martedì 30 aprile 2013

La Festa di Sant'Efisio - LaFesta




La Festa.

http://magazine.snav.it/sardegna-la-sagra-di-s-efisio-a-cagliari/
Il primo maggio, in Sardegna, prima ancora che il lavoro si è sempre festeggiata la festa. Rubando alcune osservazioni di Giulio Angioni, antropologo caposcuola degli studi di cose sarde – e nella speranza di non tradirne il senso –, si può infatti definire la sagra cagliaritana di Sant’Efisio come festa della festa. Di tutte le feste dell’Isola. Non solo perché, banalmente,majore tra minores(1) o manna tra pittikkas(2)Non solo quindi perché più ricca e vasta, ma perché paradigma stesso di ogni festa indigena.
Più ricca senza dubbio: vi trova posto il meglio di tutte le dovizie e i fasti dell’Isola. Festa di primavera, momento di riepilogo e annuncio di prossima ripartenza, apertura anticipata del ciclo delle ricorrenze estive, dedicate – ciascuna – al santo eletto come peculiare e proprio, e insieme – tutte – alle paganissime celebrazioni del comune e condiviso calendario agropastorale. Ecco, in onore al santo, le doverose esibizioni propiziatorie di abbondanza e la distribuzione di dolci e pani alla folla, in una sorta di comunione preliturgica officiata in modo orizzontale e laico. Largizioni parche e solo simboliche: i partecipanti sono migliaia e non ce ne sarebbe certo per tutti. Ma sufficienti a esibire, in simulacro, la generosità obbligatoria dell’ultimo affondo possibile alle scorte e ai granai, a due mesi ancora dalle nuove messi estive.
Più vasta: alle altre feste gli obbreris(3) apparecchiano il meglio della propria – singola – tradizione paesana, e tutti gli altri partecipano da ospiti. A Sant’Efisio ciascun paese partecipa da protagonista, e prima che ospite è attore a confronto con tutti gli altri attori.
Sant’Efisio come festa enciclopedica della Sardegna, dunque. Come florilegio, meglio del meglio di ogni sardità. Collazione di tutte le strumentazioni materiali festive. Le traccas (carri) addobbate non riportano a casa carichi di paglia e villani affaticati, ma persone festanti, doni e fiori; i buoi sono strigliatissimi e adornati da finimenti ricamati e arance infisse sulle corna; i pani sono quelli più bianchi, di farina sceltissima. Per un giorno tutto è sublimato, sollevato da terra (in questo caso è proprio quella dei campi). Soprattutto le persone: vestono più dei panni buoni e del miglior decoro della domenica. Indossano l’intero repertorio dell’arcadia di Sardegna, dove tutto, in quel tempo, era facile, pacificato e felice. Si esibiscono cioè le fonti sentite come autentiche, primigenie ed esclusive, delle varie identità visive, e più in generale culturali, dell’Isola.

A volte si tratta di tradizioni mai interrotte del tutto: ancora pochi anni or sono non era raro imbattersi, nella piazza del Carmine scalo dei taxi interpaesani, in una donna di Desulo, di Aritzo o di Tonara spontaneamente vestita col suo “costume” originale. Qualche volta si tratta invece di operazioni di recupero colto, di fatture sartoriali rivitalizzate a tavolino (in certi casi anche con ricostruzioni integrative “per analogia”), volute con ogni forza poco prima che tutto fosse perduto per sempre, travolto dalla modernità alloctona e sepolto per sempre dalla civiltà omogenea delle merci seriali.
Nella festa si confrontano dunque tutte le filologie folkloriche isolane, tante quanti i campanili di Sardegna. Filologie che spesso postulano, più o meno consapevolmente, una visionecreazionista dei loro elementi qualificanti. Si attinge cioè a un fondale mitico, a una fissità delle specie collocate nell’affresco di un magnifico e immoto “come eravamo”. Voluto, ogni anno che passa, più ricco di com’era, più socialmente partecipato, più fastoso di quanto avrebbe potuto mai essere. Ciascun costume (e anche ciascuna costumanza) è perciò sentito, nella museizzazione di oggi, “severamente così” e “assolutamente non in altro modo”, a volte in un paradossale primato del dover essere sull’essere. E a questa concezione necessariamente irrigidita, a questa meritoria “conservazione” – controllata a vista dalle pro loco, dai gruppi folk, dai comitati, dai sinceri appassionati – fa ovviamente buon gioco la cessazione dell’osmosi vitale, a opera del cataclisma improvviso della modernità, che aveva espresso le meraviglie che vediamo esibite durante la festa.
Tuttavia, anche all’interno di questo quadro “atemporale”, la dimensione storica traspare. Frac e cappelli a cilindro sono quelli della nobiltà di sopravvivenza feudale e quelli dell’avanzare tardivo della borghesia locale che ne contendeva il primato; l’ordine sociale è garantito in simbolo da miliziani settecenteschi affiancati da carabinieri ottocenteschi; lo stesso simulacro del santo, osserva Giulio Angioni, è abbigliato come soldato romano ma acconciato comehidalgo spagnolo.
Non è però questo tipo di considerazioni a incantare lo spettatore, turista italiano o straniero o gitante sardo. È il tripudio di colori, di pizzi bianchissimi, di velluti di grammatura regale, di fatture minuziose. Lo scintillio di ori e argenti finissimi, la sincronia improvvisa dei passi di ballo, il suono ipnotico delle launeddas(4).
Il vertiginoso succedersi di bellezza.
Per questo la festa di Sant’Efisio la si sente chiamare spesso “sfilata”. I diversi paesi, a decine, avanzano lungo le strade del centro tra due ali di folla fittissima, annunciati dai loro stendardi ricamati o avvistati per i loro colori dominanti. Ne sortisce a momenti un involontariobeauty contest, con molti vincitori sanciti a più riprese dall’intensità degli applausi.
E lo spettatore può restarne sorpreso due volte, a contrasto con l’immagine austera, a tratti cupa, con cui viene percepita la Sardegna tradizionale, coi neri delle sue vedovanze perenni e i marroni dei suoi uomini di campagna.
A far partire l’applauso, durante questo plenario e totalizzante folk pride, può essere la leggerezza di una danza o la grazia di un portamento. La fiera compostezza virile o il sorriso di modestia muliebre, virtù morali tradizionalmente molto coltivate, e anch’esse in sfilata.
Ma soprattutto sono, ancora una volta, i complessi costumi femminili, fruscianti di stoffe azzimate e ammantatrata a Dante, che fraintendendo (Commedia, 2, XXIII, 94 - 102) ne scambiò il misterioso e inespugnabile pathos per licenziosa impudicizia.

Bruno Piras

Note
1 logudorese: maggiore tra minori
2 campidanese: grande tra piccole 
3 organizzatori responsabili della festa
4 strumento ancestrale ad ancia, a tre cannei di veli e ampi scialli. Con gonne serrate in vita e bustini stretti, propizi solo a portamenti alteri. A sostegno di corolle di camicie di lino ricamato costellate di gioielli, in una sensualità severa e arcana. Di cui forse giunse notizia esage


Tu nos,ephysi,protege - Un documentario di Marina Anedda

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