versante occidentale digradante del massiccio delle Barbagie di Belvì e Seulo.
Alla cultura di Ozieri appartengono un pugnale e alcune verghe di rame, portate alla luce in una capanna di Cuccuru Arrius di Cabras e un paio di anelli d'argento dalla tomba V della necropoli di Pranu Muttedu di Goni. L’inizio della metallurgia avvenne contemporaneamente in Sardegna, in Corsica e in Sicilia, dove le prime scorie di rame, ancora aderenti alla parete di un crogiuolo, sono state raccolte nello strato della facies di Diana sull'Acropoli di Lipari. 

Nelle immagini una serie di ceramiche Monte Claro esposte al Museo Archeologico di Cagliari
Alla metà del III Millennio a.C. si arriva alla cultura di Monte Claro che si articola in facies locali: meridionale, oristanese, nuorese e settentrionale. Il patrimonio culturale è ricco ed elaborato, con insediamenti in grotta e all'aperto, deposizioni in tombe a fossa, a forno, a cista e megalitiche, sempre con rito inumatorio. Lo strumentario di selce e di ossidiana è scarso e la fioritura della facies di Monte Claro è forse spiegabile con un’economia agricola in ripresa, con un incremento delle attività pastorali e con l’avvio allo sfruttamento delle risorse minerarie dell'isola che inseriscono a pieno titolo la Sardegna nelle rotte di prospezione mediterranea, innescando un processo economico di vasta portata.
Verso la fine del III Millennio a.C. una nuova cultura, a carattere internazionale, si affaccia nell’isola e in buona parte della penisola italica. Fra i corredi tombali della cultura del vaso campaniforme troviamo oggetti realizzati in una lega di rame e arsenico che presentava un maggiore grado di durezza. Il passo successivo, quello cioè di aggiungere al rame alcune parti di stagno per ottenere un bronzo di durezza notevolmente maggiore, ci è noto in Sardegna solo intorno alla metà del XVII a.C. A questo periodo sono testimoniate una serie di spade triangolari in rame arsenicato, portate alla luce da Ugas in una tomba di Decimoputzu.
E’ ragionevole ritenere che anche nelle isole si sia verificato un radicale cambiamento degli equilibri consolidati che segnò il passaggio dal Neolitico all’Eneolitico. La diffusione del metallo fu la causa della diminuzione d’interesse nei confronti dello sfruttamento e della circolazione dell’ossidiana. 

giovedì 7 giugno 2012

Leonardo Melis - Conferenza Popoli del Mare - Cagliari

Video della conferenza diviso in nove parti,per sceglierne una cliccate sul pulsante della playlist.

Sardegna. Manuale di Archeologia per dilettanti - 4° dispensa.

