lunedì 6 maggio 2013

IÁCCU


di Salvatore Dedòla

IÁCCU. Terzo nome del Dio sardiano, senz’altro il più intrigante, è Iáccu, anch’esso panmediterraneo. ÍaccosἼακχος è pure il nome solenne di Bacco (Diónisos) nei Misteri Eleusini. Ricordo il grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Íaccos era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra, e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele. In alcune tradizioniIaccos è considerato figlio di Bacco, ma in altre i due personaggi sono identici. Nel mondo latino talvolta era identificato con Libero.
Circa l’etimo di IáccuÍaccosἼακχος, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio. Il sardo Iáccu, gr. Íaccos, è lo stesso tetragramma ebraico YHWH, il nome di Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yaḥuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, e anche in parecchi toponimi.
Tale nome sacro appare nella Bibbia 5410 volte a cominciare da Gn 2, 4. Secondo i vari rabbini che hanno pubblicato la Bibbia ebraica (ivi compreso, per l’Italia, Rav Dario Disegni), la vocalizzazione e la pronuncia di YHWHיהוה, non sono note «perché per antichissima tradizione esso non viene mai pronunciato ma sostituito da Adonai, ‘il Signore’». A partire dal XVIII secolo nellaBibbia sono presenti tradizioni compositive differenti che si distinguono per l’utilizzo dei diversi appellativi divini. Ad esempio, nel libro della Gènesi è presente una versione della creazione che utilizza il nome Elohim; nel testo masoretico il tetragramma appare come Adonai. Nel testo greco dei Settanta è scritto Kýrios, aggettivale significante ‘che ha potere, forza, autorità’, tradotto normalmente come ‘Signore’ ma che è meglio tradurre come ‘Potente’. Si badi bene che nei più antichi frammenti greci della Bibbia (I-II secolo a.e.v.) al posto dell’aggettivale citato c’è soltanto il tetragramma ebraico. Invece in altre bibbie greche (come quella dell’Aquila) il tetragramma è scritto in lettere greche. Evidentemente essa è, dopo tali frammenti, tra le più antiche bibbie greche tramandate.
Testimoni di Géova finora sono stati gli unici a parlare con una certa libertà di questo lemma, e ripetono le ovvie considerazioni di alcuni liberi ricercatori anglosassoni (George Howard, Paul Kahle, Sidney Jellicoa), secondo cui nei frammenti più antichi il nome divino è scritto in aramaico, o in lettere paleoebraiche, poi è traslitterato in lettere greche, infine in tutte le restanti bibbie greche il tetragramma è tradotto con Kýrios (κύριος): quest’ultimo lemma denuncia una ovvia innovazione cristiana.
L’interpretazione etimologica del tetragramma (interpretazione ebraica, s’intende) si basa su Esodo 3, 13-14-15, allorchè Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere ed ottenere l’uscita dall’Egitto. «Allora Mosè disse al Signore: “Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: Il Signore dei padri vostri mi manda a voi, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere?”. E il Signore rispose: “Io sono quello che sono” e aggiunse: “Io sono, mi manda a voi”. Inoltre così disse il Signore a Mosè: “Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni”».
Secondo Rav Dario Disegni, «le espressioni di questo verso [14] e del seguente sono oscure forse volutamente. Ne sono state tentate varie spiegazioni, fra le quali è difficile scegliere. In queste parole è, a quanto pare, da vedersi un’allusione al nome divino, che noi non pronunziamo, scritto con le lettere J. H. V. H. che contengono la radice del verbo che significa ‘essere’. L’espressione può significare: l’eternità, l’immutabilità di Dio. Il fatto che Egli è l’Essere, Esistente per se stesso, può voler dire: “Poco importa il mio nome, quello che importa è che Io sono”. Altra spiegazione: L’Essere di cui l’esistenza ha la sua causa in Se Stesso, e non mutua la Sua origine da alcun altro essere».
