venerdì 31 maggio 2013

Julia Carta

di Monica Taddia

Dobbiamo ringraziare l’Archivo Histórico Nacional di Madrid se possiamo ricordare la storia di Julia Casu Masia Porcu, meglio conosciuta come Julia Carta. Nacque a Mores (Sassari) da Salvador Casu, muratore, e Giorgia de Ruda Porcu Sini. Povera, analfabeta, a 25 anni sposò Costantino Nuvole, un umile contadino, vedovo e con un figlio avuto dalla donna precedente, e si traserì nella poco distante Siligo. Dall'uomo ebbe sette figli, ma solamente uno, Juan Antonio, sopravvisse. Una donna semplice, come tante altre, ma mentre la madre le aveva insegnato ad essere una perfetta donna di casa, oltre che a cucire, tessere e filare come tradizione sarda voleva, ecco che la nonna le aveva tramandato arti ben più particolari: Julia era indovina e guaritrice, e queste doti si rinforzavano giorno dopo giorno, un po' grazie alla condivisione con altre compaesane che le praticavano, un po' per la conoscenza di gitani che a volte si trovavano a passare da quelle parti. Le arti di Julia erano adoperate a fin di bene, senza scopo di lucro, e della sua buona fede ella si fece scudo ripetutamente ad ogni accusa che le venne mossa. Alle sue arti ricorrevano anche persone provenienti da paesi vicini: Julia conosceva il potere delle erbe e dei brebus che guarivano dalle malattie del corpo e dello spirito, sapeva costruire amuleti difensivi, conosceva diverse tecniche per prevedere il futuro... Ma c'era chi diceva potesse anche fare ammalare e morire: fu con l'accusa di aver gettato una malia ad una donna che aveva tentato di curare (infruttuosmente, vista la morte della poveretta) che venne arrestatae processata davanti al Tribunale dell'Inquisizione spagnola, sito a Sassari. Il parroco di Siligo, Baltassar Serra y Manca, si prodigò nella ricerca di indizi e testimonianze a discapito di Julia, e con successo: seppe, tra le altre cose, che la donna usava affermare esser lecito confessare i propri peccati, in alcuni casi, non al sacerdote, ma all'interno di un buco fatto per terra di fronte all'altare, sotto le lenzuola a letto oppure nell'attraversare un fiume. Quando Julia curava, era solita recitare questa preghiera: "Jhesus Maria,innantis Deu qui non punta De sa manu da sa Verginy Maria sias unta Unta de sa manu da sa (Verginy)Maria Innantis de sa manu mia Et de Sancta Margarida Chi lehayt dogni punta et dogni ferida Chi dognia punta et dognia ferida leayt Et de custu male di sanayt." Notiamo che la donna guariva invocando l'intercessione della Madonna: ai tempi un'eresia a tutti gli effetti, ai giorni nostri probabilmente sarebbe stata canonizzata e proclamata santa. Fu così che, a 35 anni, Julia finì davanti al tribunale per la prima volta: era il 1596. Barbara de Sogos, Jagomina Zidda, Jagomina Enna, Joana Pinta, Joana Seque Malizia, ed altri testimoni, dichiararono a Baltassar, che era anche commissario dell'Inquisizione, tutte gli operati della loro compaesana. E' il popolino stesso che getta scandalo sulla figura della persona a cui, fino al giorno prima, si era rivolto per curare una febbre o chiedere consiglio sull'immediato futuro. Una storia che, purtroppo, è il leitmotiv di tutto il periodo inquisitorio. Una volta giunta a Sassari, le vennero fatte le tre moniciones di rito, che invitavano la presunta strega a farsi un esame di coscienza e raccontare tutta la verità. Le confessioni avvennerò soltanto sotto tortura: sottoposta al tormento della corda, ammise di aver compiuto le malie per cui era stata accusata, ma non solo: ammise di avere avuto rapporti carnali con il diavolo, di aver operto anche durante il suo soggiorno in cella, ma anche di aver subito molti soprusi. E rivelò di aver ereditato i suoi saperi dalla nonna, da una zingara e da una certa Tommasina Sanna. Un'eredità che poteva essere tramandata solamente di donna in donna. "La accuso e le imputo come colpa principale il fatto che una volta andò a praticare suffumigi a un'ammalata e, avendole portato alcune braci ben accese, la detta Julia Carta gettò su quelle braci una cosa che le spense di colpo. Ed essendo i presenti meravigliati per come le avevano viste spegnersi così repentinamente, la detta Julia disse: - questo significa che l'ammalata è morta - ; e aggiunse anche - hai raggiunto il tuo scopo - . Avendo chiesto di che si trattava, Julia rispose che l'inferma aveva fatto una certa cosa, ed era che aveva fatto scendere la luna perchè le rivelasse che cosa sarebbe stato di una certa persona che si trovava in carcere; e disse pure che l'inferma sarebbe morta nell'ora in cui il gallo avesse cantato. E fu così che morì proprio in quell'ora. Per la qual cosa sembra essere strega, superstiziosa, malefica e (si sospetta) la presenza del demonio (...) parimenti, la accuso e le imputo come colpa il fatto che un'altra volta consigliò e diede a una certa persona un fazzoletto pieno di ossa di morto (un panisuelo lleno de uessos de muertos). affinchè, recatosi a casa del governatore di Sassari, le mettesse sulla porta dalla quale il detto governatore usciva, in modo che costui fosse impossibilitato a far del male a una certa persona (...)parimenti la accuso e le imputo come colpa che, essendo una certa persona inferma e si sospettava che lo fosse a causa di qualche maleficio che le aveva fatto, una certa persona le consigliò di recarsi a casa di Julia Carta, che si intendeva di queste cose e che le avrebbe dato un rimedio. E così vi si recò. E il rimedio che la detta Julia Carta le diede fu questo: chiese tre pezzi di tegola di chiesa, tre pezzi di pietra pomice e polvere, palma benedetta, rosmarino, ruta e cùscuta, e tutte queste cose mise in un vaso di terracotta, nel quale c'erano vino, acqua benedetta e orina ( tres pedassos de texa de iglesia, tres pedassos de piedra pomize y pòlbora, palma bendita,romasino, ruda y hilos de oro, y todo esto lo paso in un vaso de tierra en que estava vino, agua bendita y orina); chiamò quindi quella persona e la fece spogliare e sedere in una sedia sardesca (silla sardesca) vicino al fuoco, mise sul fuoco tutti quegli ingredienti mrnzionati, e col fumo suffumicò la detta persona. E così avenne la prima volta. La seconda volta Julia Carta chiese sette "ochinas", un "detrès" e un mannello di lino, e sopra quel lino mise una "ochina"; poi prese un'altro pò di lino e un'altra "ochina" e li sistemò in forma di croce, e poi un detrès e tutto il lino e le ochinas, e tutto questo mise su una tegola di braci e lo bruciò. Si levavano alcune fiamme di molti colori, e quando si alzava una fiamma nera diceva che quella era la malattia. Fece questo per tre volte e disse: pensate che queste monete le chieda per mè? non troverete ne ochinas ne dètres. Alla fine prese un giunco e misurò tutte le articolazioni di quella persona, e ad ogni articolazione faceva un nodo nel giunco, e poi se lo mise in seno. Per questo e per tutto il resto che è contenuto nella prima accusa consta in modo chiaro ed evidente che la suddetta Julia Carta è stata ed è sospetta di eresia nella nostra santa fede cattolica, malefica indovina superstiziosa, maga, e si presume che abbia stipulato patto con il demonio e che abbia detto e fatto molto più di quelle cose che compaiono in questo atto d'accusa." (Tommaso Pinna - Storia di una strega) E' tuttavia lecito immaginare che la mggior parte delle confessioni fossero irreali. Julia venne condannata a tre anni, con l'imposizione di penitenze spirituali e del sambenito (un abito penitenziale che segnava la morte sociale non solo per chi lo portava, ma anche per tutta la sua famiglia). Nonostante ciò, venne accusata di stregoneria una seconda volta, in un processo che toccò il periodo dal 1604 al 1606. Anche qui ebbe la fortuna di scampare al rogo inquisitorio. Si parla ancora di lei in un documento del 1614, ma sarà l'ultima volta che il suo nome comparirà tra questi documenti: non ci è purtroppo dato sapere come siano andate a finire le cose, ma si suppone che anche in questo caso Julia abbia avuto la meglio. Il fatto che la sua figura sia sparita così misteriosamente, contribuisce a rinforzare l'alone di mistero che ne circonda la storia. Chissà, magari è riuscita a farla in barba agli inquisitori un'altra volta, un piccolo riscatto nei confronti di tutte le altre donne che, purtroppo, non ce l'hanno fatta.
                                             
                                                         Monica Taddia
                               da www.contusu.it

martedì 28 maggio 2013

Statue giganti di Monte Prama, un mistero con spiragli di luce.





