YIŚRA’EL. I
fenomeni toponomastici della Sardegna sono stati adeguatamente svelati e
catalogati in uno studio recente1, e possiamo confermare che in nessun
territorio (né in Sardegna né in Continente) i singoli popoli hanno omesso di
dedicare alle proprie divinità una adeguata (direi vasta) porzione di siti.
Valga come esempio il territorio più celebre dell’antichità mediterranea, Israele.
La base etimologica di Yiśra’el può essere conosciuta
dall’akk. išru(m) ‘villaggio recintato, fortificato’ + ebr. El ‘Dio
altissimo’, con riferimento alla religione esclusiva degli Ebrei, che hanno
sempre avuto un proprio Dio perfettamente distinto da ogni altro Dio
dell’antichità. Il significato complessivo sembra proprio quello di ‘Dio del
villaggio fortificato’, ‘Dio della nazione esclusiva’, e simili.
La stessa Gerusalemme, Yerûšālaym,
ebbe significato sacro, da Šalimu (Giosuè 10,1),
che è un dio della salute (il lemma ha il plurale in -im). Ricordo che
proprio a Gerusalemme in origine c’era una fonte poderosa, una
risorgiva che alla scaturigine creava un laghetto che in seguito fu scavato e
ampliato per creare il serbatoio idrico per l’intera città. Ovvio pensare che
in origine la gente andasse alla risorgiva non solo per attingere acqua ma
anche per immergersi e curare certe malattie: da qui la dedica a Šalimu.
Il lemma Yerûšālaym è
noto in varie forme secondo il popolo che lo scrisse. E così abbiamo ebr. יְרוּשָׁלַיׅם ,
gr. Ιερουσαλημ, ʿΙεροσόλυμα, lat. Jerusalem, assiro Urišläm,
akk. Urusalim, Urusalimmu. Per l’etimologia abbiamo
ebr. יְרוּ*
(*Iěru) ‘fondazione, insediamento di città’, da sum. iri ‘città’
+ Šalam ( שׁלם) ‘dio della salute’, col
significato di ‘città di Šalam’.
4a.
I vari siti del culto
La Sardegna, manco a dirlo,
dedicò alle divinità una buona porzione del sistema toponimico. Ad esempio, il
territorio di Gadòni serbò alle divinità circa il 20% dei 250 toponimi
registrati in carta. Lo stesso accadde un po’ in tutta l’isola. Da queste
migliaia di toponimi sardi estrapolerò di seguito soltanto pochi esempi, tali
però da rendere un’idea del rapporto che gli indigeni ebbero con la propria
terra.
ARCUÉNTU è
il monte più alto del Guspinese (m 785). Geologicamente è un neck,
costituito dalla lava rappresa nell’ultimo conato d’eruzione. Ne è risultato un
monte subconico che s’allunga spettacolare e solitario verso il cielo.
L’oronimo a tutta prima
sembrerebbe derivare da Arculéntu, che in sardo significa
‘abrotano’ (Artemisia abrotanum L.), ma anche ‘erba prota’ (Achillea
ligustica), e persino ‘millefoglio’ (Achillea millefolium L.)2. Alcuni lo vorrebbero derivare da Erculentu,
collegandolo ad Ercole, cui sarebbe stato dedicato un tempio sulla
vetta. Ma intanto chi pensa ad Ercole non dà ragione del secondo membro dell’oronimo
(-entu). Certamente vi sorse un castello medievale, del quale restano
le fondamenta, quasi certamente basate sul tempio più antico.
L’origine dell’oronimo pare
chiara se assumiamo la base accadica arku ‘lungo, alto’ + bītum,
fenicio bt, ebr. bait ‘abitazione’, ‘tempio’.
L’originaria pronuncia sarebbe in tal caso *arcu-betu, con successiva
epentesi della -n- per il richiamo all’idea del vento. Arcuéntu significherebbe,
con tale ricostruzione, ‘tempio elevato’. Ma è certamente più congrua
l’etimologia basata sull’akk. (w)arḫu ‘Luna’,
onde ritengo senz’altro che il significato sia ‘Tempio della Dea Luna’.
BARÚMINI comune
dell’alta Marmilla, a circa 60 km da Cagliari, posto in un pianoro calcareo
sopraelevato sul rio Mannu, il quale un tempo doveva essere un vero fiume.
Presso il paese passava una delle rare vie di transumanza dalla Barbagia ed il
fiume doveva essere guadabile. Il toponimo appare inRDSard. a. 1341 così
com’è attualmente. Alla luce del significato di altri lemmi d’origine accadica
quali Barumèle, ritengo che l’etimologia possa essere
sumero-accadica. Abbiamo un composto di akk. barû(m) ‘to
see, look at’, ‘sovrintendere’ + sum. min ‘two’ e possiamo
interpretare che in questo sito fortunato ci fossero due templi al Dio Sole.
Essi c’erano, in realtà, e sono il nuraghe oggi ritrovato al
centro del palazzo marchionale, nonchè il nuragheprincipale, quello
per cui Barùmini va famosa nel mondo. Quindi sembra chiaro che
il paese prese il nome dall’epiteto che il popolo aveva coniato per i due templi
del Dio protettore: ‘i Due Sovrintendenti’, ‘i Due Protettori’.
http://www.barumini.net/sardegna-in-miniatura/ |
BETILLI,
località di foresta attualmente interessata dal casello della ferrovia minore,
in agro di Sàdali. È un evidente composto. Pare che Betilli non
abbia altro significato che quello dell’it. ‘bétilo’. In tal caso l’origine è
fenicia (bt), parimenti ebraica (bait), e bet-el significò
‘casa del dio’. Nella storia biblica di Giacobbe bet-El è il
nome del luogo sacro rivelatosi casa di Dio e contrassegnato
da un cippo. In un testo fenicio del sec. VII a.e.v. (il famoso trattato di
Asar-haddon) Baitili è il nome di una persona divina. Presso i
Sumeri Beletili era il secondo nome di Damkina, paredra dei
dio Enki poi divenuto Ea. Quanto al betilo, esso è la più antica
forma che, agli occhi del semita, poteva esprimere la divinità: una scultura
aniconica, come si deduce dal testo biblico ove si narra del betilo in
forma di cippo, che Giacobbe ricavò dalla pietra da lui usata come capezzale.
BONACATTU è
un toponimo, un cognome ma anzitutto un nome personale, espresso al femminile: Bonacatta.
Tutti i Sardi (compreso me) sono d’accordo che il termine deriva da Nostra
Segnora de Bonacattu. Ma ecco le differenze: secondo tutti i linguisti
viventi (escluso me), Bonacattu costituisce una etimologia
popolare di Bonàrcado, interpretato come bonu accattu ‘buon
ritrovamento’, ma che in realtà deriva – secondo loro – dal bizantinoPanáchrantos ‘immacolata,
purissima’. Questa strampalata etimologia viene da lontano, prodotta da una
messe di linguisti i quali, dietro la “intuizione” del primo ricercatore, si
sono intruppati senza più rischiare di mettere al lavoro la propria cultura.
Autorevole sistematrice e
stabilizzatrice di questa paretimologia è Carla Marcato (Dizionario di Toponomastica 85-86),
la quale, partendo dal fatto che nel condághe di Bonàrcado il
toponimo figura nelle varianti Bonarkanto, Bonarchanto, Bonarckanto,
conclude: «Si tratta di un nome di origine greco-bizantina, da Panákhrantos,
‘immacolata, purissima’, attributo della S.Vergine Maria venerata nel citato
santuario del luogo. La presenza di b in luogo di p,
frequente nei prestiti greco-bizantini, ha favorito la successiva e recente
interpretazione del toponimo come Bonacattu ‘buon ritrovato’,
in connessione con una leggenda secondo la quale un’immagine che raffigura la
Madonna col Bambino sarebbe stata trovata da un cacciatore tra i cespugli che
circondano il santuario». Il tramandatore di questa rassicurante favola è il
prof. Giulio Paulis, noto cattedratico di linguistica sarda e collega della
Marcato.