Le sepolture dell'Età del Ferro

di Pierluigi Montalbano


Tombe di Tuvixeddu
Intorno al X a.C., in Sardegna si assiste a una serie d’innovazioni in campo funerario, architettonico, artistico e, conseguentemente, sociale. Alle Tombe di Giganti e Domus de Janas, riutilizzate per sepolture e altre funzioni, si affianca una tipologia già conosciuta all’inizio del IV Millennio a.C.: le tombe a fossa o pozzetto. Si tratta di piccoli sepolcri nei quali il defunto era sistemato in posizione rannicchiata, a volte accompagnato da un corredo funerario. E’ il caso, ad esempio, delle 3 tombe scavate da Ugas a pochi metri dal Tempio di Antas, a Fluminimaggiore. Un parallelo può essere proposto con le sepolture a pozzetto scavate da Bedini e Tronchetti a Monti Prama, nel territorio di Cabras, e con quelle nella regione di Is Aruttas, sempre a Cabras; il saggio di scavo condotto in queste ultime, mise in luce cinque tombe a pozzetto circolare scavate nel tufo trachitico. I sepolcri a pozzetto hanno un diametro di una cinquantina di centimetri e una profondità tra i 40 e i 50 cm; in uno di essi fu rinvenuto lo scheletro seduto del defunto. Una decorazione scultorea con crescenti lunari era associata alle tombe, forse a chiusura della parte superiore del pozzetto. Lo scavo di Antas, nel 1984, ha portato alla luce tre tombe a pozzetto circolari, allineate in direzione nord-sud, chiuse da un tumuletto di pietre di media pezzatura. Due dei sepolcri contenevano i resti dei defunti inginocchiati. La cronologia del IX a.C. è resa dal corredo della tomba 3, con perline sferiche in cristallo di rocca, perline a botticella, cilindriche e biconiche in ambra e vetro, vaghi e pendagli e un bronzetto. Il sito è stato scavato anche nel 1993, e ha restituito nuovi elementi: due nuovi pozzetti funerari si sono aggiunti ai precedenti, più vicini al podio templare che, forse, copre la serie più numerosa delle tombe indigene. Nella terra nera e carboniosa che circonda i pozzetti nuragici, le indagini più recenti hanno individuato alcune fossette con offerte votive: carboni e resti di ossa animali. 
A Monti Prama, Tronchetti ha messo in luce oltre trenta tombe a pozzetto, affiancate e allineate in direzione nord-sud, coperte da lastroni monumentali; sotto 40 cm di riempimento di terra, una lastra più piccola costituisce la chiusura vera e propria della bocca del pozzo che ospita il defunto, inumato in posizione rannicchiata; le dimensioni dei pozzetti e le caratteristiche del rituale sono praticamente identiche a quelle riscontrate ad Antas. Queste tombe rappresentano una parte della necropoli più ampia, già scavata da Bedini e che, oltre ai pozzetti, si caratterizza per la presenza di tombe foderate con lastre, e di ciste litiche. L’elemento più rilevante per la cronologia è al momento lo scaraboide rinvenuto nella tomba n° 25, di tipologia egiziana e attestato a Tiro e a Cipro in orizzonti di VIII a.C.