Monte e Prama: 4875 punti interrogativi

di Marco Rendeli

da HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM





Nonostante il vasto successo che le statue di Monte e Prama hanno riscosso, soprattutto in Sardegna, di esse si sa ben poco. Solamente con l’avvio del restauro voluto da A. Boninu, si è intrapreso un ampio progetto che comprende la pulizia, il restauro e la ricostruzione delle stesse da parte del Centro di Conservazione Archeologica presso il Centro di Restauro Regionale di Li Punti. Tutti i pezzi sono stati portati e assemblati in un unico luogo: si tratta di oltre 4900 frammenti delle dimensioni e delle fogge più varie che restituiscono quello che a oggi è il più grandioso complesso statuario della Sardegna preromana e uno dei più importanti del Mediterraneo. 

I frammenti furono recuperati in scavi effettuati in località Monte e Prama, nel Sinis settentrionale (Oristano) nel corso degli anni Settanta. La storia delle ricerche è lacunosa, frammentata e si dipana fra interventi estemporanei (scavi Atzori nel 1974, scavi Pau 1977) e indagini programmate (scavi Bedini 1975, scavi Lilliu, Atzeni, Tore gennaio 1977, scavi Ferrarese Ceruti-Tronchetti 1977-1979). Delle indagini condotte da A. Bedini in un settore limitato del sepolcreto è imminente la pubblicazione di un preliminare: di esse si sa che sono tombe a cista con pareti litiche con una forma successiva di monumentalizzazione, ovvero di copertura formata da lastroni; gli scavi Lilliu, Atzeni, Tore sono confluiti in un importante contributo di G. Lilliu; degli scavi condotti in maniera impeccabile da Tronchetti e dalla Ferrarese Ceruti fra il 1977 e il 1979 si ha un’ampia documentazione (TRONCHETTI 2005 con bibliografia precedente). Il sito si disloca quasi al centro di un distretto ricchissimo di presenze protostoriche (nuraghi, pozzi sacri, luoghi di culto) di civiltà nuragica, la cui vita si scagliona dal Bronzo recente fino alla piena età del Ferro. Dalle relazioni di scavo pubblicate da Tronchetti si rileva che i frammenti furono rinvenuti in un unico contesto coerente che obliterava una serie di tombe a pozzetto con lastre di chiusura litiche disposte a formare un unico “serpentone” recintato da altre lastre di calcare (fig. 3). Queste tombe, in numero di 33, formavano un unico contesto di personaggi maschili e femminili, appartenenti a diverse classi d’età (dai 13 ai 50 anni), rinvenuti in posizione seduta uno per singola tomba. Esse risultano apparentemente prive di corredo: pochi frustuli ceramici nelle tombe 1-2 e dalla 24 alla 34. Fanno eccezione la t. 25, dalla quale proviene uno scaraboide databile alla fine dell’VIII a.C., e alcuni vaghi di pasta vitrea pertinenti a collane dalle tombe 24, 27 e 29: questi sono al momento gli unici materiali che possono rappresentare termini utili per comprendere il momento di formazione della necropoli. 

Si è discusso, soprattutto in ambito sardo, se tombe e statue potessero appartenere a un unico contesto e potessero essere parte di un unico programma di monumentalizzazione di un’area funeraria: data la contiguità stratigrafica fra lo strato di obliterazione che le conteneva e le stesse tombe, i cui lastroni di chiusura si trovavano a contatto con lo stesso strato di obliterazione, non sarebbe fantasioso poter ritenere che essere potessero essere parte di un unico complesso funerario.

Un indizio, sia pur labile, sta anche nel fatto che i lastroni delle tombe a cassa, i lastroni del recinto e le statue sono tutti della medesima pietra cavata a poche centinaia di metri dal sito. Di sicuro, dalle analisi effettuate nel corso del restauro, emerge che le statue fossero state distrutte volutamente, rotte e spezzate con la subbia in determinate parti dei corpi dei guerrieri, e che l’area fosse stata interessata da un incendio le cui tracce si riconoscono in molti dei frammenti pervenutici. La distruzione potrebbe essere avvenuta in una fase anteriore, o coincidente, con la metà del IV a.C. in base frammenti ceramici più recenti rinvenuti nello strato di obliterazione che conteneva i frammenti di statue. Ciò acuisce la difficoltà nel ricostruire la genesi del complesso, ovvero se la realizzazione delle statue fosse contestuale a quella delle tombe, oppure se fosse precedente o successiva: ma ciò crea, a mio modo di vedere, un cortocircuito dal quale è difficile uscire. Forse si può affermare che tombe e statue per una certa fase (più o meno lunga) sono state parte di un medesimo complesso; che le statue con i modelli di nuraghe rappresentavano un segno nel territorio e che questo segno forse era connesso a un sepolcreto; che la distruzione avesse comportato l’obliterazione di un complesso visibile e conosciuto in maniera veramente radicale senza peraltro intaccare la sacralità dei defunti. Mi chiedo se chi ha distrutto il complesso monumentale avesse la percezione di trovarsi di fronte alla dualità del monumento sacrario e dell’area funeraria a esso connessa.

Non possiamo essere precisi sui numeri se non nel totale dei frammenti che assommano a poco più di 4900, rispetto ai circa 2000 stimati al momento dello scavo. Un ultimo torso del quale rimane la parte inferiore del corpo non è sicuramente riferibile a un pugilatore, resta il dubbio che possa essere un arciere o un oplita. 
La schedatura e l’analisi dei frammenti ha permesso una suddivisione in diverse categorie: statue antropomorfe, modelli di edilizia nuragica e altri tipi di monumento.