Henri Serouya (La Cabala 97) scrive che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura: Elohim è ora Yahvé, ora Shaddai. Il nome di quattro lettere, o Yahvé, sembra avere avuto, dall’epoca talmudica, una parte capitale nel misticismo teorico e soprattutto nel misticismo pratico. Il Talmud (Yoma, IIa) dice che un tempo si sapeva pronunciare questo nome e che allora era permesso al saggio di insegnarlo ai suoi figli e ai suoi discepoli scelti, una volta alla settimana. Questo tetragramma, detto anche “nome distintamente pronunciato” (Mishnah Yoma, VI, pag. 2) e “nome unico, proprio” (Sanh., 56aShebuoth, 36a) poteva essere pronunciato solo nel Santuario, dai sacerdoti che recitavano la benedizione sacerdotale (Mishnah Sotà, VII, pag. 6) e dal Gran Sacerdote il giorno del digiuno (Mishnah Yoma, loc. cit.). Secondo un testo di Maimonide “dopo la morte di Simeon il Giusto, i sacerdoti, suoi fratelli, cessarono di benedire con il tetragramma ma benedissero con il nome di dodici lettere”. Questo nome divino, come distaccato da se stesso, tende a costituire un essere in sé. “Prima della creazione del mondo”, dichiara il Talmud, “non vi era che Lui e il suo nome”.
È lampante che l’interpretazione degli Ebrei è una non-interpretazione. Essi, per timore e rispetto alla santità dell’Essere, rinunciano a scandagliare scientificamente il problema dell’etimologia, anzi si rifugiano negli assurdi meandri della cabalistica, e dobbiamo dire che la loro autorevole inazione (o distrazione) ha indotto qualunque altro ricercatore, che fosse laico o ebraico o cristiano, a non immischiarsi nella questione, anzi a rimuoverla.
Se dovessi tentare personalmente una interpretazione etimologica, penso che, con quelle premesse, non riuscirei ad andare lontano. Tenuto conto che gli Ebrei hanno origine sumerica e constatato che la lingua sumerica è la più antica del mondo (tra quelle scritte), mi è forza basarmi sul termine sumerico ia ‘oh’ (una esclamazione, una esortazione), ma dopo questa esclamazione non ho nient’altro da esaminare. Però soccorre meglio l’accadico i ‘let’s, come on, suvvia’ (esortazione simile a quella sumerica), alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫuy-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustificherebbe anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. Questo esortazione-epiteto è, se vogliamo, un fatto normale, diciamo pure banale, anche perché da sempre, e fino ai nostri giorni, ci si è rivolti a Dio esclusivamente mediante l’esortazione (leggi ad es. le varie parti della Santa Messa cristiana).
Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante una esortazione riferita alla Sua potenza infinita, non deve meravigliare, poiché nella Bibbia (e anche nei Vangeli) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile.
Questa vicenda del vero nome personale di Dio, il quale a tutt’oggi permane non-riferibile, anzi addirittura ignoto (perché ignoto è sempre stato, non dimentichiamolo!), è tuttavia mal posta. Tutti i ricercatori brancolano nella cecità totale (una cecità reale, obiettiva, ma ad un tempo esilarante), e si rammaricano di non poter andare più a fondo in questa ricerca. Esilarante e assurda. Non hanno tenuto conto del fatto che Dio, alla precisa domanda di Mosè, non poteva rispondere altrimenti di come ha risposto, dicendo in sintesi che Lui NON AVEVA NOME e che poteva essere invocato soltanto come ‘il Potente’. È esilarante vedere i nostri ricercatori basiti! Eppure basta poco a capire che DIO NON PUO AVERE UN NOME! E perché mai dovrebbe averlo? Egli è Dio, è YHWH, nient’altro! A questo punto, dichiaro chiusa ogni discussione: il volerla tenere aperta è segno di dabbenaggine e di scarsissimo rispetto per la Maestà di Nostro Signore Onnipotente.