morro di Mezquitilla
In questo periodo s’intensificano i rapporti con i commercianti levantini, e gruppi familiari di queste genti si insediano in Sardegna integrandosi con i locali. Le generazioni sardo-levantine applicano i rituali funerari del Vicino Oriente e l’analisi delle due importanti necropoli di Tharros offrono un’attenta cronaca delle nuove usanze. Tutti i musei del mondo hanno migliaia di reperti mediterranei e punici provenienti dalle tombe di Tharros. Non sappiamo se le due necropoli servissero due centri diversi. La necropoli meridionale è molto estesa e fu saccheggiata nell’Ottocento. Le tombe arcaiche sono di due tipi: a fossa e a cista litica. In molte di quelle a fossa ci sono tracce di bruciato poiché hanno un rito d’incinerazione primaria. Le incinerazioni sono di due tipi: primaria e secondaria. La primaria consiste nello scavare una fossa abbastanza grande nel terreno, allestire la pira funeraria, preparare il cadavere e sistemarlo sopra. Dopo la combustione, i resti sono automaticamente nella fossa (per caduta). Nell’incinerazione secondaria esiste un luogo (ustrinum) dove il cadavere viene bruciato. I resti sono poi deposti in un’urna che è sistemata nella tomba. Ustrinum e tomba sono distanti, da pochi metri fino a qualche chilometro. Le varie sepolture, ossia i riti funerari, sono indizi del periodo perché si alternavano nel tempo e nei luoghi. I punici preferivano l'incinerazione secondaria (ecco spiegate le varie ceramiche tipiche). I sardi preferivano l'inumazione e, in seguito, l'incinerazione primaria. I tofet sono tombe a incinerazione secondaria. Altre, più piccole, sono a deposizione secondaria. L’unica tomba mediterranea documentata nella necropoli meridionale è stata trovata a filo con una tomba punica, quindi i punici conoscevano l’esatta ubicazione delle tombe fenicie e scavavano le loro a filo, rispettando le precedenti. La tomba mediterranea a fossa era coperta con lastre di arenaria chiuse con argilla. Sotto le lastre, la deposizione era a incinerazione secondaria con il corredo costituito dalla brocca con orlo espanso (a fungo), il piatto e la pentola. 
In età punica ci sono due tipi di tombe: a fossa parallelepipeda e a camera. Le prime erano scavate nella roccia e coperte da lastre, a volte inserite in riseghe scavate in alto e cementate con argilla. Quelle a camera occupavano il terreno in profondità, mentre negli spazi liberi si alternavano quelle a fossa che erano più superficiali. Il modulo di accesso era a dromos, con scale che nella fase più antica occupavano tutto il lato breve, mentre nelle tombe più recenti si limitavano a una fascia, come quelle africane. In rari casi abbiamo tombe con la scala al centro. Dopo la deposizione del defunto, l’ingresso era sigillato con una lastra e argilla, e il dromos della tomba veniva riempito di terra. Le camere sono piccole, spesso con delle nicchie sulle pareti laterali e i pavimenti si trovano a livello più basso del dromos. In molti casi ci sono delle linee dipinte in ocra rossa, come le tombe africane e una cinquantina di Cagliari. Come a Kerkouane, vicino a Cartagine, vi sono delle tombe che sono state intercettate dal dromos di altre tombe costruite in seguito. In questi casi veniva ricostruito il paramento murario della tomba. Il dromos era ultimato prima di costruire la camera perché ci sono casi in cui è completo, ma la camera non è stata costruita perché avrebbe distrutto la tomba adiacente. Gli scavi hanno evidenziato tantissimi cippi funerari. La necropoli settentrionale è simile dal punto di vista tipologico a quella meridionale e sono state trovate anche qui delle tombe levantine integre, scavate nella sabbia anziché nella roccia, coperte con lastre, e il rito di sepoltura prevedeva l’incinerazione primaria. La necropoli è stata depredata ma le tracce hanno restituito dei materiali interessanti che mostrano tombe puniche con dentro materiali mediterranei. Anche questa potrebbe essere una prova della precoce penetrazione di genti cartaginesi, già intorno al 650 a.C. 





Tempio di Antas
Una tipologia a parte è costituita dai tofet, i cimiteri dei bambini. Sono santuari a cielo aperto, consistenti in un'area consacrata, dove erano deposti e sepolti ritualmente i resti combusti delle sepolture infantili. Una zona ristretta dell'area era in genere occupata dalle installazioni per il culto (sacelli e altari). Molte urne erano accompagnate da stele con iscrizioni. Si trovano di solito in aree periferiche delle città, nei pressi delle necropoli. Sono caratteristici dell’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tofet. 
In questi santuari l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può esserci. Il tofet è sempre circondato da un temenos, ossia un recinto sacro, all’interno del quale c’è la deposizione di urne in ceramica e stele in pietra. Generalmente si trova a nord dell’abitato in una posizione periferica e non viene mai spostato: qualora si dovessero fortificare le città si arriva a modificare il percorso delle mura per non spostare il tofet. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti, agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si arrivava fino ai 3-4 anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma ma dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso. 

È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”, che lo affianca dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nell’interpretazione greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici necropoli a incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture. Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli che sono offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato da Dio ma ci si rese conto che i tofet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i mediterranei non li chiamavano così, è stata una nostra associazione. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato a un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione. Tuttavia questa ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria del sacrificio; altro elemento è l’interpretazione delle fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute. Come si può facilmente notare, la questione dei tofet investe l'archeologia, la storiografia, l'esegesi biblica, l'antropologia, le tradizioni culturali. 