È singolare che i linguisti
siano arrivati a sancire una paretimologia addirittura con una favola. Non è la
prima volta. A tanto non si è spinto il prof. Francesco Cesare Casula, che nel
suo Dizionario Storico Sardo si è attenuto
esclusivamente al metodo scientifico, scrivendo che «il toponimo [Bonàrcado]
potrebbe derivare dal greco-bizantino pan ‘tutto’ e árcados ‘senza
macchia’, oppure direttamente da Monarcanto, così come lo troviamo
scritto in qualche documento medievale». Rendiamo grazie al Casula per averci
dato una quarta forma di rappresentazione del toponimo Bonàrcado.
Egli non parla affatto diBonacattu. Infatti il condaghe di
Bonàrcado non cita Bonacattu tra le varianti che nominano il
sito (vedi CSMB, ristampa del testo di Enrico Besta riveduto da
Maurizio Virdis), cita semmai Bonarcatu, Vonarcatu e
simili.
Ma la forma Bonacattu e
relative varianti (prevalsa da secoli tra i residenti – o usata da millenni? –
e rafforzata dai nomi personali di molte persone del luogo) è senz’altro una
forma storica, quella che dà più affidamento nella ricerca. Quindi è storico ed
affidabile il sintagma Nostra Signora de Bonacattu. Occorre capire,
a questo punto, perché i linguisti abbiano messo in relazione Bonacattu con
‘buon ritrovato’, rafforzando il tutto con una favola. La loro risposta è
inappellabile: la favola esiste, e il significato è questo; un fatto corrobora
l’altro, non ci sono altre interpretazioni. Il carapace della loro cultura è
inespugnabile. Siamo all’assurdo kafkiano.
Chi l’ha detto che Bonacattu significhi
‘buon ritrovato’? E nel passato, si è mai tentato d’indietreggiare,
d’immergersi, di sondare? Bonacattu non può essere forse una
paronomasia? Nessuno ha mai riflettuto sul fatto che, alla base delle vestigia
del primo tempio bizantino, esistono vestigia più antiche, e che lo stesso
Francesco Cesare Casula cita l’ipotesi degli archeologi che il primo santuario
fosse quello di san Giorgio.
E, se fosse vera la
primazia di san Giorgio, nessuno ha mai riflettuto sul fatto che in Sardegna è
stato proprio san Giorgio a sostituire il “santo” celebrato e venerato ai primi
dell’Anno? Insomma, si sa o non si sa che san Giorgio non è altro che il
sostituto dell’antico Dio della Natura, quello tanto celebrato in periodo di
Carnevale?
Altro che ‘buon ritrovato’! Bonacattu è
una paronomasia. In origine fu un composto rituale sardiano, un giaculatoria,
il ritornello di un inno sacro, basato sull’akk. būnu ‘bontà
d’animo’, ‘espressione’, ‘buone intenzioni’ + kattû(m) ‘che
rafforza, corrobora’. Questo è un classico appellativo rivolto al Dio della
Natura, ed il suo primo membro (Bonu-, Bona-) è lo stesso
che nomina il santuario di Bonu-Ighínu, da tutti incredibilmente
tradotto come ‘Buon Vicino’.
BONASSÁI.
Il toponimo Bonassái sta in agro di Olmedo. Indica in modo
speciale il nuraghe del sito, ma è tutto il compendio ad avere questo nome.
Attualmente ci sta il centro di ricerca sugli animali d'allevamento, ma questo
sito pianeggiante è sempre stato privilegiato da terreni alquanto buoni, capaci
di dare frumento, oltrechè biade. Il toponimo va diviso in Bon-assai.
Per Bon- vedi Bono e
simili, con la base etimologica nel sum. bu ‘perfetto’ + nu ‘creatore,
procreatore’; -assái va confrontato con la terminazione di origine
anatolico-occidentale (ed anche lidia) dalla forma -ασσος (vedi Alikarn-assos) e «ritrova
antecedenti in voci come ebraico ošjā (fondazione, fondamento)
e più vigorosa risonanza in accadico āṣû (detto
di costruzione che sorge, “protruding pillars upon the foundation terrace”)»
(Semerano, IEM 23). QuindiBonassái significò in
origine, con riferimento al nurághe quale altare del Dio Sole,
‘palazzo del Perfetto Creatore’. Vedi Ussassái.
BONASTÒRE.
Questo toponimo in agro di Alà sembra a tutta prima doversi riferire all’astòre,
dall’it. astore. In realtà esso è un epiteto sacro, indice
dell’antica presenza di un tempio, un nuraghe. Ha la base nel sum. bu ‘perfetto’
+ nu ‘creatore, procreatore’ + ašte ‘sedia,
trono’ + ur ‘proteggere’. Il significato originario fu ‘trono
del Protettore, Perfetto Creatore’.
BONUIGHÍNU sito
celebre per aver dato nome alla Cultura di Bonuighίnu, Neolitico medio. Nella località sorse anche
un castello e pure un'antica chiesa, poi ristrutturata nel '700.
Bonuighίnu (agro di Mara) viene tradotto come
'Buon Vicino', da cui per riflesso il catalano Bonvehí. Ma questa
non è altro che una paronomasia. Tanto per avvicinarci all’etimo, occorre
anzitutto ricordare che per ighìnas s'intendevano (vedi Alta
Ogliastra, dove ancora s'intendono) le sezioni di terreno di 40 are, 'vicine
tra loro', donate dal comune agli sposi sino a tutto l'800. Non a caso l’etimo
di ighìnas sta nell’ass. ikû ‘campo’.
Tuttavia l’etimologia di Bonu Ighínuva cercata altrove, partendo
dal fatto che il luogo fu considerato sacro fin dall’Età della Pietra. Il
mistero dell’etimo sta quindi nella sacralità del sito. PerBonu abbiamo
l’akk. būnu ‘viso’ di Dio, ‘favore, buona intenzione’ di Dio.
Per Ighínu abbiamo il composto sumerico igi ‘viso,
faccia’ + nu ‘Creatore’. In questo sito in origine si onorò il
‘Viso del Dio Creatore’, il Dio Unico nella sua epifania in quanto Dio Sole.
BRUNCO cognome
di Nùoro corrispondente al sost. bruncu ‘ceffo, muso’ e ‘cima,
punta di monte’. Per capire l’etimo di bruncu, fruncu, runcu ‘grugno
del maiale’, ‘ceffo, muso’, andiamo al Wagner, il quale ricorda il termine
anche nelle denominazioni topografiche già nei documenti antichi, designandosi
con esso una cima di montagna.
La base di queste accezioni
– ivi compreso il cognome Brunco – è il composto sumerico bur ‘cultic
location’ + un ‘to be high’ + ku ‘to place’ (bur-un-ku >b[u]runcu),
col significato di ‘luogo alto per il culto’.
Cataloghiamo quindi bruncu come
il sito privilegiato dove veniva eretto un edificio di culto. La Sardegna è
piena di queste denominazioni topografiche.
CASTEDDU
‘E SU BROGÁRIU è così chiamato un sito del territorio di Ardaùli
dove si trovano le migliori domus de janas.
Anche qui, come nel sito a domus
de janas di Scala Mughères, siamo in un luogo sacro dove
venivano fatte delle offerte per i defunti e celebrati i riti religiosi. La
base etimologica è l’akk. burgû (un tipo di offerta), da cui
l’aggettivo brugáriu, brogáriu.
DOINANÍCORO, DONIANÍCORO.