Fra quelli pertinenti alla modellistica “miniaturizzata” nuragica sono stati riconosciuti non meno di 7 betili, di 8 modelli di nuraghi complessi (fig. 4), di una ventina di nuraghi monotorri: da questo punto di vista però il computo non appare semplice perché molti degli esemplari monotorre potrebbe essere parte di nuraghi complessi o anche di altro, come si ricava dalla relazione di scavo stilata da Tronchetti. 
Al gruppo delle statue antropomorfe fanno riferimento un certo numero di esemplari, a oggi 23: si tratta comunque di un numero minimo effettuato sulla base del calcolo dei busti pervenutici. Tale numero potrebbe lievitare soprattutto se riferito al numero di arti superiori e inferiori presenti: ciò induce a ritenere che il complesso degli oltre 4900 frammenti scoperti e oggi schedati sia ben lungi dall’essere completo e che in aree circostanti potrebbero venire alla luce nuove sacche di obliterazione pertinenti alla distruzione del complesso. 
I tipi riconosciuti già nel corso dello scavo sono tre. Il tipo del cosiddetto “pugilatore” (fig. 5a), del quale si annoverano almeno 15 esemplari; quello dell’arciere (fig. 5b), del quale sono pervenuti cinque esemplari, quello dell’oplita (fig. 6) o portatore di scudo rotondo con due esemplari6: per un corretto riconoscimento di questi due ultimi tipi sono in corso ulteriori verifiche dei restauratori ma la differenziazione fra oplita e arciere sta nella presenza della faretra per quest’ultimo. Tutte le statue sono più grandi del naturale con altezze ricostruite che possono arrivare fino ai 2,20 metri di altezza e con strutture corporee differenti fra loro, più snelle o più massicce. Alcune delle statue si differenziano per una diversa resa della parte posteriore, praticamente piatta e priva di schemi decorativi: ciò induce a ulteriori riflessioni sulla loro collocazione nel contesto che al momento rimane puramente congetturale. In alcune delle statue sono state riconosciute tracce di pittura rossa, il che fa ritenere che il complesso potesse essere policromo e di grande effetto visivo: in altre parole questi kolossòi, seguendo la felice definizione di Lilliu, formano un complesso monumentale che, comunque sia, doveva avere un grande effetto scenico se, oltre a tutto, deve essere contestualizzato assieme ai modelli di nuraghe semplice e complesso o ai betili. 
Questo, in maniera molto sommaria, il quadro delle presenze. Fin dal primo momento è apparso che la collocazione delle statue nel complesso della produzione artistica della Sardegna dovesse avere un posto di particolare riguardo: molti studiosi hanno appuntato la loro attenzione sul possibile, anzi reale, collegamento fra questi esempi di grande statuaria e la piccola bronzistica antropomorfa rilevando la sostanziale vicinanza fra i tre tipi presenti a Monte Prama e i prodotti del Gruppo Abini (VIII a.C.), secondo la sequenza messa in evidenza da Lilliu, rispetto a quelli più recenti del Gruppo Uta (VII a.C.). 
Da questo innegabile collegamento fra i due ambiti artistici hanno preso l’avvio diverse scuole di pensiero: da un lato una tendenza rialzista per quel che concerne la cronologia della produzione di bronzetti (che per molti studiosi deve essere circoscritta al Bronzo Finale con labili appendici al I Ferro): la conseguenza di questa scelta è stata, fra l’altro, di rinchiudere le prospettive di un confronto per le nostre statue con le sole manifestazioni della piccola plastica bronzea e hanno imprigionato il complesso di Monte e Prama in una sorta di torre d’avorio inespugnabile all’interno della quale la circolarità delle argomentazioni ha preso il sopravvento sulla necessità di inserire questa manifestazione all’interno di quelle correnti che percorrono il Mediterraneo fra la fine del II e la prima metà del I millennio a.C. Dall’altro alcuni studiosi hanno cercato di inserire la produzione toreutica in un quadro temporale di più ampio respiro, connettendolo in ciascuna sua fase con manifestazioni artistiche mediterranee. Ciò ha portato alla ricostruzione di contesti solo in parte più recenti, in relazione alle frequentazioni orientali della Sardegna (a partire dall’XI a.C.), alle successive strutturazioni coloniali (a partire dalla metà dell’VIII a.C.), alle forme di contatto e scambio fra indigeni e mercanti orientali: esse possono fornire a nostro avviso il background culturale (dal lato indigeno) e artistico (da parte dei mercanti) nel quale inserire l’esperienza che ha condotto alla realizzazione di questo complesso. 
A creare ulteriore motivo di definizione di prodotto artistico e culturale sardo (e solo sardo, endogeno) vi è stato sia il collegamento con la scultura architettonica della seconda parte del Bronzo e del I Ferro (stele, betili e decorazioni delle centinature delle tombe di giganti), sia la difficoltà di poter reperire dei confronti adeguati in altre esperienze di area tirrenica e più in generale mediterranea per le nostre statue: si vedano al riguardo i risultati, invero non soddisfacenti, scaturiti in quella parte dedicata ai comparanda per le statue di Monte Prama edita in 1996 e presi, da allora, come “prova provata” di una difficile collocazione delle statue in una fase recente. 
Da quelle esperienze e dalla lucidissima analisi di Lilliu su “La grande statuaria nuragica” che, a oggi, rappresenta il più serio e convincente contributo all’interpretazione di queste statue, diversi passi in avanti sono stati compiuti in diversi settori sia delle relazioni e dei contatti fra culture, sia della ricerca storico artistica in ambiente mediterraneo per i secoli a cavallo fra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C. 
Da un lato, infatti, si vanno precisando con sempre migliore accuratezza i processi di esplorazione e frequentazione del Mediterraneo centro occidentale da parte di mercanti e pionieri orientali (intendendo con questo termine tutto ciò che si disloca a Oriente della penisola italiana), che precede e segue la strutturazione coloniale greca e fenicia in Italia, per quel che maggiormente interessa in questa sede, in area tirrenica; dall’altro proprio dall’area tirrenica provengono una serie di stimoli a considerare i fenomeni di grande statuaria come il frutto di un contatto, di uno scambio o, ancor meglio, l’esito di un gift trade fra mercanti orientali e popolazioni italiche, in particolare delle nascenti compagini urbane dell’Etruria tirrenica e di area felsinea. In altre parole in area tirrenica si è tentato di ricostruire il percorso, o meglio i percorsi, che hanno portato fra la fine dell’VIII e il VII a.C. alla realizzazione di grande statuaria in pietra (da quella di Ceri e Veio a quella di Casale Marittimo, di Vetulonia, e più in generale alle esperienze della statuaria dell’Etruria centro settentrionale e delle stele felsinee). Dunque la ricostruzione di un processo all’interno del quale appaiono comunque predominanti i desiderata e le volontà della committenza rispetto all’abilità e alla techne portata dagli artigiani (fig. 7). 
La ricostruzione di questi processi ha fatto anche compiere ulteriori passi in avanti nella interpretazione dei complessi monumentali, in particolare nel campo dell’elaborazione di complessi artistici (che sottintendono scelte culturali) coerenti, da leggere e interpretare come programmi in una sintonia che si stabilisce fra committente e artigiano: da questo punto di vista le scuole bolognese, perugina, romana, napoletana e salernitana (in stretto ordine geografico) hanno contribuito in maniera determinante alla lettura e alla interpretazione dei complessi monumentali che dal Ferro scandiscono la storia artistica e culturale dell’Italia preromana. 
È proprio nel solco di queste linee programmatiche che vorrei proporre una serie di riflessioni: premetto subito che esse non possono offrire soluzioni ai problemi di cronologia quanto piuttosto si prefiggono di considerare l’aggregazione di statue, modelli di nuraghe, betili e altro all’interno di un unico contesto che nasce in un determinato momento della storia e per determinate ragioni che tenteremo di evincere e inter-pretare in questa sede. 
Nel nostro percorso appare necessario operare alcune distinzioni fra diversi livelli di lettura, di analisi e d’interpretazione. Il primo livello è quello che potremmo definire tecnico e della lavorazione della pietra; il secondo potrebbe essere quello del riconoscimento di uno stile che riguarda le statue, della definizione della bottega ovvero dei “cervelli di artigiani” che le concepiscono; il terzo potrebbe essere quello del confronto iconografico dei singoli pezzi; il quarto potrebbe essere quello della ricostruzione di un programma unitario che porta alla realizzazione di tutto il complesso statuario. È bene ricordare fin da questo momento che l’artigiano, o la bottega di artigiani, non occupa in questo caso una posizione dominante rispetto alla committenza nella realizzazione del progetto: al contrario essa appare, ai miei occhi, in certo modo subalterna alla figura dei committenti che dettano e definiscono il racconto di una loro storia attraverso queste statue.
Riguardo al primo livello, anche a una prima sommaria osservazione non si può non notare il grande sforzo tecnico prodotto sulle sculture. Esso si può seguire lungo due direttrici: quella della composizione generale delle statue come dei modelli di nuraghe; quella della decorazione, assai spesso calligrafica che definisce particolari delle vesti e delle attrezzature di ciascuna statua. Da questo punto di vista lo strumentario deve essere stato molto ampio con forme di specifica specializzazione che assecondasse lo sforzo di rendere in maniera plastica tanto i corpi (fig. 8), quanto gli attrezzi portati dai guerrieri, tanto le parti accessorie riccamente ornate (fig. 9). Al plasticismo connaturato alla realizzazione dei corpi, al plasticismo calligrafico che connota le chiome e al geometrico rigore che permea le acconciature, gli armamenti e le vesti fa da contraltare uno schematismo esasperato che connota l’elaborazione dei volti di tutte le statue (fig. 10): uno schema netto e ripetitivo, fatto di tagli delle arcate sopraciliari e dei nasi, del taglio di piccole dimensioni e rettilineo della bocca, del bassorilievo per cerchi concentrici degli occhi, quest’ultimo avvenuto attraverso l’uso di cerchi applicati alla superficie e realizzati con una punta secca. Ciò crea un voluto distacco fra volto e resto del corpo rendendo apparentemente chiara la volontà della committenza trasmessa all’artigiano di plasmare figure diverse da quelle reali, quasi che non appartenessero a questo mondo ma a un mondo altro (fig. 11). La vicinanza di questa resa del viso con il bronzetto del demone con quattro occhi e quattro braccia mi ha suggerito di ipotizzare la loro pertinenza a un “mondo altro”.
Quel che si vuole sottolineare in questa sede è la necessità di riconoscere nell’esecutore di tali statue, che sembrano essere il prodotto tecnico di un’unica mente e forse di un’unica mano, un capo artigiano assolutamente specializzato nella grande scultura in pietra, padrone della tecnica scultorea in pietra: da questo punto di vista esiste un divario importante fra la sua techne e quella dei fabbri (o demiurghi) che lavoravano il metallo. 
Il precedente excursus sul mondo tirrenico e sul rapporto fra committenza e artigiano rappresenta a mio avviso il punto di partenza anche per cercare di ricostruire il processo che ha portato alla composizione di questo complesso monumentale. Innanzi tutto possiamo ricordare con Morris che nel Mediterraneo tutte le forme di prima grande scultura siano connesse alla sfera funeraria, tanto nel mondo greco, che in quello italico e iberico. Questa peculiarità potrebbe accomunare anche la Sardegna a quelle esperienze. Esiste un’altra caratteristica che potrebbe essere utile per lo svolgimento delle nostre riflessioni: ovvero che la stragrande maggioranza delle esperienze sopra citate fanno riferimento a un rapporto fra committenza locale e artigiani provenienti da mondi “altri”. 
Il prodotto che essi elaborano risente in qualche misura delle loro origini ma il messaggio che veicolano è certamente quello della committenza con il portato di tutti i valori sociali e culturali che vogliono esprimere. Da questo punto di vista ciascuna delle esperienze ricordate va annoverata come “momento unico” frutto di un rapporto personale che s’instaura fra la committenza (in quel caso i principes etruschi) e il dono ricevuto di una techne che può essere quella di un vasaio, di uno scultore, di un artigiano dei metalli o dell’avorio. Questo particolare rapporto serve anche a spiegare l’unicità delle realizzazioni, fra loro molto differenti e difficilmente confrontabili, e a gettare luce sulla capacità culturale e sociale della committenza di imporre il proprio messaggio e il proprio programma. 
D’altra parte esistono per il complesso in esame delle peculiarità da non sottovalutare: 
a) il fatto di concepire e realizzare delle statue litiche di dimensioni maggiori del vero (dei kolossòi) e con immagini antropomorfe mi sembra sia un fattore di assoluta novità nel panorama sardo non diversamente da quanto avviene in altre parti del Mediterraneo; 
b) conseguentemente la stessa iconografia mi pare qualcosa di profondamente nuovo nel senso che non mi pare si conoscano figure di arcieri, pugilatori, personaggi armati di scudo rotondo, in una statuaria antropomorfa che per il periodo preso in esame assomma esemplari in numero assai circoscritto. Può Monte Prama avere una collocazione ed essere messo in relazione e confronto con le altre esperienze del Mediterraneo? 
Vista in questa luce possiamo comprendere bene come gli sforzi nel corso degli anni Novanta del secolo scorso siano risultati deficitari e come la possibilità di cercare confronti fra queste statue e altri complessi scultorei di area italica o più in generale del Mediterraneo siano stati poveri di risultati. Dall’altra parte diviene anche comprensibile come il repertorio di riferimento non possa che essere quello della piccola plastica in bronzo le cui rappresentazioni, rinvenute in contesti funerari o cultuali, sono portatrici di messaggi e programmi non dissimili da quelli presenti a Monte Prama. Da questo punto di vista va discusso l’annoso problema del rapporto fra grande statuaria e piccola toreutica in bronzo: in altre parole, e con bonaria ironia, esso potrebbe essere racchiuso nella domanda “prima la gallina o prima l’uovo?” Infatti una parte degli studiosi di più stretta matrice protostorica dà per assodato che le esperienze della piccola toreutica bronzea siano alla base e forniscano i modelli per la grande statuaria litica. Alcune voci escono fuori dal coro e se non sbaglio proprio Lilliu, nel suo già ricordato contributo sulla grande statuaria nuragica, ricorda a proposito dei pugilatori che è la grande statuaria in pietra che offre solitamente il prototipo per altre espressioni artistiche di minori dimensioni. Parallelamente il modo di procedere nella lavorazione di una piccola statua di bronzo e quello di una grande statua appare profondamente differente e mi pare difficile poter affermare che un demiurgo della toreutica in bronzo possa essere stato l’artefice anche di una statua litica di dimensioni ben maggiori rispetto al vero. 
A prescindere da questa domanda, di risposta peraltro difficile visti i dati a nostra disposizione, si possono riconoscere certamente dei confronti calzanti fra le statue e la piccola bronzistica: l’arciere ritratto nell’atto di scagliare il dardo, a riposo o con l’arco in spalla ha diversi confronti; il guerriero con scudo tondo frontale è anche ben presente nel repertorio della piccola toreutica; il pugilatore è anch’esso attestato fra i bronzetti ma non rientra in categorie pertinenti alla guerra, visto che Lilliu lo classifica come cuoiaio (fig. 12).