Tophet Cartagine
Secondo Moscati nei tofet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito d’introduzione nella comunità (battesimo e circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne, e in qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Un gran numero d’iscrizioni ritrovate nei tofet riportano delle formule rituali sempre uguali: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta, che si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Questa formula successivamente è cambiata mettendo prima il nome della divinità. 
Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera.
A oggi non sappiamo se ogni stele sia legata a un’urna in particolare, né se le offerte erano rituali periodici. Sono in pietra locale, tenera (arenaria o tufo), rappresentano cippi (le più antiche) o piccoli tempietti che contengono la rappresentazione della divinità.
In letteratura, dividiamo i monumenti votivi in cippi e stele funerarie.
Il cippo semplice è una pietra aniconica non molto lavorata, dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta direttamente la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infissa nel terreno o posta sopra un basamento in pietra. A volte i cippi sono montati su basi attraverso incastri. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia, (un elemento lapideo aggettante egizio acquisito dai punici). Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri, abitativi e altri, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono, (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In questi casi, cioè quando una pietra sacra si trova sul trono, parliamo di “betilo” (casa del Dio). In qualche caso un “idolo a bottiglia” sostituisce il betilo. Nell’ambito del VI a.C. possiamo trovare i cippi trono posti su basamento. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi. Questi monumenti sono documentati in pochi siti: Cartagine, Mozia, Solunto e Tharros.



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Sardegna - Manuale di archeologia per "dilettanti" - dispensa 3

3° dispensa: Le sepolture 

di Pierluigi Montalbano.

Fra gli indizi più rilevanti a disposizione degli archeologi troviamo le tracce lasciate nei siti funerari. A differenza dei villaggi, questi luoghi offrono spesso manufatti ancora sigillati nei sepolcri, e consentono un’analisi precisa del contesto. Architettura, resti ossei, cenere, ceramiche, gioielli, armi, decorazioni tombali e altri segni del passato sono utili a ricomporre il mosaico di indizi che consente l’interpretazione del modo di vivere dei sepolti, in gergo denominato facies o cultura. In Sardegna, i più celebri luoghi di sepoltura scelti dalle comunità neolitiche sono denominati Domus de Janas. Si tratta di templi realizzati in luoghi sacri e dedicati al culto dei morti. Le strutture sepolcrali sono scavate nella roccia e, oltre a quelle sarde, si trovano lungo tutto il bacino del Mediterraneo. In Sardegna se ne contano quasi 3.000, e molte rimangono ancora da scavare. Sono frequentemente collegate tra loro a formare delle necropoli sotterranee, con in comune un corridoio d'accesso e una spaziosa anticamera. Gli archeologi riferiscono che furono scavate e decorate durante la Cultura di Ozieri (Neolitico finale), ma gli scavi effettuati nella necropoli di Cucurru is Arrius a Cabras hanno permesso di retrodatarle fino alla Cultura di Bonu Ighinu (Neolitico Medio). Le genti della Cultura di Ozieri si diffusero sull’isola Sardegna cambiando il modo di vivere delle precedenti popolazioni neolitiche. Erano comunità laboriose e pacifiche, dedite all'agricoltura, alla pesca, alla pastorizia e la loro religione si riferiva a divinità comuni alle altre civiltà agricole: Sole,Toro e Fuoco, simboli della forza maschile; Acqua, Luna e Madre Mediterranea, simboli della fertilità femminile. Statuine stilizzate della Dea Madre sono state spesso ritrovate in queste sepolture e nei luoghi di culto.