Davanti alla complessità del toponimo, presento anzitutto il territorio. Questo
è l’ombelico del Supramonte, il confine tra Orgòsolo e Dorgáli, un tempo
aspramente conteso perché è l’unica pianura – circa tre chilometri quadrati –
in mezzo alla marea di sassi, anfratti, gole, forre, creste, picchi, pareti
dell’asperrimo territorio supramontano. Ciò che colpisce in questo luogo, oggi
deserto ma ieri frequentato da pastori-agricoltori, sono poche cose
significative che mancano nel restante Supramonte. Anzitutto il nurághe.
Esso è piccolissimo (il più piccolo della Sardegna, assieme al diruto Casteddu
‘e Joni in agro di Ussassái) ma tuttavia esso esiste, ed è un fatto
raro in tutto il Supramonte. Serviva a quanti gravitavano nel sito, per adorare
il Sole (o per fare la guardia, a seconda delle teorie). Propendo per
l’adorazione del Sole, considerato pure che gli Ilienses avevano lì accanto il
più grande circolo solare della Sardegna (diametro circa 90 m). Sembra ovvio
che ogni circolo solare della nostra isola servisse anche per praticare su
Ballu tundu, la danza sacra mediterranea. Serviva, insomma, per far festa,
specie dopo che, dentro il circolo, era stato trebbiato l’orzo o il triticum.
Accanto alnurághe ed a questo circolo c’è pure il villaggio
nuragico, con la tomba di giganti esattamente al centro dell’abitato. A poche
centinaia di metri c’è la più importante fonte del Supramonte, ingrottata tre
metri sotto una placca di calcare dolomitico. Allora, possiamo dire che Campu
Donianἱcoro è
un sito magico, un sito sacro.
Lo scenario di Campu
Donianícoro si appalesa come uno sprofondamento montano immenso, con
accanto la fonte. La base etimologica è il sum. tun‘sprofondamento,
depressione’ + An ‘Dio Sommo del Cielo’ + kur ‘land,
country’ (cfr. gr. χῶρος):
stato costrutto tuni-ani-kur. Doni-aní-coro significò
quindi ‘Territorio pianeggiante dedicato ad Anu’.
ESTERZÌLI.
Nell’intento di dare al toponimo una etimologia, osserviamo la sua grande
somiglianza col nome fenicio di Astarte (Ištar, la dea
dell’amore e delle acque generatrici). Non credo sia un caso che il paese
possegga la celeberrima Domu ‘e Orgìa, il tempio post-nuragico a
pianta greca (mégaron) sul monte S.Vittoria. Questa montagna è
intestata, guarda un po’, alla Vittoria, a seguito della conquista del duce
bizantino Zabarda, ma è palese che con tale nome s’intese cancellare il nome e
la celebrità del tempio di Venere. Esterzili ha per base Ištar + ṣillum ‘circondata
dall’ombra, dal bosco’. Come dire: ‘(tempio di) Ištar tenebrosa’.
http://www.italiainfoto.com/gallery/sardegna |
FURTÉI comune
del Medio Campidano. Il toponimo appare in RDSard. a. 1341 come Frutey e
potrebbe avere origine dal lat.mediev. fructetum ‘frutteto’
con successivo tema -ey che rende il collettivo -etum. Cfr.
l’attuale cognome italiano Fruttero.
C’è poi un’altra ipotesi di
traduzione proposta da Semerano (OCE) < (Venere) Orteia (gr.
’Oρθεία,
Foρθασία,
Boρθεία,
Foρθεία)
< akk. burtu ‘cisterna, piscina’ = burtia = Borteia = Ortheia =
'cisterna, piscina, sorgente'. Seguendo questa interpretazione, suppongo che in
origine il villaggio sorse accanto a una grande sorgiva, che fu dedicata alla
Dea delle Acque, altrove nota come Mamùsa.
ILIÀNA.
La trascrizione cartografica del nome della celebre rupe in territorio di Seùi
è Perda ‘e Liàna, ma è ipercorrettismo di Perda Iliàna,
così chiamata ancora nel XIX secolo dall’Angius. Il cartografo non si è accorto
del vezzo dei Seuesi di pronunciare y per ‘e, de.
Ma potrebbe dirsi pure il contrario, ossia che furono gli antichi (a finire con
l’Angius) ad aver pronunciato male l’oronimo, interpretandolo sic et
simpliciter Iliàna, che poi il cartografo corresse in ‘e
Liàna. Tutto sommato, però, questa seconda ipotesi è un cavillo, ed è
meglio attenersi alla pronuncia Iliàna.
Questa rupe perfettamente
verticale, identica agli scenografici cilindri del deserto dell’Arizona, sta
esattamente al centro della Sardegna, e domina le rapide del Flumendosa, il
fiume sardo con maggiore portata. Da quassù si ha uno strano rapporto
acqua-cielo. Come non bastasse tale visuale, che dalla vetta di 1293 metri
spazia liberamente su mezza Sardegna, i Sardói eressero un
nuraghe sopra il cilindro, creando un prolungamento del segno mistico della Sacra
Virga. Avevano bisogno, evidentemente, di sacralizzare all’acmé questo
cilindro, che a sua volta s’erge su un alto cono di deiezione, il quale a sua
volta sta in vetta a un monte. La rupe è visibile dall’Arcu de Corr’e Boi (‘il
passo a corno di bue’, il più elevato dell’isola), che è un totem lunare
contrapposto al totem fallico della rupe Iliàna, nel classico
binomio Dea-fecondata-dal-Dio-fecondante. I nostri padri, che disseminarono di
menhirs l’intera Sardegna (se ne contavano a migliaia), avevano nella rupe Iliana l’unico
vero Grande Totem naturale, in dialogo con la Falce Lunata, divisi-uniti da
vallate ricche d’acque perenni.
La base etimologica
dell’oronimo è sumero-accadica: ilianūm, indicante genericamente un
albero < sum. ilianum. Fu dunque la forma fusiforme della rupe,
diritta come un albero sacro, a produrre questo nome. La rupe dovette essere
considerata “l’albero” per antonomasia, ossia il phallos del
dio-Toro. Il termine accadico ilānu ‘dio, deità’ (con
riferimento speciale alla statua-menhir del Dio), nonchè il termine ugaritico Ilu indicante
il Dio supremo sono, chiaramente, termini primari col quale ilianūm si
fonde. Ilu ha pure l’aggettivale ‘Eljôn ‘l’altissimo’,
che può essere anch’esso la forma che ha prodottoIliàna.
Quindi è chiaro che i lemmi
sardi comincianti con la radice il- debbono essere riferiti, spesso
se non sempre, a questi termini originari accadico e ugaritico.
ILODÉI.
Il toponimo Ilodéi Malu significa ‘sito del Diavolo’ o, tout
court, ‘Diavolo’. Si trova a Funtana Bona in agro di Orgòsolo, esattamente
dove ora sta la caserma della Forestale. Ilodéi va scomposto
in Ilódhe + suffisso territoriale (con base ebraica) -i.
A sua volta Ilódhe è variante di Lodhe ‘volpe’,
‘Diavolo’. Vedi, per il semantema, Brabaìsu ma, per la forma,
anche Lodé.
Comunque il toponimo può
derivare pure dall’accadico ilūtu(m) col significato di
‘divinità, casa degli dei’. In tal caso Malu fu aggiunto dai
preti cristiani per demonizzare il sito.
LÁURA termine
greco-bizantino, λαύρα,
significante ‘quartiere’ (Di.Sto.Sa. 832), da qualcuno raccordato alla
base greca λᾶας
‘pietra’. Nell’Ecclesiasticosignifica ‘chiostro, monastero: con celle
separate’. Fu un’istituzione monastica bizantina, costituita da un
raggruppamento di celle indipendenti, ma con una chiesa comune. In Sardegna il
concetto è espresso con monistène, muristèni, o cumbessìa.