E, a dirla tutta, qua non è in gioco soltanto la dabbenaggine e lo scarso rispetto dei ricercatori. Ci aggiungerei, a loro disdoro, anche una dose d’ignoranza. Dobbiamo ammettere che abbiamo spesso proiettato gli studi biblici su uno schermo metastorico, anche perché ne siamo stati forzati dall’esegesi rabbinica, mentre al contrario ogni passo della Bibbia necessita di essere rigorosamente contestualizzato in una precisa fase della storia. Per quanto riguarda le vicende di Mosè e dell’Esodo, non possiamo capirle se non inquadrandole nella temperie culturale dei tempi in cui gli Ebrei vivevano in Egitto. E allora va chiarito che presso gli Egizi il nome personale era sottoposto a un rigorosissimo tabù, non poteva essere mai pronunciato.
L’uomo ha sempre parlato poco, e nel passato – fino a secoli recenti – la parola pronunciata era considerata sacra. Ogni parola pesava come un sasso. Ogni parola un impegno. La parola fu sempre sacra. Nessuno poteva pronunciarla invano, nessuno poteva tradirla. L’origine sacrale del linguaggio impedì per millenni di operare una netta distinzione tra le parole e le cose. L’uomo di Sumer, di Babilonia, del Nilo, della Sardegna precristiana, per quanto acculturato, non si liberò mai dal pensare concreto. Le prime idee astratte furono prerogativa degli antichi Greci, ed il loro apparire, checché se ne pensi, non fu meno rivoluzionario dell’invenzione della ruota.
Possiamo affermare che la storia fu sempre fatta, almeno fino alla Nuova Era, dall’Homo concretus, il quale ha sempre pensato che tra il nome personale e la persona fisica esistesse un legame sostanziale e vincolante, sul quale si poteva agire magicamente. In Egitto si ricordava il mito di Iside, la quale divenne la Dea Madre dell’Universo soltanto dopo aver conosciuto, mediante le sue arti magiche, il vero nome di Ra (del Sole), spodestandolo. L’uomo vide nel proprio nome una parte vitale di sé, e di conseguenza se ne prese cura, ad evitare che gli togliessero la vita. Questo legame vitale fu sentito un po’ da tutti i popoli. Fino ai tempi di Frazer (100 anni fa) tutti questi popoli tennero accuratamente nascosto ogni nome personale.
Presso gli antichi Egizi ogni persona aveva «due nomi, il nome vero e il nome buono o il nome grande e quello piccolo; e mentre il nome buono, o piccolo, era di pubblico dominio, quello vero, o grande, sembra fosse tenuto accuratamente nascosto» (Frazer). Infatti per gli Egizi «il nome era una seconda creazione dell’individuo, innanzitutto al momento della nascita, quando dalla madre viene imposto al neonato un appellativo che ne esprime sia la natura, sia il destino che ella gli augura, ma anche ogni volta che viene pronunciato. Questa fede nella virtù creatrice del Verbo determina tutto il comportamento degli Egiziani rispetto alla morte: infatti, nominare una persona o una cosa equivale a farla esistere al di là della scomparsa fisica, e quindi diventa necessario moltiplicare i segni di riconoscimento. È questo il motivo per cui la cappella funeraria, e in generale il luogo ove si praticava il culto del defunto, racchiudono una somma di indicazioni la più precisa possibile, in modo che il ka possa godere senza problemi di quanto gli è dovuto» (Grimal, SAE 139).
Questa temperie culturale degli Egizi aveva contagiato gli Ebrei; quindi appare assurda la pretesa di Mosè di conoscere il vero nome di Dio. Salvo il fatto che, come ho già detto, Dio non ha nome, non può averlo. E perché mai dovrebbe averlo? A cosa Gli servirebbe? L’uomo, senza accorgersene, continua a trattare Dio come una persona o come una cosa, dimenticando che Dio non è uomo, né cosa, e non può essere nemmeno puro pensiero, come invece ci si ostina a blaterare nella incommensurabile insufficienza del nostro linguaggio. Egli È. Nient’altro. Qualunque altra asserzione è una bestemmia.
Quindi all’uomo basta e avanza l’opportunità d’invocare Dio come YHWH o (che è lo stesso) come Kýrios, il ‘Potente’. Se poi gli Ebrei sono talmente imbalsamati dalla paura di chiamare direttamente Dio, qualcuno dovrebbe aiutarli a capire che gli epiteti da loro inventati per by-passare il tabù hanno esattamente la stessa semantica della parola tabuizzata, sono infatti la tautologia di YHWH.
Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dai Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo, non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca precristiana (salva qualche frase fenicia). E tocca a noi oggi “sgusciare” e “raddrizzare” filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione dei padri.
Per ricuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dal fatto che i preti bizantini fecero tabula rasa della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua assai diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo “zoccolo duro” semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le “dotte” prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-aḫu) era lo stesso San Jacopo o Giacomo, che essi si premurarono da quell’istante di chiamare (guai a sbagliarsi!) con la fonetica sarda: YaḫuYakuYaccuJagu. Fu tale la convinzione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamateSantu JaccuSantu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giágu.
Ma è ovvio che IaccuGiágu non c’entra nulla con san Giacomo apostolo. IaccuGiágu è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma si confronta linearmente con l’ebr. YHWH o YḤWH (leggi i-aḫu), con successiva variante patronimica latineggiante in -iJaci. Quindi anche i toponimi sardi noti come Jaci o Santu Jacirimandano sempre al tetragramma ebraico (e sardo-mediterraneo). Esattamente come il cognome Giágu.
Prima di chiudere la discussione sul tema, va sottolineato che la grande paura degli Ebrei di pronunciare il nome di Dio è – tutto sommato – oltreché paradossale, relativamente recente: data dal 539 a.e.v., quasi 2500 anni, ed è possibile “storicizzarla”, decorrendo dal momento del ritorno babilonese e del rigorismo che ne conseguì. Ai tempi del Primo Tempio gli Ebrei invece praticavano una religione più ariosa e con meno tabù; ciò è dimostrato da una serie di nomi personali (e cognomi attuali, quale Netan-iahu) che sono nitidamente teoforici, ossia recano incastonato il nome di Dio, sia El o Yaḥwh. Vediamone qualcuno, partendo ovviamente dalla celebre esortazione ebraica (poi diventata anche cristiana) Allelùja, ebr. Hallelûyāh (הַלְּלוּ-יָהּ), che significa ‘preghiamo, lodiamo Dio’. Un altro termine ebraico che fa riflettere è Ahellil, designante i Salmi comincianti con l’invocazione Hallelûyāh.
Cito anzitutto il teoforico di un profeta ebreo, Gioèle ( יואל ), che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh; significò ‘Yah[wh] è El’ ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh).
Il teoforico Giovanni è dall’ebr. Yeho-chānān, composto da Yeho + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. Cfr. l’anglosassone John, una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie YahYehYoh: vedi la contrazione יו in Gio-ele) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha la base etimologica nell’antico akk.qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanuqanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).
Va precisato che il nome del Dio del deserto, YaḥYḥ o Yhwh, in origine non fu altro che lo stesso nome del Dio Luna (sul quale torneremo ampiamente al Capitolo 7). Non fu un caso se il monte sacro del deserto frequentato dagli Habiru (i futuri Ebrei) fu chiamato Sināi, in onore del Dio lunare Sîn, un altro nome concorrente di Yaḥ. Il dio Luna Yah era conosciuto con lo stesso nome dall’Egitto a Babilonia. Da esso deriva il nome del patriarca GiacobbeYah’cobb, ‘Protetto dal Dio Luna’. Dopo la cacciata degli Hyksos dall’Egitto, il culto di Yaw continuò nella città di Ugarit sotto forma di demone del mare Yamm, ma decadde in Siria sostituito dal culto del dio della pioggia Baal Hadad. Mentre tra i nomadi Šasu Edomiti del Sinai continuò nella sua forma originaria Yhw: dio delle tempeste.
Un altro nome teoforico che propongo è Elìa, così noto dalla tradizione latina (Elias) e greca (EleiasElias) dall’ebr. Eliyyahu o Eliyyah: essendo lo stesso composto di Gioèle, ha ovviamente lo stesso significato: ‘El è Yahwh’, ‘El è proprio Dio’.
Altro nome teoforico è Zaccarìa, da ebr. Zekharyah (da zachar ‘ricordarsi’ e Yah ‘Dio’ = ‘Dio si è ricordato’).