Le Domus De Janas sono uniche nel panorama mediterraneo per l'accurata lavorazione, per i caratteristici aspetti architettonici e per le decorazioni che richiamano le case dei vivi, suggerendo come fossero costruite le case di 5000 anni fa. Abbiamo grotticelle a forma di capanna rotonda con il tetto a cono, o spazi rettangolari a tetto spiovente, provvisti di porte e finestre. Non sono rare le colonne e le finte porte per raggiungere l’aldilà. Nelle tombe più maestose si notano le travi del soffitto ricavate lavorando la roccia a rilievo. Le pareti e i pavimenti erano colorati in rosso e blu, e decorati con figure rigorosamente legate alle divinità astrali (sole e luna) e agli elementi vitali (acqua e fuoco). Questi templi erano arricchiti con simboli religiosi (bracieri, protomi taurine, spirali, cerchi concentrici, rombi). I corpi venivano deposti in posizione fetale, spesso ricoperti con ocra rossa, il colore del sangue e della vita. Altre volte sopra il morto si realizzava un bianco cumulo di valve di molluschi. Accanto alle spoglie erano deposti amuleti, vivande, punte di freccia, armi e altri oggetti di uso comune, a formare un corredo del defunto. Nel tempo i corredi funebri erano rimossi per far spazio a nuove deposizioni. Le Domus de Janas più antiche precedono di qualche secolo un altro tempio funerario caratteristico dei secoli a cavallo fra Neolitico ed Età del Rame: il Dolmen, una tomba megalitica a camera singola le cui prime realizzazioni sono da localizzare in Gran Bretagna. I dolmen erano delle sepolture collettive riutilizzabili. Questo spiega perché, in certi dolmen, si siano trovati resti umani di centinaia di individui e di corredi funerari appartenenti a differenti periodi. Considerata l'esiguità dei resti umani rinvenuta in alcuni dolmen giganteschi, evidenti monumenti di prestigio, ci si può chiedere se non fossero in realtà strutture sacre (templi) presso le quali i capi e i sacerdoti chiedevano di essere tumulati. Quanto al tumulo, aveva la funzione di proteggere la camera funeraria e quella di ostentare la sua maestosità: un grande tumulo rivestito, imponeva la sua massa al visitatore e conferiva sicuro prestigio alla comunità che lo aveva eretto. In Sardegna è presente il Dolmen più grande del mondo, Sa Coveccada, nel territorio di Mores. E’ alto quasi 3 metri, e lungo oltre 5. Il monumento, a pianta rettangolare, è realizzato con tre grandi lastre squadrate in trachite locale, infisse nel terreno, a sostegno di una lastra di copertura del peso di quasi 20 tonnellate. E’ andata perduta la parete posteriore. Nel prospetto principale si apre un piccolo accesso che introduce all’unica camera nella quale, scavata all’interno del lastrone verticale a sinistra dell’ingresso, si trova una nicchia funzionale, verosimilmente, alla deposizione del corredo funerario e delle offerte. I Dolmen costituiscono un “passaggio” fra le Domus De Janas, ricavate scavando nella roccia, e le tombe artificiali realizzate sovrapponendo pietre mediante l’uso di due tecniche differenti: ciclopica o megalitica. Il modulo dolmenico, ossia due pietre verticali che sostengono una lastra piatta che costituisce la copertura, può essere replicato per ottenere lunghi corridoi denominati “gallerie dolmeniche”. 