Ma nel sottofondo della cultura sarda il termine láura rimane
con molta forza attraverso vari toponimi. Furono i monaci basiliani a
costruirle in Sardegna, e s’accontentarono di veramente poco. Il nome láura viene
dato agli insediamenti dei monaci basiliani che dal IV secolo e poi dalla fine
del VI secolo si sparsero un po’ ovunque al seguito delle truppe del duce
bizantino Zabarda, poi continuarono a disseminarsi in Sardegna a seguito della
lotta iconoclasta del 727 (Stefano il Giovane consigliava agli iconodùli di
emigrare in paesi lontani per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Leone
III l’Isaurico).
Le presenze di làure in
Sardegna sono numerose, e ciò si deduce dalla storia, dall’archeologia, dalla
toponomastica. Quest’ultima ci porta all’abitato diLùras, ch’ebbe
origine da una láura bizantina. Ci porta sulla giara di
Gésturi, dove le stupende láure (chiamate con ipercorrettismo is
aúrras) sono sopravvissute nel Cuili Crabόsu
(presso Scala s’Eramìda) e un po’ dovunque, adibite però a porcilaia. (Già
Scala s’Eramìda ‘la risalita dell’eremita’, che da Sini conduce lassù, è prova
dell’insediamento d’un eremitaggio ai bordi della Giara). A S.Vito, lungo la
risalita che conduce al monte Lora, c’è il Cuìli Is áurras,
con la solita capanna in pietra dalla sagoma e dal recinto caratteristici (per
la forma della capanna, basta ricordare quella d’un celebre dolce torinese, il
Gianduiòt). Sul monte Lora (che ne doveva essere zeppo,
considerati i numerosi siti privilegiati: le cengie sui precipizi od i
cocuzzoli) non si trovano più le capanne ma c’è una loro caratteristica base,
un sito cacuminale appianato mercè una muraglia, per capire la quale basta
visitare il basamento della fortezza punica di Saurrécci (Guspini),
evidentemente riutilizzato da questi monaci. Saurrécci < sa
urra béccia ‘la laura vecchia’. Dovunque ci sia una traccia o indizio
d’un loro sito, lì si trova il fico e spesso anche l’ulivo ed il carrubo, i
loro fruttiferi preferiti, capaci di dare cibo vegetariano a lunga conservazione.
Le láure sono
i primi cenobî, manufatti ch’erano l’emblema della povertà dei monaci: un
circolo di capanne. Láura è il secondo vocabolo della
cristianità sarda: da akk. lawûm ‘circondare, mettere in
circolo’ + rûm, rū’u, rā’um ‘collega,
amico, associato’: stato costrutto lawû-rûm, col significato di
‘circolo di associati’, ossia ‘cenobio’.
LODÉ comune
delle Baronìe. Già da quando apparve in RDSard. a. 1341, Lodé non
ha mai cambiato nome né forma. Forse non è un caso. Il toponimo è ritenuto
incomprensibile. Per toglierlo dal mistero riprendiamo intanto il lemma sardo loddu,
che significa ‘lurido, sporco, sudicione’. Wagner tralascia d’indicare
l’origine di loddu dall’italiano lordo. Pittau lo
incamera tra i vocaboli sardiani e propone il parallelo tra Lodé e
il toscano-etrusco Loden(n)a. Forse ha ragione,
perché lo stesso Sardella lo appoggia indirettamente (SLCN 445)
indicando in Lodé un’origine sumera (LU2-DE =
‘il Signore giusto, santo, splendente’), ma più precisamente è lu ‘divampante’
+ de ‘creare’, col significato di ‘Creatore divampante’ (riferito
al Sole Dio Unico).
Per capire integralmente la
proposta del Sardella rimando al lemma Liòri, in quanto anche Lode (ed
il cognome Lodde) è uno dei tanti appellativi della volpe. C’è da
supporre che l’intera popolazione di Lodé nell’alto medioevo
si sia addossata le terribili canzonature dei preti cristiani per il fatto di
favorire l’attività degli “stregoni”, onde tutto il villaggio fu marchiato con
un nome “diabolico” e, in più, anche “sudicio”. Il fatto che il toponimo sia uno
dei pochissimi ad esser rimasto stabile da oltre un millennio, la dice lunga
sulla “maledizione” e la “rimozione” subita da questa popolazione per
omnia saecula saeculorum.
Questa ricostruzione
etimologica, in ogni modo, non mi conforta. Ritengo sia più congrua quella
relativa a Ilodéi (vedi).
MATZANNI è
una località montana in agro di Vallermosa, dove insiste un tempio punico e
delle thóloi nuragiche interrate, con la stessa tipologia
delle fonti sacre. Il toponimo è sardiano con base nell’akk. martianni ‘men,
warriors’, con riferimento al fatto che il luogo sacro era dedicato agli eroi
di quella località.
MASILÒGHI. È
importante la notizia riportata da Dolores Turchi3 della festa di Santu Juvanne ‘e
sos sordadéḍḍos, tenuta fino agli Anni Trenta del XX secolo
presso S.Giov.Battista a su Gologòne, dal 5 al 13 agosto.
«Tornavano in paese, a cavallo, con in groppa la fidanzata o la sposa, ma
trovavano la strada sbarrata da un grande fuoco acceso davanti a una sorgente
detta Masilòghi, poco distante dall’ingresso» di Olièna. «Si
trattava di una grande pira, come quella che si costumava fare per la festa di
Sant’Antonio Abate, sulla quale veniva poggiato un fantoccio fatto di paglia e
ricoperto di stracci e di vecchie pelli... Quando i cavalieri venivano
avvistati si dava fuoco alla pira e il fantoccio bruciava. Alla vista delle
fiamme, che si levavano alte, i cavalli s’impennavano e spesso dame e cavalieri
venivano sbalzati di sella».
La Turchi ricorda che la
festa ha origini molto antiche, ed era riesumata specialmente in occasione di
guerre, in particolare quelle navali fatte contro i Musulmani (quella centrale
fu la battaglia di Lepanto). I soldati olianesi si raccomandavano a san Giovanni,
ed una volta tornati lo onoravano in quel periodo. Il Mamuthòne,
ossia il fantoccio, prima che fosse arso, era menato tre volte attorno alla
vicina chiesa di san Francesco, poi veniva immerso nella fonte di Masilòghi.
Dopo il rogo, cominciavano le danze e il divertimento si protraeva sino a tarda
notte. La Turchi ricorda che nella Grecia arcaica quella del fantoccio annegato
e bruciato era la sorte più comune delle vittime sacrificali, dei capri
espiatori, del pharmakos, dei re sacri. Attorno a quel periodo,
nell’antica Roma si svolgeva una solenne festa con luminarie dedicata a Diana
Lucina (identificata con la Dea Madre mediterranea).
La Turchi (p. 66-67)
suppone che Masiloghi fosse anticamente una fonte sacra. Il
nome dei terreni circostanti è Prugatóriu ‘Purgatorio’, quindi
è facile supporre che il sito fosse un luogo di purificazione, che lei ipotizza
riservata agli affiliati ai Misteri Eleusini.
A parte il suo riferirsi ai
Misteri Eleusini e non a quelli siro-fenici di Adone, l’interpretazione è
giusta. Masilòghi è un composto sardiano con base nell’akk.masûm ‘detergersi,
ripulirsi, purificarsi’ + lugû ‘porta, ingresso’, col
significato sintetico di ‘Porta della Purificazione’.
MESSI.
La Funtana Abbamessi si trova a Perdasdefógu. A Sàdali si trova Taccumessi;
a Santulussùrgiu riu Messi. L’idronimo deriva dall’ass. mesû‘lavato,
pulito’, ugar. mesû ‘lavare, pulire, purificare’: quindi il
sintagma Abbamessi significò ‘acqua purificatrice’.