Il teoforico Gioacchìno, ebr. Yohaqim è da Yah + qum ‘sollevare’ = ‘innalzato da Dio’).
Il teoforico Michèa, ebr. Mihan abbreviato da Mi-kha-yâh significa ‘chi è come Dio?’.
L’ebr. Ezeriel עַזְרִיאֵל è composto da ezer ‘aiuto’ + El ‘Dio’ col significato di ‘Dio aiuta’.
L’ebr. MatteoMattìaMattityahu מַתִּתְיָהוּ è composto da matath ‘dono’ + Yah ‘Dio’, col significato di ‘Dono di Dio’.

IACCU HIRVU. Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) tratta delle figura di IáccoἼακχος, nome solenne di Bacco (Dióniso) nei Misteri Eleusini, il quale deriva dal grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Eleusini Iacco era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele.
L’etimologia di questo nome è stata discussa più su al lemma Iacco (vedi); esso sembra, almeno con riguardo alle epoche arcaiche ed ai luoghi dove il mito siro-fenicio nacque, un’esortazione, un richiamo solenne che capta l’attenzione dei fedeli nei momenti solenni, e pure al momento della distribuzione del ciceòne.
Qui riprendo la questione poichè la Turchi crede di scorgere il nome di questo personaggio mitico in parecchi toponimi della Sardegna, generalmente accompagnato da un epiteto: Iaccu Piu,Iaccu RuiuIaccu Hirvu. È difficile darle torto. In tal senso, dobbiamo ammettere che il personaggio Iaccu era conosciuto in Sardegna a prescindere dai Misteri Eleusini, quindi in termini collaterali al mondo greco, pertanto in modo autonomo, nella misura in cui possa dirsi autonoma una cultura che ha legami solidi col Vicino Oriente, e s’irraggiò da là per approdare anche nel mondo egeo-greco (non viceversa).
Iaccu Hirvu è toponimo dell’agro di Orgòsolo. Per quanto riguarda Iaccu, esso disvela il nome del Dio Unico Universale, quello che per gli Ebrei era YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’.
Circa Hirvu, la sua traduzione sembra avere la base nel sum. ir ‘potenza’ + bu ‘perfetta’. Quindi Iaccu Hirvu sembra un epiteto sacro riferito al Dio Unico Universale, col significato di ‘Yahwh dalla perfetta potenza’.

IÁCCU PÍU Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sarddegna 89-90) tratta delle figura di IaccoἼακχος, nome solenne di Bacco (Dioniso) nei Misteri Eleusini, il quale deriva dal grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Eleusini Iacco era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele.
L’etimo di questo nome è stato trattato a suo luogo (vedi Iacco); esso sembrerebbe, almeno con riguardo alle epoche arcaiche ed ai luoghi dove il mito siro-fenicio nacque, un’esortazione, un richiamo solenne che capta l’attenzione dei fedeli nei momenti solenni, e pure al momento della distribuzione del ciceòne.
Qui riprendo la questione poichè la Turchi crede di scorgere il nome di questo personaggio mitico in parecchi toponimi della Sardegna, generalmente accompagnato da un epiteto: Iaccu Píu,Iaccu RùiuIaccu Hirvu. È difficile darle torto. In tal senso, dobbiamo ammettere che il personaggio Iaccu era conosciuto in Sardegna a prescindere dai Misteri Eleusini, quindi in termini collaterali al mondo greco, pertanto in modo autonomo, nella misura in cui possa dirsi autonoma una cultura che ha legami solidi col Vicino Oriente, e s’irraggiò da là per approdare anche nel mondo greco (non viceversa).
Per quanto riguarda Iaccu, esso disvela il nome del Dio Unico Universale, quello che per gli Ebrei era YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’. Píu ha la base nell’akk. pedû, pādû‘indulgente’. L’epiteto (o invocazione) è da tradurre come ‘Yahwh indulgente’.
Sembra incredibile quanto la religione precristiana si avvicini ai sentimenti e ai concetti di quella cristiana.