L’evoluzione di queste strutture porterà nel corso di qualche secolo alla realizzazione delle Tombe di Giganti, i templi ideati dai nuragici e dedicati al culto dei defunti. Questi 350 edifici mostrano differenti sistemi di costruzione, ma rappresentano con rigore ossessivo una duplice simbologia: protome taurina e utero. Forse i sardi dedicarono ai defunti i templi che racchiudevano simbolicamente il ciclo vitale: il defunto era deposto nel luogo che l’aveva generato. Inoltre la potenza del toro costituiva una forza vitale che avrebbe accompagnato i morti nel viaggio verso l’aldilà. A volte il prospetto delle Tombe di Giganti offre elementi di difficile interpretazione: una grande stele, talvolta divisa in registri, che presenta un piccolo portello in basso: una porta che divide il mondo dei vivi dal mondo dei morti. Una stele simile, in rari casi, si può trovare scolpita nella roccia anche negli ingressi delle domus de janas. L’area posta davanti alla facciata di questi templi generalmente è racchiusa fra due ali in pietra a formare un semicerchio, ed è denominata esedra. A volte in quest’area si trovano menhir, banconi-sedili in pietra e altri elementi legati alla religiosità. Questi particolari sepolcri consistono in una camera lunga dai 20 ai 30 metri e alta da 2 a 3 metri. In origine la struttura, similmente ai dolmen, era ricoperta da un tumulo e il soffitto interno era piatto o somigliante a una barca rovesciata. Il primo tipo di Tomba di Giganti deriva dai dolmen, con esedra realizzata con massi conficcati a coltello. Successiva a questa tipologia è il tipo a filari, con esedra senza stele e ali realizzate con una muratura a filari orizzontali; in questo caso i massi sono lievemente squadrati. La successiva evoluzione consiste nell’applicazione dell’isodomia, ossia con conci perfettamente squadrati, presenti anche nei coevi nuraghi e pozzi sacri. A questa tipologia appartengono due sottotipi: il tempio con portello centrale architravato e quello con portello ricavato in una lastra trapezoidale. Le Tombe di Giganti concludono il loro ciclo vitale intorno al X a.C. quando un nuovo sistema sociale, influenzato dai contatti sempre più frequenti con l’esterno dell’isola, porta i sardi a dedicarsi ad altre architetture. I nuraghi non sono più ristrutturati e con le parti sommitali crollate si edificano capanne in prossimità delle torri. Alcuni fra i più maestosi sono trasformati in luoghi di culto, e le sepolture sono totalmente differenti: non più comunitarie in monumenti importanti ma più meste, in pozzetti singoli ricoperti con lastre che li sigillano. E’ il caso di Antas e di Monte Prama. Dedicherò a queste nuove tipologie tombali la dispensa di domani.

Nelle immagini...dall'alto:

Mesu e Montes - Ossi (Circolo fotografico Le Conce - Alghero)
S'Adde 'e Asile - Ossi (Circolo fotografico Le Conce - Alghero)
Tomba di Giganti Is Concias - Quartucciu
  

Foto di Cristiano Cani

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martedì 5 giugno 2012

Sardegna - Manuale di Archeologia per "dilettanti" - 2

Corso di storia e archeologia della Sardegna - 2° lezione

La nascita dell’agricoltura e le prime religioni

di Pierluigi Montalbano


Le varie culture, nel corso dei millenni, hanno prodotto una letteratura nella quale i miti e le leggende costituivano l’origine della loro concezione del mondo. Gli egizi raccontano che tutto iniziò nell’Haou Nebout, ai confini occidentali del mondo e del fiume oceano, nelle isole nel cuore del Grande Verde. La Bibbia svela che l’uomo e la donna furono allontanati dal Paradiso Terrestre, e che un Diluvio Universale cancellò l’umanità. Si salvarono solo pochi “buoni”, che con le loro competenze sulla navigazione, sull’allevamento e sulla coltivazione dei semi riuscirono a dar vita al nuovo mondo. Per i greci il “Caos” fu risolto dai Pelasgi, gli antichi maestri della navigazione. Gli antichi scrittori utilizzavano il termine pelasgi per individuare le primitive popolazioni autoctone elleniche. 

Platone inventò Atlantide, un paradiso nel quale l’uomo viveva nel lusso, in città circondate da anelli d’acqua. La popolazione era evoluta e comandava una potenza navale situata oltre le Colonne d'Ercole. Conquistò molte parti dell'Europa Occidentale e dell'Africa 9000 anni prima del tempo di Solone (approssimativamente nel 9600 a.C.). Dopo avere fallito l'invasione di Atene, Atlantide sprofondò in un singolo giorno e notte di disgrazia. Il nome dell'isola deriva da quello di Atlante, leggendario governatore dell'Oceano Atlantico, figlio di Poseidone, che sarebbe stato anche, secondo Platone, il primo re dell'isola. 