MÓDOLO.
Vaia 3a.
MUTTEḌḌU.
Vai a 3a.
NULUTTU (rio Nulùttu)
in agro di Esterzìli; ma c'è pure il toponimo Su Nulùttu in
agro di Ulássai. La base etimologica è il sum. nu ‘creatore,
origine’ +lutur ‘bambino, giovinezza’. Il significato sembra essere
quello di ‘Creatore di gioventù, di giovinezza, di bambini’. Forse in tempi
arcaici si vide in quel rio apportatore di acque fresche e purissime quasi lo
sperma del Dio della Natura, quindi un generatore di nuova figliolanza. Va da
sé che le donne del villaggio anticamente dovettero recarsi in processione sino
al fiume per imprecare figliolanza da Dio.
NURDÒLE nuraghe
in agro di Oráni. Dolores Turchi4 informa che al suo interno c’è una
grande vasca avente funzioni lustrali. Collegandosi al fatto che in agro di
Dorgáli esiste un nuraghe detto Prugatóriu ‘Purgatorio’, e
legando questo toponimo a tanti altri esistenti in Sardegna con pari nome,
ipotizza che in Sardegna in età pre-cristiana ci fossero parecchi siti destinati
alla purificazione, più che altro legata, secondo lei, al culto di Dioniso ed
ai Misteri Eleusini. Elemento centrale di tale intuizione è il
toponimo-idronimo Masilòghi (vedi più su). Quanto a Nurdòle,
per esso è da supporre un composto sardiano con base nell’akk. nūru ‘luce,
splendore (del Sole, ossia di Dio)’ + dulû ‘secchiello’ (nel
senso di contenitore d’acqua) < sum. dula ‘vaso’. Il
composto (stato costrutto nūr-dulû) indicò in origine il ‘nuraghe
della purificazione’.
NURÉCI comune
dell’Alta Marmilla, prossimo alle falde della Giara di Gésturi. Il toponimo
apparve in RDSard. a. 1341 come Nurichi. Al pari del
paese di Nurágus, sembrerebbe derivare il nome da nurághe,
che è dal babil. nuḫar ‘tempio elevato’, con
successiva metatesi tipicamente sardiana; oppure direttamente dal sum. nuragu ‘complesso
edilizio di Dio Fulgido Creatore’. Ma Nuréci potrebbe
ricevere, oltre a questa, anche la seguente etimologia: sumero nu ‘creatore’
+ akk. reḫu ‘creatore’,
tautologia per indicare e onorare, col doppio nome ripetuto in due lingue
successive, il ‘Padre dell’Universo’. Se fosse così, dovremmo ammettere che non
solo nel piccolo altopiano di Genòni fu eretto un tempio al Dio Padre
Onnipotente, ma che ciò avvenne anche aNuréci, il cui tempio divenne
così famoso da dare il nome – per antonomasia – a tutto il paese.
NURRA.
Vai a 2f.
OLÉRI.
Vai a 3a.
OSPOSIDDA.
L’alto Monte Osposidda (m 919) in agro di Orgòsolo si trova
quasi alla base delle falesie del Supramonte. Un tempo era boscosissimo (oggi
lo è per interventi forestali), ma la sua bellezza deriva principalmente dalla
forma perfettamente conica. Abbiamo già notato la vocazione sacra in altri
monti di forma similare: erano adibiti come altissimo altare del Dio Sole.
Doveva succedere anche qui. Per Osporrái ho indicato la base
in gospo, (g)ospo‘stanziamento’; per questo monte
ribadisco il significato di ‘stanziamento’, cui s’aggiunge il significato già
indicato per Osìdda, che è forma femminile etrusca Usilla per Usìl ‘Sole’.
Quindi Osposìdda significa ‘tempio del Sole’, ‘stanziamento,
luogo dedicato al Sole’.
PALU.
Vai a 3a.
PALU
IRDE o Balu Irde. Vai a Palu, 3a.
PANI
LÓRIGA.
Il toponimo di Santádi sembra un doppio cognome: Pani che
significa ‘pane’ + Lòriga che indicò propriamente l’anello di
ferro accanto alla porta d’ingresso per legarvi le briglie del cavallo. I
toponimi del Sulcis hanno spesso due cognomi, in virtù della vecchia usanza di
connotare ambo i coniugi. Ma se al toponimo vogliamo dare anche la patente di
nobiltà meritata da questo sito strategico contenente importanti vestigia
fenicie, ci sentiamo di proporre la base più consona, l’accadico pānu,
che per i semiti è la ‘faccia, il colore (della faccia)’ e più precisamente la
‘faccia del Sole, di Dio (che sfolgora rossa e incandescente)’. È il greco Πᾶν, anch’esso originariamente
riferito al Sole ed in seguito alla deità dei boschi. In ebraico si diceva penû ’El‘faccia
del Sole, di Dio’. Anche la dea della fertilità e dell’amore, Tanit, era detta Tanit
Panè Baal = ‘Tanit Volto di Baal’, come dire ‘Volto dell’Universo, del
Dio più grande, quello che governa il mondo’. In fenicio p‛n significa
‘volto di…’ e pny ‘davanti a’.
Va da sè che Pani
Lòriga fu, fin da età pre-nuragica, un luogo sacro dove si adorava il
Dio Sole. Pani Lòriga significò, a quei tempi, ‘Corona del
Sole Splendente’.
PISCÁNO.
Il Monte Piscáno in agro di Ardaùli è noto anche per un
nuraghe. Tenendo conto del fatto che i nuraghi erano altari del Dio Sommo
(rappresentato dal Sole), va da sé che Piscáno è un attributo
di Dio medesimo, dall’akk. pišqu, pirqu ‘redenzione’
(di una persona da un pegno o promessa solenne). Vai al lemma Piscu.
PISCU.
C’è il Nuraghe Piscu in agro di Suélli. Tenuto conto del fatto
che i nuraghi erano altari del Dio Sommo (rappresentato dal Sole), va da sé che Piscuè
un attributo di Dio medesimo, dall’akk. pišqu, pirqu ‘redenzione’
(di una persona da un pegno o promessa solenne).
PUTTU
CODÍNU.
Vai a 2a.
ROMANZÉSU è
una località in territorio di Bitti dove c’è un sito nuragico originale, con un
vero anfiteatro shardana, l'unico sinora conosciuto nell'isola, il quale, essendo
allagabile, sembra avesse la vocazione di piscina battesimale.
Il toponimo Su
Romanzésu non ha mai ricevuto traduzione, ma soltanto l'attenzione di
paretimologie che lo rendono equivalente all'it. romantico. In
realtà il toponimo è spia di un antichissimo appellativo accadico rivolto al
Dio Sommo. La base etimologica è Rīmē 'Toro divino' + Anu(m), Annum 'Dio
del Cielo' < sum. an 'cielo'. C'è anche il composto
accadico Rīm-Anum 'Dono di Anu', 'istituire dono ad
Anu'. Con tutta evidenza, il luogo doveva essere dedicato al Dio Sommo del
Cielo.
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=28995 |
RONCA,
Ronco, Ronchi cognome
anche italiano, di origine mediterranea, la cui base etimologica è la stessa
del cognome sardo Brunco e del comunebruncu, fruncu, runcu indicante
il ‘grugno del maiale’. Ho già trattato quel lemma più su.
ROTTU in
Gallùra è l’aia a fondo lastricato. L’origine del nome è tutto un programma,
dall’assiro rutum, ruttu, rū’ūtu ‘compagno,
socio; amicizia, associazione’. Appare evidente che queste aie circolari
lastricate fossero oggetto di contratti associativi. Erano normalmente situate
lungo le strade nuragiche, in zona franca, e dovevano essere curate e gestite
collettivamente, anche per il carattere sacro annesso alle operazioni della
trebbia, tenute come autentici momenti di festa.