Fonte: XVII International Congress of Classical Archaeology, Roma 22-26 Sept. 2008 Session: Testo, immagine, comunicazione: immagine come linguaggio Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale D / D2 / 7 Reg. Tribunale Roma 05.08.2010 n. 330 ISSN 2039 - 0076

COMMENTI ALL'ARTICOLO SU HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM
In attesa di conferma o di smentita da parte dell'autore dell'articolo, segnalo che l'arciere ritratto nell'atto di scagliare il dardo è un'evidente forzatura simbolica. Nessun arciere che si rispetti assumerebbe quella posa.
Restauro voluto da A. Boninu? falso. Fu fortemente voluto dall'indimenticato Francesco Nicosia, discusso, odiato/amato soprintendente sassarese con un passato di soprintendenza a Firenze e di ispettore ministeriale. Sono amico di Antonietta Boninu, grande donna, ottima archeologa, a cui si deve la sistemazione del Museo di Porto Torres dove si prodigò molto; ma il restauro delle statue no, fu voluto da Nicosia e poi seguito da Boninu. Questo per amore della verità.

domenica 26 maggio 2013

Templio a pozzo Su Tempiesu di Orune

da http://ilpopoloshardana.blogspot.it/

di Marcello Cabriolu

Templio a pozzo - F.Selis Photo Archive

Il monumento venne scoperto nel 1953 dai Sig.ri Sanna, proprietari del terreno che in origine si chiamava “Sa Costa de sa Binza”, mentre cercavano di terrazzare il fianco del monte per impiantare un frutteto. 
Il nome “Su Tempiesu” è legato a un mito della zona in cui si parlava di un uomo proveniente da Tempio che, nei primi del ’900, lavorò al taglio dei boschi per produrre carbone. La prima campagna di scavi avvenne nel 1953 ma i resoconti relativi vennero pubblicati solo nel 1958. La necessità di un restauro, vista la progressiva rovina del monumento, richiese un intervento della Soprintendenza Archeologica che durò dal 1981 al 1986 e fu gestito dalla Prof.ssa Maria Ausilia Fadda, attraverso il quale venne intrapresa un’indagine più approfondita. 

Particolare del pozzetto di captazione - F.Selis Photo Archive
Si scoprì allora che le genti preistoriche avevano individuato la presenza della falda d’acqua che scaturiva dalla roccia scistosa, e vi avevano eretto la costruzione a pianta rettangolare. Utilizzando della trachite e lavorandola a martellina, gli Shardana crearono, addossata alla roccia, una struttura templare con tetto a doppio spiovente che rispetta il principio edilizio dei nuraghi: il muro a sacco. La rifinitura dei pezzi del tetto venne curata in maniera esagerata, risparmiando solamente quelle che ora vengono definite “bugne” ma che in origine dovevano essere lunghe corna riprodotte in onore della Dea Madre, come si fece nel Pozzo Sacro di Perfugas. 
Particolare dello spiovente e del timpano - F.Selis Photo Archive

Residui dell'apice del timpano - F.Selis Photo Archive

Il prospetto venne rifinito con una sorta di cornicetta, il timpano, di forma triangolare, che presentava degli incavi in cui vennero trovate infilzate delle spade di bronzo, dal basso verso l’alto, fissate con colate di piombo. Sotto il timpano venne lasciato uno spazio vuoto, di luce triangolare, dove vennero posti due archi in pietra a soprastare il vestibolo del pozzo. Il piano di calpestio venne completamente lastricato lasciando lo spazio per una canaletta d’acqua e il deflusso del pozzo. Ai lati del vestibolo vennero ricavati i sedili e il pozzetto venne incorniciato con un portello e una soglia con beccuccio adduttore corrispondente alla canaletta di scolo.
 L’imboccatura del pozzetto venne strombata verso l’esterno e dotata di gradini simbolici verso il pozzetto di captazione e la parte superiore architravata con gradoni rovesci. Al momento della scoperta e del restauro si notò che tutti i conci e i blocchi erano saldati tra loro da verghe di piombo, addirittura nel pozzetto i lati erano stati rivestiti di piombo per evitare la fuoriuscita dell’acqua. Alcuni studi sostengono che il tempio fosse in origine circondato da un recinto, ma osservando la struttura viene spontaneo ritenere che anticamente esso fosse cupolato a tholos e solo dopo fosse stato ristrutturato a doppio spiovente.