IÁCCU PUDZÒNE è un toponimo dell’agro di Orotelli. Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) non lo traduce come un normale nome + cognome (‘Giacomo Uccello’), il quale peraltro è molto usato in Sardegna. Considerato che pudzòne (camp. pillòni) in sardo indica pure il membro virile dell’uomo, la Turchi vede nel toponimo una cristallizzazione di una vicenda sacra riferita a Dioniso (chiamato Íacco nei Misteri Eleusini), cui s’addice anche il sacro membro nella sua funzione rigeneratrice.
Può darsi che la Turchi abbia ragione, e se ce l’ha, occorre inquadrare la questione nell’ambito dei Misteri siro-fenici di Adone, non di quelli greci, poichè la Sardegna non ha mai ricevuto influssi culturali greci. In tal guisa, possiamo recuperare anche gli altri toponimi Iaccu HirvuIaccu Piu e Iaccu Ruiu, già discussi secondo questa visione.
Di pudzòne, camp. pillòni ‘uccello’, ‘volatile’ può cogliersi l’etimo soltanto se, mettendoci dal punto di vista degli antichi Sardi, consideriamo gli uccelli per quello che un tempo erano: un genere di animali particolarmente nocivi alle colture, che potevano essere tenuti a freno soltanto ingannandoli e catturandoli con le reti. Non è un caso se in Sardegna la caccia con le reti dura ancora inossidabile, sin dall’Era paleolitica. E dura pure la caccia coi laccetti. In altre parti si usano pure gli specchietti (es. per catturare le allodole).
Ci sono due termini accadici che concorrono a pari titolo a fornire il giusto etimo. Alla base sta comunque un composto sardiano, che trova espressione nell’akk. pīgu ‘inganno’ + unû (un tipo di carne) (stato costrutto pīgu-unû); e c’è pīdu ‘cattura, imprigionamento’ + unû (stato costrutto pīdu-unû); i due composti si traducono come ‘carne da inganno’ e ‘carne da cattura, ossia da rete’. Col tempo è subentrato il lat. pullus a complicare la resa fono-semantica, con un intreccio tra pīgupīdu e pullus + unû; onde camp. pill-òni, log. pidzònepudzòne. Onde il log. puḍḍu ‘gallo’ < lat.pullus (che però è un ‘piccolo dell’animale’, non solo il ‘pulcino’ o il ‘pollastro’, vedi akk. pūdubūdu ‘pecora’, e vedi sardo puḍḍécu, pudréḍḍu < *puḍḍaréllu); la cavalla ancora vergine è sapuḍḍeca, e tanti animali molto giovani hanno lo stesso appellativo puḍḍécu, pudréḍḍu, ivi compresa una donna adolescente vocata al godimento e al divertimento (puḍḍeca).
Questo campo fono-semantico è alquanto inflattivo, a ben vedere, considerata pure la presenza dell’it. pigliare, con base nell’akk. pillatu ‘beni rubati, beni ottenuti col furto’ (a proposito dipigliare, le strampalate ipotesi etimologiche del DELI sono da dimenticare).
Pillòni, con la variante log. PudzònePuggiòni, è anche cognome.
Trattata l’etimologia di pudzòne in quanto ‘uccello’, torniamo a Iaccu Pudzòne per proporre un etimo che però con gli uccelli non ha niente da spartire. Se crediamo che il toponimo possa celare un arcaico epiteto di Dio, allora occorre vedere in Iaccu il nome del Dio Unico Universale, quello che per gli Ebrei era YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’. In Pudzòne abbiamo un epiteto sacro dal sum. pu ‘giardino’ + zu ‘to know’ + ne ‘forza’: puzune poderoso giardino di conoscenza; Quindi Iaccu Pudzòne significò ‘Oh Potente, Forte Giardino della conoscenza’.

IACCÙRU è un toponimo di Arìtzo che Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) smembra in Iáccu Curu, interpretando il secondo membro come il gr. koúros, il fanciullo divino che rappresenta Bacco-Dióniso. Ella pone prepotentemente in primo piano, nelle manifestazioni carnascialesche sarde, la triade Demetra-Persefone-Dioniso, che poi è la stessa triade dei Misteri Eleusini.