SANTÁDI comune
del Sulcis. Si vuole il toponimo di origine agionimica, corrispondente a Sant’Agata,
perché secondo lo Spano (1882) in carte antiche figurerebbe nella forma Sant’Ada (Carla
Marcato). Ma non convince. In Sardegna abbiamo troppi nomi di sante nati dal
nulla. Questo termine ha forte attinenza coi termini anta (s’anta)
e Antas (vedi). In accadico Antu è la dea del
Cielo, paredra di Anu ‘dio del Cielo’ (OCE 538).
In fenicio è la stessaAštart.
Considerata l’importanza di Santádi nei
culti shardana e fenici (vedi il grande tesoro trovato intatto nella grotta di
Su Benatzu), dobbiamo pensare a Santádicome a un paese che ha per
nome un epiteto sacro.
Possiamo proporre due
etimologie accadiche: la prima è ša Antu adû ‘il
villaggio di Antu leader’; la seconda può essere da sāntu, sāmtu ‘alba’
+ adû‘leader’: sāmt-adû, col significato di ‘Aurora
(nostra) guida’. Si noti che il lemma sāntu, sāmtu ‘alba’
non fu altro che ša Antu ‘quella di Antu, relativa ad Antu’,
ossia proprio l’Aurora, la dèa Antu che si eleva al Cielo).
SANT’ANNA
ARRÉSI comune
del Sulcis. È proposto dal Paulis come derivato dall’antroponimo latino Arn(i)ensis,
mentre la Atzori propende per vederci il campidanese arrési ‘rettile’
o ‘volpe’. Ricordo anzitutto che questo antichissimo villaggio, abbarbicato ad
un nuraghe millenario, è tipicamente agricolo e, come altre volte ho
dimostrato, i villaggi agricoli di pianura prendono nome da funzioni agrarie o
da erbe tipiche o da animali e simili. Osservando il toponimo, leggo in
filigrana una paronomasia creata apposta dai monaci bizantini, noti per la foga
di cancellare ogni e qualsiasi segno delle antiche religioni. Il sito, grazie
proprio al nuraghe accanto al quale è cresciuto l'abitato, doveva essere sacro
al Dio sommo del Cielo, che per i Babilonesi ed i Semiti in generale era Anu, Annum.
In origine il toponimo doveva essere Annum + rīšu 'celebrato,
adorato': ci troviamo così dinanzi al nome + attributo del Dio altissimo.
SANT’ELÌA nome
di varie località, ed anche cognome. È corruzione del cgn Santeddu (vedi),
operata, ovviamente, dai preti bizantini durante la guerra contro le religioni
“pagane”. Infatti Santeddu (in origine Santelìa, Sant’Elìa)
era scritto sāntellu, stato costrutto di sāntu, sāmtu ‘alba’
+ ellu ‘(ritualmente) puro’, col significato di ‘Alba, Aurora
pura, sacra’ (epiteto riferito alla dèa Antu, la paredra del dio Anu (Dio
sommo del Cielo, che rappresentava il dio Sole: infatti il lemma sāntu, sāmtu ‘alba’
non fu altro che ša Antu ‘quella di Antu, relativa ad Antu’,
ossia proprio l’Aurora, la dèa Antu che si eleva al Cielo).
Da tutti i ricercatori è
riconosciuto che il nome personale Elìa mascherò il Dio sommo
del Cielo, ossia il fenicio-ebraico Eli, Elu, che nella
nuova religione cristiana fu degradato a “santo”. Quindi è ovvio che Santelìa, Sant’Elìa può
anche significare ‘Ascesa di Eli’ ossia ‘Ascesa del dio Sole’, ‘il sorgere del
dio Sole’. Sono quindi valide ambo le ipotesi qui fatte, quella di sāntellu e
quella di sāntu Eli, Elu.
SCALA
MUGHÉRES è
un sito del territorio di Ardaùli dove stanno delle domus de janas.
Per approcciare acconciamente l’etimologia occorre sempre ricordare che le domus
de janas furono dei luoghi sacri, sorta di “chiese”, dove i parenti o
l’intera comunità in giorno preciso si recavano a pregare e offrire doni o
sacrifici. In tal guisa, l’etimologia può essere individuata nell’akk. muḫru (un
genere di offerta), o (un genere di preghiera), o (una costruzione cultuale). Scala
Mughères indicò una delle tre cose. Non indicò giammai la ‘scala delle
mogli’ (spagnolismo), che è una paronomasia intervenuta con la conquista
spagnola secondo il seguente processo: muḫru > muhére (diventato
il plurale mujeres in virtù della pluralità degli scavi).
SERRÈLI cognome
per il quale una prima ipotesi etimologica può essere quella di un composto
d'origine accadica, šerru(m) 'bambino', 'discendente' + eliš'come
un dio', col significato complessivo di 'discendenza divina'. Ma un esame più
attento fa propendere per un'origine ugaritico-ebraica: da ṣrry 'altura'
+Ilu 'Dio', ebr. El, col significato complessivo di
'altura di Dio' ossia 'altura dove si adora Dio’, dove c'è un tempio uranico
per onorare il Dio del Cielo.
SICCU. Su
Siccu è il nome d’un litorale oggi inglobato nell’area urbana di
Cagliari, tra il porto militare ed il Canale di Mammarranca (o delle Saline).
Il sito originario doveva stare esattamente alle falde e davanti all’altura
calcarea oggi dominata dalla chiesa catalana di Bonaria (l’attuale sito
pianeggiante ai suoi piedi – Piazza dei Centomila e dintorni – è chiamato Su
Siccu per estensione, essendo stato riempito con le macerie dei
bombardamenti della Seconda Guerra mondiale).
L’origine del toponimo
dovrebbe essere dal bab. sikkum ‘bordo, margine’, da
interpretare come ‘molo, linea regolare di battigia (ai piedi del colle)’: non
a caso vi approdò la flotta d’invasione iberica nel 1323. Va rammentato che ai
tempi dei Fenici questo sito doveva essere poco o punto antropizzato (esclusa
forse l’esistenza di un’area cimiteriale). Se attività c’erano, esse erano al
servizio della vicina salina, per l’ammasso del sale destinato all’imbarco. In
ogni modo lungo il litorale doveva passare una strada che da Karallu (Cagliari)
procedeva a sud transitando per Lapòla (vedi lemma), con
capolinea al tempio diVenus Ericina sul Capo S.Elia.
Venus
Erycina (la
Venere o Astarte di Erice) godette d’un culto molto esteso, tanto ch’era
adorata persino a Cartagine, esattamente a Sicca Veneria, borgo
fondato dai Siciliani alla sommità d’un rilievo alto 770 m presso la casbah di
El Kef, da cui proviene una statua di Venere. «Il culto africano di Venus
Erycina è documentato specialmente nella narrazione di Eliano relativa
al trasferimento della Dea di Erice per nove giorni ogni anno, in Africa, e del
suo ritorno in Sicilia. Valerio Massimo aggiunge la notizia della prostituzione
sacra a Sicca Veneria»5. «Anche per la Sardegna dobbiamo ammettere
una derivazione siciliana, mediata dai Punici, del culto dell’Erycina,
documentato in modo diretto in una iscrizione punica di Carales. Il tempio di
Aštart ericina di Carales venne scoperto nel 1870 da Filippo
Nissardi alla sommità del promontorio di S.Elia… presso la torre omonima.
All’interno [del tempio ridotto alle fondazioni] era applicata una lastra in
calcare frammentata, con iscrizione dedicatoria ad Aštart Ericina, in punico».