E’ evidente che Platone si ispirò alla tradizione orale che descriveva eventi passati come l'eruzione vulcanica di Thera-Santorini o la Guerra di Troia. In assenza di fonti scritte, possiamo raccontare la nascita di agricoltura e allevamento basandoci sugli indizi lasciati dall’uomo preistorico. Le tracce risalenti alla fine dell’ultima glaciazione, circa 15.000 anni fa, mostrano un globo terrestre differente rispetto all’attuale. I ghiacciai trattenevano gran parte dell’acqua e il mare era circa 150 metri più basso di oggi. La Sardegna era unita alla Corsica, il Mar Nero era un grande lago di acqua dolce, Gran Bretagna e Francia erano unite e la Sicilia era collegata all’Italia. Alcuni cambiamenti climatici, dei quali si ignora la causa, determinarono lo scioglimento del ghiaccio. 

La grande quantità d’acqua salata che progressivamente conquistò enormi lembi di terreno coltivabile, costrinse le popolazioni costiere a spostarsi verso l’interno. Le falde d’acqua dolce diminuirono sensibilmente e i più intrepidi pensarono di avventurarsi per mare alla ricerca di nuove terre. Questi personaggi lasciarono tracce lungo le coste e nei primi siti visitati: statuine in pietra (o in osso) raffiguranti una donna prosperosa, dipinti e graffiti nelle grotte, grandi massi sovrapposti o orientati secondo direzioni che, al momento, non offrono interpretazioni condivise. Queste genti avevano un unico credo, una religione basata sul culto della Dea Madre. Realizzavano grandi animali cornuti nelle pareti, forse per celebrare riti propiziatori che anticipavano le missioni di caccia. In quei tempi si estinsero i grandi animali, e le nuove tecniche di caccia si orientarono alla cattura di piccole prede. 


Nelle immagini: Catal Hoyouk e Gerico.


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lunedì 4 giugno 2012

Sardegna - Manuale di archeologia per "dilettanti"


Corso di storia e archeologia della Sardegna - 1 di Pierluigi Montalbano

Nei miti greci ed egizi troviamo la descrizione degli antichi padri che al termine dell’ultima glaciazione crearono la più evoluta civiltà del passato. I personaggi descritti sbarcarono da un luogo lontano, indistinto, collocato nel mare, in grandi isole poste oltre i confini del mondo conosciuto. Gli antichi papiri egizi li ricordano come Haou-Nebout, mentre per i greci si tratta dei leggendari Pelasgi, il popolo generato dalla terra allo scopo di creare la razza umana. Più tardi, nelle età dei metalli, queste genti assumono una fisionomia più concreta e lasciano tracce evidenti costruendo città con spettacolari palazzi. Per 1000 anni solcano il Mare Mediterraneo con le loro navi commerciali, sono conosciuti con il termine “Minoici”. L’esplosione del vulcano Santorini, avvenuta nel XVII a.C., causa la loro decadenza, e nuovi popoli si affacciano nel Mediterraneo e ripercorrono le stesse rotte commerciali: i “Micenei”. Nel 1274 a.C. a Qadesh e nel 1175 a.C. nel Delta del Nilo, si consumano le ultime speranze dei faraoni Ramessidi di mantenere il dominio armato nel Vicino Oriente. Nuove genti, abili nella navigazione e nel combattimento corpo a corpo, distruggono le città degli Ittiti, dei Mitanni e dei Cananei, e si insediano nelle province egizie determinando il crollo dei grandi imperi. Sono ricordati con un nome che, ancora oggi, rimane misterioso e suscita rispetto: “Coalizione dei Popoli del mare”. Questi guerrieri s’insediarono nel Vicino Oriente e fondarono città, riscuotendo tributi dal popolo e ripristinando le antiche rotte commerciali. Frequentarono le coste fondando approdi e globalizzando il mondo mediterraneo. Migliorarono le tecnologie dei locali, rifornirono di metalli i sovrani e dominarono per 400 anni il panorama politico. I testi li chiamano filistei, sardi, cretesi, ciprioti, tiri, gibliti, sidoni, siculi, tirreni. Nel libro “Antichi Popoli del Mediterraneo” sono chiamati “Levantini”.




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