La Dea Madre Mediterranea è nota in Grecia come Demétra, Δη-μήτηρ, che ebbe la figlia amatissima rapita dal Dio degli Inferi: questa è la celebre Perséfone, nota anche come trimorfa, in sembianze ora di figlia (Kóre), ora di sposa (Perséfone, compagna di ‛ Ἄιδης o Πλούτων), ora in veste di matura dea lunare (la ferale Ecáte). In realtà è quest’ultima ad essere sicuramente trimorfa o tricipite, dotata di tre corpi e tre teste, essendo stata a un tempo Seléne (Luna) in Cielo, Artémide in Terra, Perséfone nel Mondo infero. Ecate ebbe un ruolo di primo piano nella ricerca di Perséfone, e quando questa fu trovata, rimase al suo fianco come assistente e amica. Divenne così una divinità del mondo infero, della quale si celebrava la terribile e grandiosa potenza. Si diceva che di notte mandasse sulla terra ogni sorta di demoni e di esseri fantasmatici, che conoscesse le arti della stregoneria e che dimorasse di preferenza presso gli incroci viari o in prossimità del sangue delle persone uccise. Si riteneva altresì che si spostasse e vagabondasse con le anime dei morti. Ad Atene, alla fine di ogni mese, vigeva l’uso di lasciare ai quadrivi dei piatti con del cibo appositamente per lei; il cibo veniva poi consumato dai poveri (Anna Ferrari).
L’etimo di Perséfone, Περσε-φóνη, non è stato bene indagato. Lo si collega con la ‘perdizione, devastazione’ (πέρθω, ‘devasto, desolo’) e con la ‘uccisione’ (φονή, ‘uccisione, strage’) senza ragione. In realtà la sua base è l’akk. persu(m) ‘divisione’, ‘cessazione’ + būnu ‘figlio’, col significato sintetico di ‘figlia separata’, ed è il nome che a questa déa viene dato nei mesi in cui lascia la madre per scendere all’Inferno.
L’etimo di EcáteἜκάτης, ha la base nell’akk. ēqu (un sepolcro) + atû(m) ‘custode della porta’, col significato sintetico di ‘custode dei sepolcri’, ‘amante degli ingressi dei sepolcri’ (evidentemente si tratta di sepolcri “a corridoio”).
Kóre, Κόρη è un nome greco; il comune kόρη indica una ‘fanciulla, donzella, figlia’ collegata al masch. κόρος ‘bambino, fanciullo, figlio’; il corrispettivo verbale si dice rappresentato, nel campo indoeuropeo, dal lat. creocresco, e non è vero. Comunque la fase più antica del termine è l’akk. ḫūru ‘son’, sum. ḫurum ‘bimbo’.
Come si può notare, anche questo arcaico mito greco, e le stesse cerimonie misteriche ad esso legate, sono preindoeuropei, orientali. La lingua sumero-accadica consente di affermare, scientificamente, che tali miti riguardarono tutto il Mediterraneo ed il Vicino Oriente, non solo la Grecia preindoeuropea. Questa considerazione aiuta a sistemare meglio le credenze della Turchi, che nella sostanza non vengono inficiate ma soltanto ricollocate in ambito semitico, come peraltro è giusto fare parlando dell’isola di Sardegna, la quale, a detta degli storici e degli archeologi, non subì mai alcun influsso elladico ma visse una temperie culturale inquadrabile nell’ottica degli scambi col Vicino Oriente.
Fatta questa ampia disamina, sembra ovvio che Iaccùru non sia scomponibile, come propone la Turchi, in Iáccu Curu, ma sia invece un composto sardiano con base nell’ebr. YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’ (un composto di i ‘let’s, come on, suvvia’, esortazione simile a quella sumerica, alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫuy-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustifica anche la traduzione fatta daiSettanta mediante Kýrios ‘Potente’. All’invocazione YHWH, i-aḫu si abbina il sum. ur ‘ungere, unzione’. Il significato di i-aḫ-ur è ‘O Forza degli Unti’, ‘O Forza dei Messia’ .
Anche questo risultato, come tanti altri dell’antica religione dei Sardi, fa capire che niente fu innovato sulla faccia della Terra, poiché la consacrazione dei fedeli attraverso la “cresima” avveniva già in epoca precristiana. Ma qui per unto s’intende il gr. Christós ‘Messia’.