«Le dimensioni ridotte dell’epigrafe denunziano evidentemente il carattere
privato del voto, secondo il modulo noto ad esempio nel tempio di S.Nicolò
Gerrei (Cagliari) dove un Cleon salari(us) soc(iorum) s(ervus) dedit
Aescolapio Merre un altare in bronzo» (Zucca: idem).
Sono grato a Raimondo Zucca
delle preziose note, ed altrettanto grato all’archeologa Carmen Locci che me le
ha fornite ed illustrate. Ciò mi consente d’ipotizzare, a sud di Karallu,
un terzo sito di prostituzione sacra, oltre a quello di Lapòla e
di Capo S.Elìa, un sito incastonato probabilmente dove fu poi
edificata la chiesa catalana di Bonaria. Non dovrebbe meravigliare più di tanto
una pletora di lupanari in quel di Karallu, considerato che,
intanto, tutte le donne dovevano prostituirsi almeno una volta prima di
convolare a nozze.
Mi è forza insistere sulla
tesi del terzo lupanare, non tanto e non solo per la ripetizione in terra sarda
di un toponimo (Siccu) pressoché identico a quello del territorio
cartaginese (Sicca), ma perché ancora oggi in Sardegna sopravvive un
gesto “volgare” chiamato proprio sicca (altrove ficca)
o meglio, al plurale,siccas, ficcas. Il gesto si fa
infilando il dito pollice tra l’indice e il medio, stringendo il pugno (anzi i
due pugni, per raddoppiare l’effetto) e puntando lesiccas contro la
persona interessata, o contro il cielo in segno di maledizione.
Per la verità, le siccas non
sono sempre dei gesti maledicenti: oggi spesso lo sono, ma ancora più spesso
sono apotropaici, un tempo dovevano essere soltanto segni apotropaici. Ciò
dimostra che, dopo quasi duemila anni, il popolo, redarguito dal clero
cristiano, è ancora indeciso sulla finalità delle siccas. Dobbiamo
ricordare che, nella ritualità antico-romana e mediterranea in generale, fare
la sicca e toccarsi con essa la fronte (meglio:
fronte-bocca-petto, proprio come oggi si fa il triplice segno della croce) era
un gesto propiziatorio rivolto – al solito – alla divinità che sovrintende alla
fertilità ed alla vita sul pianeta.
Che la sicca indicasse,
schematicamente, un organo sessuale, è chiaro. Va chiarito quale. La sicca è
fatta principalmente dalle donne. Poiché gli uomini – oggi ed anche in epoca
romana – usano ed usavano fare lo stesso gesto con altre dita (il medio dritto
e tutte le altre dita piegate, in modo che risalti lo schema d’un pene eretto),
è chiaro che le donne con la sicca intendevano esprimere la vulva,
dove il pollice appena emergente dal pugno indica il clitoride ch’emerge dalle grandi
labbra.
Questo stupefacente impasto
di gesto, di toponimo, di storia sacra mediterranea è una interessante
sopravvivenza che il clero cristiano è riuscito (non del tutto) a cancellare.
Sembra ovvio che la Sicca in epoca cartaginese rappresentasse
simbolicamente, per tutto il popolo sardo, proprio il culto di Aštart d’Erice.
Infatti la sicca/ficca sopravvive ancora oggi in tutta la
Sardegna.
Tutto questa disamina non
deve far dimenticare che nella Sardegna interna vige ancora oggi, con lo stesso
significato, il termine friscas, dove si scorgono dei significati
convergenti con quelli qui esaminati. La base etimologica di friscas è
l’akk. per’u, perḫu ‘bud,
shoot, gemma, germoglio’, scion, rampollo, descendant’ + isḫu(m)
‘assegnazione’, ‘offerta’. I due termini accadici, uniti in stato costrutto e
soggetti a metatesi, sembrano dipingere un quadro tenebroso per noi moderni: per’-isḫu > fr-isca sembrerebbe
interpretabile come ‘assegnazione, destinazione (del primogenito: bud, shoot,
scion) alla divinità’. Ma potrebbe essere interpretato anche come ‘offerta
delle primizie’ (della terra).
SIGHIÁNZU è
un nuraghe in agro di Ardaùli. Il termine sembra uno stato costrutto accadico,
esattamente un termine sacro, un epiteto legato al fatto che il nuraghe fu
l’altare del Dio Sommo (nella figura del Dio Sole). Sighiánzu potrebbe
essere scomposto nell’akk. sīḫu ‘detenzione,
cattività’ o siki ‘pelliccia, piumaggio (d’animale) + Anzû ‘aquila
con testa leonina’: stato costrutto sīḫi-Anzû,
col significato di ‘detenzione di Anzu’ oppure siki-Anzu ‘piumaggio
di Anzu’. Anzu, originaria aquila-araldo di Ningirsu che era
patrono della città sumerica di Lagash, fu talvolta identificato con lo stesso
dio. In altri momenti vediamo che Enki, dio della sapienza e delle arti,
raccomanda il mostro Anzu al servizio di Enlil (figlio di An,
arcaico dio dell’aria).
Un’altra etimologia di Sighianzu può
essere dal sum. sigḫi (una dèa delle
nascite) + an ‘cielo’ + zu ‘conoscenza’, col
significato di ‘dea che genera la conoscenza’, oppure sigḫi-Anzu col
significato di ‘Madre di Anzu’.
Per una maggiore conoscenza
di Anzu, preciso che Imdugud o Im.dug.ud.mušen è
probabilmente il modo corretto con cui i Sumeri chiamavano questa creatura
terrificante. Il suo equivalente in accadico è An-zu-u.
L'origine e il significato
del nome della creatura sono ancora praticamente sconosciuti. È certo che con Anzu, Anzud veniva
identificato un uccello rapace gigantesco che gli stessi Sumeri immaginavano
simile alla fitta e spessa nube che ricopre il cielo annunciando l'arrivo di un
uragano. Il suo volto e la sua testa sono come quelli di un giovane leone, le
sue ali d'aquila gigantesche agitandosi provocano turbini e tempeste di sabbia.
La combinazione di parti di più animali letali (leoni, serpenti,
scorpioni,aquile) nell'iconografia mesopotamica solitamente veniva adoperata
per indicare una manifestazione demoniaca che, come già descritto, era ritenuta
pericolosa ma non necessariamente malvagia. Infatti l'immagine di Anzu è
stata ritrovata in numerosi manufatti, anche di tipo cultuale, fin dal periodo
sumero più antico. In tali raffigurazioni lo vediamo sia come
"predatore" che come "protettore". Diffusa è inoltre la sua
presenza nei testi letterali come "Lugalbanda e Enmerkar" e il
"Mito di Anzu e le Tavolette dei Destini". Nel primo componimento,
Lugalbanda stesso, conscio della potenza di tale essere, se lo rende amico
donandogli del cibo e promettendogli la costituzione di un culto in suo onore.
In cambio la creatura divina lo ricompensa con poteri sovrannaturali. Nel
secondo poema, molto più famoso e interessante, Anzu, dapprima al
servizio di Enlil, sovrano degli Dei, lo tradisce rubandogli le insegne
talismaniche dell'Autorità Suprema, le Tavolette dei Destini. Tale evento
provoca un collasso dell'andamento cosmico, dell'ordine universale. Il racconto
si conclude con l'intervento di Ninurta che sconfigge Anzu,
recupera le preziose tavolette e riporta così l'ordine al mondo.
SIRIMÁGUS.