Concio scolpito - F.Selis Photo Archive
Recinto con bacile - F.Selis Photo Archive

 L’area antistante il vestibolo rivelò un recinto curvilineo che alla base, nel punto in cui scolava la canaletta, terminava in un bacile in pietra con beccuccio per un ulteriore scolo. Affianco è presente un concio, inserito nel muro della struttura, che riporta un viso scolpito con le sembianze della divinità, ovvero l’arcata sopraccigliare e il setto nasale ben marcato. Il bacile fu oggetto di deposito di numerosissimi oggetti in bronzo quali spade, bottoni, bracciali, stiletti, anelli e bronzetti mentre l’esplorazione stratigrafica dei vani del complesso ha riportato alla luce due ambienti ben definiti usati da deposito per gli ex-voto rimossi dal pozzetto.


Particolare del timpano - F.Selis Photo Archive


Templio a pozzo Su Tempiesu di Orune 
 di Marcello Cabriolu
 F.Selis Photo Archive 


Realizzazione e montaggio : Federica Selis

Testi :  Marcello Cabriolu
Voce :  Federica Selis
Immagini :  Federica Selis Photo Archive

venerdì 24 maggio 2013

I TUMULI NELLA SARDEGNA PREISTORICA E PROTOSTORICA - 3° e ultima parte

daHTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM
Atti del convegno internazionale
Celano, 21-24 settembre 2000