IÁCCU RÙJU. Dolores Turchi (Maschere, miti e feste della Sardegna 89-90) scrive: «Ad Olièna si afferma che quando sta per piovere Iaccu Ruiu dà il segnale, perchè a mezza montagna si forma uno strato di nuvole... Resiste il detto Iaccu Ruiu annuau, abba sicura ‘Iacco Rosso annuvolato, acqua sicura’». La Turchi è convinta che questo personaggio fantastico sia lo stesso che dà il proprio nome a una vallicola sull’alto monte di Olièna. Poichè ella crede che in Sardegna nel passato ci siano stati molti e nitidi episodi legati ai Misteri Eleusini, di cui fa parte Íacco (nome solenne di Bacco-Dioniso nei Misteri di Eleusi), ella ritiene che questo personaggio sardo sia proprio Dioniso.
A mio parere, la valletta di Iaccu Ruju (tradotto in italiano sarebbe Giacomo Rossi) indica, fino a prova contraria, soltanto il nome-cognome di un pastore del passato, che soggiornò lungamente nell’area utilizzando il pascolo comunale.
Quanto all’incrollabile certezza della Turchi sulla presenza in Sardegna dei Misteri Eleusini e di tutti i personaggi divini che ne sono l’oggetto di culto, la risposta è data dagli storici e dagli archeologi, i quali ritengono che in Sardegna sia mancato ogni genere di influsso greco, escluso ovviamente quello dei Bizantini, i quali però erano cristiani, e vennero in Sardegna con lo scopo dichiarato di sradicare ogni pratica pagana (compito peraltro cui si applicarono egregiamente).
Essendo impensabile che i culti di Eléusi siano stati importati dai Romani, e tantomeno dai Bizantini, occorre cercare in altra direzione l’etimologia di Jaccu Rùju in quanto essere fantastico. Per essere coerenti con quanto sappiamo delle civiltà che ebbero una presa diretta in Sardegna prima dell’invasione romana, credo occorra cercare nei vocabolari del Vicino Oriente l’origine o la base fono-semantica di questo nome fantastico. E allora possiamo dare a Iaccu la sua propria etimologia (vedi a Iaccu), e indicarlo propriamente come ‘Dio’, con base nell’ebr. YHWH (leggi i-aḫu), da tradurre ‘Oh Potente!’ (composto di i ‘let’s, come on, suvvia’, esortazione simile a quella sumerica, alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫuy-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). A i-aḫu sommiamo l’akk. ruḫû(m) ‘sorcery’, col significato sintetico di ‘Dio magico’ o ‘Dio delle magie’.
In tal guisa, Jaccu Rùju sembra che dagli antichi Olianesi fosse immaginato come Dio degli incantesimi. Non sembri blasfemo (peraltro la bestemmia fu creata dai preti Bizantini!) se ora vediamo in Jaccu Ruju lo stesso diavolo altrimenti noto come Cusidòre ossia ‘ciabattino’; costui è un démone innocuo, o poco nocivo, appartenente anch’esso alla cultura di Oliéna, che il popolo immagina abbia dato il nome al Monte Cusidòre, una delle vette su cui notoriamente s’accumulano i temporali, prima che la sottostante Oliéna ne riceva gli effetti. Si dice infatti che Cusidore, assiso sulle vette, borbotti spesso (tuonando, da par suo), esprimendo così il proprio disappunto per essere costretto a ripararsi le scarpe logorate costantemente sulle rocce asperrime della montagna.
In tal guisa veniamo a sapere che Jaccu Rùju e Cusidòre sono due facce della stessa medaglia, l’una pre-cristiana, la seconda cristiana.

IÁCI cognome italiano di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma ha la base nell’ebr. YHWH (leggi i-aḫu), con successivo suffisso patronimico latineggiante in -i. Anche in Sardegna abbiamo termini del genere, oltre al cognome Giágu (vedi per la discussione approfondita), che indica lo stesso fenomeno.


pierluigi montalbano


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