Tumuli e Tombe Megalitiche in Gallura
di Angela Antona



Concludiamo la panoramica sulle sepolture, dopo gli articoli pubblicati i giorni scorsi  1° parte e  2°parte, con la zona gallurese.
Nell’articolato panorama dei fenomeni culturali preistorici e protostorici della Gallura si annovera una serie di monumenti funerari, nei quali il tumulo costituisce una componente determinante. Va precisato che la carenza dei dati di scavo non consente di valutare né la qualità, né l’entità del qualificante
elemento in alcuni dei monumenti presi in esame. Metodologie proprie del tempo a cui risale lo scavo, infatti, spesso non hanno consentito di tramandare fino a noi situazioni chiare o notizie sufficienti a
riconoscere la presenza funzionale o cultuale del tumulo, né le sue caratteristiche. Nel ristretto ambito geografico del quale si parla, il termine »tumulo« va inteso, perciò, nei due significati conferitigli dall’uso: da un lato finalizzato a ragioni di statica delle strutture del sepolcro vero e proprio; dall’altro,
come elemento legato a credenze e rituali, dove finalità pratiche e cultuali risultano strettamente connesse.
I circoli funerari
La comparsa del tumulo appartiene, in Gallura, ad una delle più antiche manifestazioni di architettura
funeraria megalitica presenti nell’isola. Si tratta della necropoli neolitica di Li Muri (Arzachena, SS), scavata da Puglisi e Soldati tra il 1939 e il 1940 33. Essa si compone, come è noto, di una serie di tombe a cista litica, ciascuna originariamente ricoperta da un tumulo del quale resta solo la base di pietre, contenute all’interno di una delimitazione circolare a lastre infisse verticalmente. Piccole ciste per offerte, insieme ai menhir, uno per ogni tomba, inseriti nel cerchio perimetrale del tumulo o esterni ad esso, costituiscono gli elementi del culto. In particolare, nello spazio delimitato fra i punti di tangenza di quattro tumuli, due menhir aniconici ed una cista devono aver assolto la loro specifica funzione
cultuale fino alla costruzione della tomba n. 2 che li ha resi inaccessibili. Cassette per offerte presenti anche in altri punti della necropoli, sempre in posizione esterna ai circoli, fanno pensare che esse, insieme ai menhir, dovessero essere predisposte in funzione dei rituali di sepoltura piuttosto che di successive offerte periodiche. L’ipotesi è suggerita dalla condizione di impraticabilità nella quale dovevano trovarsi i suddetti elementi se, come suggerito da E. Castaldi, la necropoli si doveva resentare, nel suo complesso originario, composta da una serie di collinette l’una all’altra tangenti.
Oltre che riuniti in necropoli, si riscontrano in Gallura anche sepolcri isolati riconducibili al tipo in questione. Un esempio di particolare monumentalità è quello di La Macciunitta, sempre in agro di Arzachena. Anche qui, alcune lastre frammentarie presenti all’esterno del tumulo parrebbero pertinenti ad una cassetta per offerte, mentre sembra da interpretare come menhir un monolito oblungo, ora rovesciato, compreso fra le pietre della base del tumulo. Come si può osservare dalla pianta dei sepolcri galluresi, la loro forma conchiusa implica la non praticabilità del vano sepolcrale una volta deposto il defunto. In considerazione della qualità e quantità dei resti scheletrici rinvenuti e delle dimensioni delle ciste, è stato osservato che dovessero essere destinati ad una, massimo a due inumazioni in deposizione primaria. Il giornale dei lavori del ‘39, redatto da Soldati, descrive con dovizia di particolari lo scavo della tomba n. 4, nella quale fu possibile distinguere due livelli di deposizione,
separati l’uno dall’altro da »sottili lastroni granitici posati orizzontalmente«.
I materiali descritti nel giornale di scavo di Soldati consistono in: teste di mazza in steatite (3 nello strato 1°, 3 nello strato 2°, coltellini in selce ed ossidiana, accettine e piccozze amuleto (rispettivamente 145 e 283), vaghi di collana di varia forma (rispettivamente 90 e 83) e dischetti di lavagna (rispettivamente 36 e 175). Dal 1° strato proviene anche »un lisciatoio in pietra verdognola« con tracce di ocra rossa, la stessa della quale recavano tracce gli »oggettini amuleto«. Dallo strato 2°, un »vasetto in terracotta nerastra lucida, non presenta tracce di decorazione«. I materiali sono conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, in parte esposti.
L’omogeneità dei materiali rinvenuti nei due livelli non consente di stabilire se le due inumazioni possano essere avvenute in un unico momento o distanziate nel tempo. Nell’una o nell’altra ipotesi, sarebbe stato interessante conoscere il tipo di copertura delle ciste funerarie, trovate sempre prive dell’eventuale lastrone superiore38. Per le ragioni esposte in premessa, non è dato neppure sapere se il tumulo potesse essere composto di sola terra o se comprendesse pietrame di una certa entità e se ricoprisse per intero o meno la cista litica. E’ meritevole di attenzione la distribuzione dei cinque circoli che compongono la necropoli: quattro di essi, infatti, risultano in un unico raggruppamento, mentre il quinto è dislocato in posizione isolata rispetto ai precedenti. Una nuova osservazione della tomba 5 ha peraltro evidenziato caratteristiche diverse nell’ambito della stessa necropoli, sia dal punto di vista strutturale che concettuale. Non si tratta, infatti, di una cista litica, bensì di una tomba che per le sue caratteristiche potrebbe essere assimilata alle allèes, ma per le sue ridotte dimensioni sembra più appropriato definire genericamente »a camera«.
) Lunghezza m 2,10; larghezza m 0,80; profondità m 0,60.
Il vano di sepoltura risulta ad una quota inferiore di una sessantina di centimetri dal piano di calpestìo; è scavato, cioè, nel terreno e foderato all’interno con una serie di blocchi appena sbozzati, posti di taglio a formare una pianta rettangolare leggermente ad U. Solo la parete di fondo è chiusa da un unico blocco, mentre una pietra appoggiata superficialmente, e pertanto mobile, segna la chiusura del lato E. Marca, poi, la differenza rispetto alle restanti ciste l’orientamento E-O della tomba.
Insieme a queste caratteristiche, si evidenzia un particolare di fondamentale importanza: la conformazione del tumulo che, sviluppato soltanto su tre lati, lascia libero quello orientale, fatto che potrebbe trovare motivazione nella più agevole possibilità di riapertura della tomba. Fra le pietre del tumulo risultano inoltre ampie porzioni di lastre analoghe a quelle che costituiscono le ciste dei restanti circoli. Questo particolare induce a pensare che il sepolcro a camera possa essere stato costruito in luogo di una cista preesistente. L’ipotesi è rafforzata dal rinvenimento di numerosi vaghi di collana in steatite, della tipica forma ad olivella, disseminati all’esterno della tomba. Non si dispone, purtroppo, di elementi che consentano di identificare il momento di costruzione della seconda tomba, mentre una piccola ciotola in ceramica d’impasto con fondo piano e pareti rientranti, rinvenuta all’esterno, accostata a sinistra dell’ingresso, documenta una frequentazione nell’età del Bronzo medio. Pur in assenza di elementi sufficienti a determinare le differenze di carattere cronologico, l’innovazione della sepoltura multipla, se non collettiva, della tomba a camera rispetto a quella singola delle ciste sottende un cambiamento culturale sostanziale ed avvicina la tomba 5 alle consuetudini funerarie proprie dei dolmen e delle successive allées couvertes. Numerosi motivi di affinità legano l’architettura funeraria gallurese a quella della Corsica, dove un rilevante numero di tombe »en coffre« e di dolmen – sia coperti da un tumulo di cui resta soltanto, come in Gallura, la base di pietre, sia contornati da peristaliti – testimoniano lo stretto legame fra le due isole. Come è noto, infatti, la Gallura occupa l’estremo nord della Sardegna, affacciata sulle Bocche di Bonifacio che la separano dalla Corsica con un tratto di mare di appena otto miglia. Tale distanza, in condizioni meteorologiche favorevoli, si copre facilmente in breve tempo, trasformando il braccio di mare in un trait d’union più che in un motivo di divisione fra le due isole. Non è dunque casuale se Gallura e Corsica meridionale hanno spesso condiviso manifestazioni culturali fra le quali, appunto, il fenomeno megalitico.
Le aree di concentrazione dei monumenti in questione fanno supporre l’esistenza di relazioni strette a tal punto da lasciare intuire una presumibile unità culturale corso-gallurese. Le necropoli di Tivolaggio e Vascolaggio, nella regione di Porto Vecchio e, nei pressi di Figari, i complessi funerari di Poghjaredda – Monte Rotondu (Sotta) (fig. 3) e di Capu di Logu ((Belvedere – Campomoru) presentano infatti caratteristiche strutturali assimilabili a quelle delle tombe di Li Muri. Con queste ultime, quelle di Porto Vecchio condividono anche il tipo di oggetto che caratterizza i corredi funebri: il pomo sferoide in steatite, che insieme alla coppetta dello stesso materiale e ai vaghi di collana ad olivella, su basi
di cronologia relativa portano all’ambito del Neolitico Medio e comunque precedente la cultura di Ozieri.
Pomi sferoidi in pietra verde provengono anche da Su Cungiau de Marcu (cfr. Ferrarese Ceruti 1974, 268; Atzeni 1975, 6).
Questa classe di oggetti fu spesso indicata come elemento comprovante la matrice egea del fenomeno culturale dei circoli (cfr. Puglisi 1942, 135; Atzeni 1975, 49; 1981, XL; 1987, 393; Lilliu 1988, 68). In realtà, la loro presenza è documentata
in contesti del Neolitico cretese, mentre sono del tutto assenti nelle Cicladi (Usai A. 1986, 369). Stringenti confronti sono invece riscontrabili nell’area occidentale (vedi nota precedente) ed in Corsica (Grosjean 1964, 26). Sono inoltre documentati in
contesti della cultura di Ripoli (Radmilli 1974, 360).
E’ nota l’annosa discussione relativa al rapporto fra quest’ultima e la cultura gallurese, particolarmente dopo che la scoperta della necropoli e degli allineamenti di menhir protoantropomorfi di Pranu Muttedu (Goni, CA), riferiti a momenti maturi della cultura di Ozieri, indussero a ricondurre a quest’ultima anche la cultura gallurese.
Un esame puntuale dei due complessi monumentali fa emergere, invece, differenze sostanziali che, pur ricorrendo le caratteristiche del circolo e del presunto tumulo, sottendono diversità marcate anche nei rituali. La semplicità dei tumuli con cista quadrangolare a lastroni ortostatici di Li Muri, compresi entro circoli conchiusi, assolutamente privi di accessi o di suddivisioni spaziali, appare lontana dalle articolate elaborazioni delle tombe di Pranu Muttedu. Queste contengono, all’interno della struttura circolare, domus de janas, celle con portello d’ingresso e fondo absidato, ampie ciste quadrangolari in muratura e camere subtrapezoidali precedute da un’anticella ellittica e da un corridoio d’accesso a lastroni ortostatici. Sostanziale appare l’estraneità, nella necropoli gallurese, del concetto della costruzione ipogeica a domus de janas, che caratterizza invece quella di Goni. Schemi e piante canoniche dell’architettura di Ozieri sono espresse, infatti, negli articolati esempi di domus monolitiche accuratamente scavate e meticolosamente rifinite a martellina. Alle differenze che si rilevano fra le due necropoli in questione fanno riscontro le divergenze nei materiali culturali; ceramiche decorate e manufatti litici restituiti dalle tombe di Pranu Muttedu hanno infatti dimostrato la loro appartenenza alla cultura di Ozieri, ma non trovano confronti con quelli di Li Muri, fatta eccezione per alcuni pomi sferoidi in steatite verde. Del tutto assenti, ad esempio, i vasi in pietra, la cui presenza nei circoli di Arzachena offre indicazioni cronologiche e culturali precedenti la cultura di Ozieri. L’autonomia del fenomeno dei tumuli galluresi rispetto a quest’ultima sembra indicata anche dalle nuove acquisizioni in merito. In particolare, materiali decorati nelle sintassi tipiche di Ozieri, sia da siti abitativi che funerari, hanno ormai dimostrato la diffusione di questa cultura anche in Gallura. L’assenza nei circoli di Li Muri di materiali appartenenti ad essa non sembra perciò trovare valide giustificazioni se non dell’appartenenza di questi ultimi ad un diverso ambito culturale.
L’ipotesi è rafforzata soprattutto dalla recente attribuzione alla cultura di Ozieri dei dolmen e dell’allèe di Luras. Il dato potrebbe confermare l’impressione che l’assenza, in quasi tutta la Gallura, delle domus de janas possa essere motivata dalla maggiore propensione della regione all’adozione del modello megalitico,perché consono al suo substrato culturale; ma soprattutto, perché inserita, insieme alla Corsica, nel circuito europeo del megalitismo occidentale. La presenza del tipo tombale ipogeico, peculiare della cultura suddetta, è infatti limitata alla fascia di territorio gallurese confinante con l’Anglona, dove l’ipogeismo funerario di Ozieri è diffuso nella varietà di forme che lo caratterizzano. Potrebbe non essere esclusa una reciprocità degli scambi ed influssi culturali fra le due regioni confinanti, come può essere suggerito dalla presenza, nel territorio di Perfugas, di strutture a circolo ancora di funzione incerta, di dolmen e di domus de janas con corridoio dolmenico, risultato, queste ultime, della mediazione fra ipogeismo e megalitismo del Neolitico recente55. Non vi sono elementi sufficienti per chiarire la funzione dell’accumulo di pietrame di piccole dimensioni del quale si sono notati i resti attorno ai dolmen di Billella e Alzoledda (Luras, SS). Potrebbe trattarsi, probabilmente, di una sorta di drenaggio delle acque piovane, vista l’impermeabilità del terreno, ma non si può neanche escludere che si tratti dei resti di un tumulo, la cui presenza è attestata nell’isola anche in altri dolmen.
Fanno peraltro supporre la presenza di un peristalite alcuni elementi individuati attorno al dolmen di Alzoledda58. Anche quello di Ciuledda (Luras), interamente appoggiato sul piano di roccia e privo di fondazione, conserva tracce di un accumulo di pietrame. In questo caso, la funzione pratica di rinforzo statico, soprattutto alla base del lastrone di chiusura della parte posteriore, sembrerebbe prevalere su quella prettamente cultuale.

Le tombe di giganti
L’uso del tumulo nell’architettura funeraria appartiene anche alla Gallura nuragica, tanto da indurre a riconoscerne un richiamo ad essa nella diffusa consuetudine di sigillare, con un accumulo di pietrame, le sepolture in tafoni ed anfratti caratteristici del granito. Ma è soprattutto nelle tombe megalitiche, dalle allées couvértes alle tombe di giganti, che il tumulo costituisce un elemento ricorrente, spesso caratterizzato da connotazioni specifiche. Trattandosi di monumenti di grande evidenza, solo motivazioni di particolare significato possono giustificare l’obliterazione, mediante la creazione del tumulo, del corpo della tomba, costituito da solide murature a doppio paramento che compongono un edificio rettangolare con angoli smussati, o con fondo absidato. Il processo evolutivo dell’architettura funeraria che, prendendo le mosse dall’allèe couvérte, giunge allo sviluppo tipicamente sardo della tomba di giganti, è ben documentato, come è noto, nei monumenti di Coddu Vecchju e di Li Lolghi di Arzachena, scavate alla fine degli anni Cinquanta. Nella prima è stata riconosciuta un’allèe couvérte cui è stata aggiunta, in età nuragica, l’esedra. La tomba appare oggi con un paramento murario a vista, attualmente priva del tumulo che la ricopriva. Nella relazione di scavo, però, si legge che questo fu asportato nella misura di »quaranta metri cubi di terra e pietre «. Nell’esempio di Li Lolghi, oltre che dall’esedra monumentale, la maestosità del monumento è ulteriormente accresciuta dal grande tumulo che ingloba un’architettura complessa, frutto di riutilizzazioni ed ampliamenti di strutture precedenti. L’ allèe couvèrte presente nella parte terminale della tomba citata ha conservato anche nella nuova definizione del Bronzo Medio l’originale contorno peristalitico. Alla luce dei dati emersi dagli scavi di altre tombe negli anni successivi, è stato possibile osservare la correlazione fra la collina artificiale del tumulo e le caratteristiche dell’esedra. Nelle differenze strutturali di entrambe sembra di dover riconoscere diversi gradi di evoluzione, attraverso i quali si coglie il maturare dell’esigenza di maestosità che caratterizza l’architettura in questione e che diventa particolarmente evidente nella creazione dell’esedra, sia essa ad ortostati o a filari. In relazione a questa, il tumulo contribuisce ad accrescere il senso di grandiosità complessiva, ma la sua funzione cultuale sembra prevalere su quella inizialmente preminente dell’imponenza, quindi della visibilità. In alcuni casi nei quali è assente la monumentalità dell’area cerimoniale, si ha infatti l’impressione che le due braccia di delimitazione di quest’ultima assolvano la precipua funzione di contenimento del tumulo, evitando il suo dilavamento verso tale area. In questa ipotesi, può essere indicato un esempio nella tomba Moru (fig. 4), il sepolcro del nuraghe Albucciu di Arzachena, dove il senso di maestosità dell’esedra è ben lontano da quello delle tombe prima citate. Si nota, infatti, una certa cura nel taglio e nella disposizione verticale dei blocchi che delimitano l’ingresso e che costituiscono, peraltro, il lato di prospetto del corpo del sepolcro. Le braccia quasi orizzontali dell’esedra sono ottenute, invece, con blocchi appena sbozzati, solidamente affondati nel terreno e rincalzati, privi, però, di qualunque intento di imponenza o, ancor meno, estetico. Le caratteristiche di accumulo »ragionato« del tumulo, costituito da pietrame ben legato nella disposizione degli elementi litici che lo compongono e che lo hanno reso, fra l’altro, duraturo nel tempo, ottengono gli effetti della monumentalità. L’inscindibile connessione fra il tumulo e la struttura dell’esedra trova un esempio particolarmente significativo nelle tomba di giganti di Pascaredda (Calangianus, SS), nell’altipiano di Tempio Pausania, scavata di recente. Si tratta di un monumento ben conservato nelle sue diverse componenti: un corpo rettangolare con angoli smussati, molto simile a quello di Coddu Vecchiu. A quest’ultima tomba è assimilabile anche la tecnica muraria di tipo dolmenico nel paramento interno, a filari in quello esterno. Nella parte terminale del corridoio di sepoltura si ripete, invece, lo schema dello spazio scompartito in due piani da una lastra disposta orizzontalmente a formare una sorta di edicola, analogamente a quanto si riscontra nella tomba di Li Lolghi. L’esedra monumentale è priva della parte superiore della stele, originariamente costituita, probabilmente, da due lastroni sovrapposti come quella di Coddu Vecchiu, benché le linee di contorno e la fascia a bassorilievo della parte residua l’avvicinino maggiormente a quella di li Lolghi. Il corpo della tomba è completamente coperto da un tumulo di terra e pietre che attualmente lascia in vista soltanto la serie di dodici lastroni di granito della copertura. Tale tumulo, dall’aspetto di una collina dai profili obliqui, si appoggia alle lastre verticali dell’esedra, degradando verso i suoi lati. Esso è composto in un innalzamento graduale di pietre ben disposte, coperte di terra che, per dare all’accumulo una maggiore consistenza, doveva essere progressivamente bagnata durante la costruzione, consentendo una maggiore compattazione della massa. Il dilavamento e le manomissioni che la tomba ha subito nel corso dei millenni non consentono di avere certezze sull’aspetto e la consistenza della parte superiore terminale del tumulo. Alcune particolarità emerse dall’osservazione della tomba portano a pensare che l’elemento in questione dovesse giungere fino alla base della copertura, lasciando libera almeno una parte di essa, oppure, che si concludesse superiormente con l’utilizzazione di sola terra per renderne più facile la sua rimozione. L’ipotesi è suggerita dal fatto che fra i dodici lastroni che compongono la copertura, si apre, a circa metà del loro corso, uno spazio nel quale sembra di dover riconoscere una precisa funzione. I due lastroni che lo delimitano, infatti, presentano l’uno la superficie esterna obliqua, sbiecata verso tale vuoto; l’altro una scanalatura trasversale per tutta la sua lunghezza, atta ad accogliere un elemento probabilmente ligneo, che doveva facilitare lo scorrimento di una sorta di botola. Il pensiero corre subito alla poca funzionalità dei minuscoli portelli presenti alla base delle stele delle tombe di giganti, una volta accertato, come è noto da diversi scavi, l’uso della deposizione primaria. Prende dunque consistenza l’ipotesi che la deposizione dei defunti dovesse avvenire dalla parte alta della camera, eventualmente con la rimozione del tumulo limitatamente alla porzione necessaria per la manovrabilità dell’elemento mobile della copertura. A questa ipotesi sembra dare sostegno anche la situazione riscontrata nella tomba Moru, dove i materiali relativi alle ultime deposizioni, riferiti al Bronzo Finale, sono stati rinvenuti nella parte terminale del corridoio di sepoltura, ad una quota sottostante i lastroni di copertura di appena una sessantina di centimetri.
Appare poco probabile, dunque, che tali deposizioni possano essere avvenute percorrendo l’intero sepolcro con i suoi inumati; sembra più plausibile supporre che uno o forse più elementi della copertura tabulare potessero essere facilmente rimossi per consentire le inumazioni. Il sistema riscontrato a Pascaredda potrebbe infatti essere esteso, come principio, anche alle altre tombe di giganti con copertura del tipo suddetto. In questa ipotesi potrebbe trovare spiegazione la frequente mancanza di una precisa sequenza nella disposizione degli inumati notata nelle tombe di giganti di Lu Brandali e di La Testa, pur nella prevalente orientazione dei corpi secondo il maggior asse del corridoio sepolcrale, col cranio verso il fondo e le estremità inferiori verso la parte frontale della tomba. In entrambi i casi citati, inoltre, soltanto nella parte terminale dei rispettivi corridoi sepolcrali, era presente un accumulo di ossa disposte a ridosso del lastrone verticale di chiusura, in evidente deposizione secondaria dovuta, con ogni probabilità, alla necessità di fare spazio alle nuove inumazioni.

L'immagine della tomba Coddu Vecchio ad Arzachena è della redazione.

giovedì 23 maggio 2013

I TUMULI NELLA SARDEGNA PREISTORICA E PROTOSTORICA - 2° parte di 3


Atti del convegno internazionale
Celano, 21-24 settembre 2000


La protostoria       
di Fulvia Lo Schiavo

da HTTP://PIERLUIGIMONTALBANO.BLOGSPOT.COM

Se si ritiene importante insistere qui sugli indizi di affinità di rituale megalitico ed ipogeico in tutta la Sardegna preistorica, è anche per tentare di spiegare come accada che nel periodo successivo della piena Età del Bronzo, con la civiltà nuragica, si assista al forte e deliberato recupero di questa base di affinità, con l’elaborazione e l’adozione di un modello generalmente uniforme e, pur nelle varianti tipologiche zonali e cronologiche, universalmente diffuso: la »tomba di giganti«. Con le tombe di giganti, ritroviamo tombe collettive, spesso raccolte da due a sei, non necessariamente nelle immediate vicinanze dell’insediamento, ma sempre di grandiosa visibilità e monumentalità. Soprattutto
nelle forme più antiche, la grande stele centinata svettava al di sopra della camera, delimitata da crepidine e, qualora coperta da tumulo, esso doveva avere dimensioni confrontabili a quello che si può ipotizzare intorno ai dolmen, dunque non »di copertura«, ma di accentuazione di monumentalità e visibilità. In realtà, questa impressione di avere a che fare con giganti deriva già dalle colossali lastre dell’esedra, disposte a semicerchio e di dimensioni scalari, disposte a creare una fronte colossale ed imponente ed una »immagine« tale da incutere riverenza e rispetto. Sull’argomento specifico della ricostruzione dell’elevato delle tombe di giganti, vi sono state accese discussioni ed E. Contu, in particolare, nega recisamente che si possa anche solo usare il termine di »tumulo« da lui definito »improprio«, in quanto ciò che completa l’inclinazione naturale del profilo nella parte superiore esterna del monumento va piuttosto denominato »colmo«. La prova di questa affermazione sarebbe costituita, in primo luogo, dalla tomba monolitica di Su Campu Lontanu di Florinas, che riproduce sulla fronte la stele centinata, mentre la parte superiore è arrotondata a botte; la sua singolarità è dovuta al fatto che la tomba è costituita da un unico masso erratico, isolato spettacolarmente in un campo; ma di tombe singole con camera scavata nella roccia e stele centinata scolpita sulla facciata ve ne sono altre: ad esempio Sas Puntas, Tissi; Molafà, Sassari; Ittiari, Osilo, ed altre che si vanno scoprendo di continuo, talora piuttosto mal conservate, sulle bancate di calcare del Sassarese.
Quale dovesse essere l’effetto dell’insieme, possiamo giudicare, sempre nel Sassarese, dalle necropoli di tombe con prospetto architettonico, in alcuni casi affiancate e coperte con volta a botte, come nello spettacolare caso della serie delle tombe di Ittiari, Osilo, ciascuna sormontata da una sorta di tumulo allungato scolpito nella roccia e con stele centinata sulla fronte. Dunque, tanto nelle tombe di giganti quanto nella loro trasposizione scolpita nella roccia, non si ha un vero e proprio tumulo, ma una tomba monumentale, strutturata in una camera sepolcrale, funzionale all’accumulo delle deposizioni, ed in un’area esterna cerimoniale, funzionale allo svolgimento dei riti collettivi. Si è usato questo termine di »accumulo« per indicare il risultato delle ultime ricerche archeologiche ed antropologiche sulle deposizioni nelle tombe di giganti, che hanno mostrato che i corpi venivano calati dall’alto e deposti ordinatamente, in connessione anatomica, a file ed a strati spesso di qualche centinaio di individui. Il fatto è stato accertato, anche se per ora i casi in studio sono pochi, in tutta l’Isola, da Serrenti nel Cagliaritano (Ugas 1993, 103-115) e dall’Oristanese (Ugas 1990a) fino in Gallura (Tedde 1994).
Dunque in ogni parte, la »collettività«, il gruppo sociale, è quello che appare, soverchiando e cancellando la nozione del singolo e della sua individualità, che non si concretizza neanche in un corredo personale a lui destinato.
Una questione sempre sconvolgente, nello studio della protostoria della Sardegna, è l’assenza di un vero e proprio corredo, come quelli che sono ampiamente ed universalmente documentati nel mondo coevo. Infatti, oltre che mancare le sepolture
individuali salvo che, in pochissimi casi, alla fine dell’età nuragica, all’interno delle tombe collettive il corredo personale era praticamente assente, soprattutto gli oggetti di pregio: un buon esempio è offerto dal »Sepolcro dei Trecento«, dove, pur essendo presente un sigillo cilindrico di olivina (Ugas 1993, 107), esso è talmente usurato da non essere quasi più leggibile, quindi forse deposto nella tomba come grano di collana o elemento decorativo, più che come simbolo di rango sociale
e di prestigio.
Anche nelle tombe di giganti sono presenti soluzioni intermedie fra l’ipogeico ed il megalitico: fra le prime la tomba di Aiodda, Nurallao, con camera infossata e struttura a filari costituiti da statue-menhir reimpiegate come materiale da costruzione; all’esterno essa appare delimitata da un tumulo, funzionale alla copertura del lungo vano sepolcrale fino alla sommità. Parallele nella resa ad effetto delle domus con facciata a stele centinata del Sassarese sono diverse tombe di giganti del meridione dell’Isola, costruite in opera poligonale, ad esempio la celebre Sa Domu ‘e S’Orku di Quartucciu. Gli studi attualmente in corso, per la fase delicatissima per la formazione della struttura socioeconomica propriamente nuragica, relativi specificatamente all’età del Bronzo Recente, hanno constatato che: »Le grandi tombe di giganti del BM sono ancora in uso anche come marcatori del territorio, insieme o in alternanza o addirittura in sostituzione del nuraghe, e ad esse se ne affiancano altre (da 2 a 6) a costituire delle vere e proprie necropoli, segno indiscutibile che questi monumenti funebri, destinati a rituali collettivi, svolgevano, da un capo all’altro dell’Isola, la precisa funzione di indicare insieme il possesso di suoli e la continuità dell’insediamento«.

Domina dunque l’»immagine« della tomba, in questo identica alla nozione di tumulo, anche se non costituito, come si diceva all’inizio »... da un notevole apporto artificiale di materiali sedimentari, come pietre, ghiaia, terra, accumulati a formare un grande cono, una collinetta, di forma circolare o subcircolare.«Per concludere questo excursus generale, corre l’obbligo di menzionare l’unico manufatto in Sardegna che – sulla base della descrizione stessa dell’autore di una parte dello scavo – potrebbe corrispondere alla definizione accettata all’inizio di tumulo, se si eccettua lo sviluppo in altezza, che certamente non si è conservato: Monti Prama di Cabras, nel Sinis di Oristano. Lo scavo è purtroppo ancora inedito; la sommaria presentazione parla comunque di »un’ampia discarica« (in inglese »dump«). Le dimensioni complessive non sono indicate, ma dalla planimetria sembrerebbe di poter calcolare una lunghezza complessiva di una trentina di metri N-S per una larghezza dichiarata di 2 metri verso O. Questo »mucchio« è costituito di pietre medio-piccole di arenaria gessosa, frammiste alle quali sono stati riconosciuti circa 2000 frammenti di statue nuragiche, di betili, di modellini di nuraghi, di lastre e conci di arenaria, oltre a frammenti di bronzo e di ceramiche databili dall’età nuragica all’età romana; lo strato di pietre è a sua volta coperto di terra e tutta questa massa di terra e pietre copre per intero un sepolcreto, costituito di una fila isolata di 33 tombe a pozzetto intatte e coperte di lastre di pietra, contenenti inumazioni individuali di uomini, donne e bambini praticamente privi di corredo, mentre non si estende ad un sepolcreto simile, situato a pochi metri di distanza a N, del quale non si conosce l’entità. I dati forniti non sono per ora sufficienti a chiarire se la »discarica« sia da attribuire a un’esigenza pratica di livellamento del terreno – che nell’insieme si presenta invece alquanto mosso –, oppure ad un deliberato intento di dissacrare l’area cimeteriale – che invece ne è risultata efficacemente coperta –, oppure proprio a quest’ultimo scopo, cioè di proteggere e forse in origine anche di segnalare il luogo delle sepolture, che risulta delimitato ai lati da alcune lastre disposte verticalmente. La cronologia del »mucchio« è data dal materiale ceramico mescolato ai frammenti delle statue nuragiche, ovvero orli di anfore puniche del IV-III. a.C. e coppette dello stesso periodo. Viene anche precisato che i dati di scavo hanno accertato che quando il »mucchio« di terra e pietre è stato accumulato, il sepolcreto – datato al tardo VII.a.C. per la presenza, fra l’altro, di un sigillo scaraboide nella tomba 25 – da molto tempo non era in uso.
Anche ammettendo la possibilità dell’ultima ipotesi, che si trattasse in origine di una deliberata protezione di sepolture mediante l’accumulo di pietre informi in una certa quantità, e dunque qualcosa di simile ad un tumulo – ipotesi che si propone qui per la prima volta ed in forma puramente tentativa – il caso di Monti Prama varrebbe solo a confermare la tesi che si è tentato di svolgere, cioè che la monumentalità del vero e proprio tumulo è estranea alla Sardegna preistorica e protostorica. Infatti questo unico caso possibile - anche se costituito di materiali assai più antichi, provenienti da un vicino santuario nuragico, da lungo tempo distrutto e dimenticato – è ormai di piena età storica, quando le ideologie religiose e la struttura sociale, con l’avvento, dall’esterno, di una civiltà urbana, erano profondamente mutati. 



Tombe megalitiche e tumuli nel Bronzo in Sardegna centrale
di Mauro Perra

L’occasione delle riflessioni che seguiranno mi è stata offerta dallo scavo di due tombe di giganti nuragiche nel territorio di Lanusei in località Selèni, in Ogliastra, nella Sardegna centro-orientale.