Il Monte Sirimágus, in agro di Carbònia, fu ritenuto l’abitazione
del Diavolo. Vietato portarci le greggi, andare a far legna, avviare
coltivazioni. Sta al centro di un triangolo tabuico nell’area collinare tra
Carbònia, Tratalìas e Perdáxius. Soltanto le pendici del Monte fanno eccezione,
grazie alle sorgenti. L’area è meglio nota come Sa schìna de s’Ifférru ‘la
schiena dell’Inferno’. Si dice però (ecco il fatto illuminante) che fino a
circa 400 anni fa il Monte fosse meta di pellegrinaggi cristiani: ai canonici
che ci avevano eretto una chiesa si portavano cibi e doni. Qualcosa andò
storto, e la zona divenne off-limits. Sino a poco tempo fa, le vecchie dicevano
che chi si avventurava rischiava di venire schiacciato da massi rotolanti.
La memoria della gestione
pretesca delle processioni riguarda, a quanto pare, la volontà della Chiesa
cattolica di controllare certe processioni paganeggianti. Che poi tale
controllo sia cessato con l’avanzare dell’Inquisizione e della Controriforma,
fu soltanto perché si preferì rendere maledetto il sito. Queste notizie,
estrapolate da pag. 39 de L’Unione Sarda del 16 luglio 2006
(articolo di Andrea Scano), aprono uno squarcio sui processi di dominio della
Chiesa, operati sino ad epoche recenti, considerate le varie tendenze
paganeggianti ancora presenti nelle tradizioni popolari.
Il mistero di quelle
processioni pagane e della loro logica intrinseca può essere chiarito soltanto
con l’indagine etimologica, mediante la quale si capisce cheSirimágus è
un composto sardiano con base nell’akk. ṣīru(m)
‘esaltato, supremo, splendido’ di un dìo + maḫû(m)
‘delirare, diventare frenetici’. Si capisce allora che il Dìo venerato sul
Monte era il dio della Natura, destinatario delle processioni bacchiche e
orgiastiche mirate alla rigenerazione.
SPINELLI cognome
di area italiana avente a base il cgn Spina, che è un composto
avente la base nell’akk. sippu(m) ‘contrafforte, sperone’
delle mura cittadine + īnu ‘punto di vedetta’ (letteralmente:
‘foro per spiare’), col significato complessivo di ‘contrafforte di guardia’.
La sua trasformazione fonetica passa per lo stato-costrutto sipp-inu > s’ippìna (inteso
poi come ‘la spina’) > spina. Quindi in Sardegna Bruncu
Spina (la vetta gemella di Punta la Marmora nel Gennargentu) risulta
essere una tautologia che indica lo stesso fenomeno. Nel caso di Spinelli,
al cgn Spina è stato apposto il suffisso -élli che
denota qualcosa di sacro, di rituale, dall’akk. ellu ‘sacro,
ritualmente puro’. Il significato di Spinelli fu, dunque,
‘vetta sacra’, ‘altura sacra’.
TÀNGARI cognome
in Oristano ma di area italiana, che non corrisponde al sostantivo offensivo tàngaro, tànghero,
come invece propone Pittau DCS. A mio avviso, la base è accadica,
da dânu, diānum ‘dare giustizia’, ‘esercitare la
giustizia’ + ḫarû ‘santuario’, col significato di
‘santuario dove si amministra la giustizia’.
URPÌDA. Pardu
Urpìda è un prato alquanto vasto e molto umido, che sta alla base
della falesia trachitica sotto l’abitato di Ardaùli, nella quale sono state
scavate delle domus de janas. Urpìda non ha alcuna
attinenza col sardo ùrbidu, che invece è un ‘viottolo stretto e
ingombro di selva’, una ‘forra’, spesso con rocce alte che la delimitano.
Il lemma Urpìda può
avere attinenza con la sacralità del sito, nel quale forse il popolo si riuniva
in preghiera davanti al tempio rappresentato dalle domus de janas.
Se l’ipotesi è congrua, la base etimologica starebbe nell’akk. urû ‘scodella,
conca’ + pīdu ‘perdono, indulgenza’: stato costrutto ur-pīdu col
significato di ‘valle, conca delle indulgenze’.
UTA.
Vaia 3f.
VALVERDE. È
paronomasia di Palu Irde, Balu Irde. Per la discussione
vai a Palu, 3a.
VILLA
CLARA.
Oggi il poggio calcareo dove sta la facoltà di Lettere è inglobato nell’abitato
di Cagliari. Lo possiamo tradurre come Villa Claro, dandole il nome
giudicale del sito di S.Chiara a Balláo. Anche la chiesa di
santa Chiara a Cagliari era situata in una scarpata calcarea, esattamente come
a Villa Clara. In quel di Balláo si pensa esistesse un tempio ad
Apollo Clario, ch’era un Apollo oracolare come l’Apollo Pitio, ma
proveniente dall’Anatolia. Meloni (398) dà qualche chiarimento al riguardo. «Un
certo interesse nella storia delle istituzioni religiose sarde riveste
l’iscrizione rinvenuta fra le rovine della chiesetta di S.Nicola presso Villa
S.Pietro di Pula e da riportare, quindi, a Nora, con una dedica “Agli Dèi e
alle Dee secondo l’interpretazione dell’oracolo di Apollo Clario”: Dis
Deabusque secundum interpretationem oracoli Clari Apollinis. La stessa
dedica è attestata in altre quattro province dell’impero, in Britannia (ove il
dedicante è una coorte ausiliaria di stanza nell’isola), in Dalmazia ed in
Africa, nella Numidia e nella Mauretania Tingitana. Tutte e cinque le
iscrizioni vengono ritenute coeve e, sulla base del nome della coorte di
Britannia ( la I Tungrorum), datate fra la fine del II e l’inizio
del III secolo d.C.; inoltre, poiché solo un’alta autorità poteva dare
disposizioni per porre questa dedica in province dell’impero tanto distanti fra
loro, si è pensato allo stesso imperatore Settimio Severo (193-211) o,
preferibilmente, al figlio Caracalla fra il 213 e il 214. L’oracolo Clario era
quello di Claro, una località della Lidia, nella costa occidentale
dell’Asia Minore, ed è probabile che i dedicanti fossero sempre reparti
militari. Il culto di Apollo sembra attestato in Sardegna per Carales dal
riferimento di una «Via Sacra detta di Apollo» – per Sacram Viam quae
dicebatur Apollinis – che si trova nella Passione di S.Saturno, se si
accetta la storicità della notizia».
Dopo questa dotta
presentazione, notiamo che l’etimologia del lat. clārus ‘luminoso,
famoso’ si basa sull’akk. qalûm ‘ardere, raffinare’, qālû ‘acceso’
(OCE II 368). Si deve pensare che in origine questi toponimi e le
loro località riguardassero il culto del Dio Sole.
VILLAGRANDE
STRISÁILI comune
dell’Ogliastra. È diviso in due villaggi, Villagrande S. e Villanova
S.; il secondo toponimo è un’evidente derivazione dal primo, per una
suddivisione insediativa resa necessaria al fine di gestire più correttamente i
terreni migliori e più estesi, che sono gli alti-pascoli arborati.
Il secondo lemma del
toponimo apparve già nel RDSard. a. 1341 come Strissayli,
poi Strisaili. L’abitato giace in una pianura montana su
granodioriti tonalitiche, con suoli buoni per la semina dell’orzo. Oggi il
villaggio, che sta vicino al lago alto del Flumendosa, è vocato al pascolo, ed
infatti il territorio è tutto un pascolo arborato. L’appellativo Strisáili,
antichissimo, deriva sicuramente dal fatto che l’ondulato altipiano,
ricchissimo di pascoli e d’acque (ci nasce persino il fiume più potente
dell’isola, il Flumendosa), fu ritenuto un autentico dono di Dio, e così
nominato, dal babilonese šitrau ‘splendidissimo, superbissimo
(epiteto di dei)’ + ilu ‘Dio’, su cui fu in seguito operata la
classica metatesi. Strisaili (da Šitrai-ilu >
*Štrisai-ilu) significa dunque ‘Dio splendidissimo’.
1 Salvatore Dedola, La toponomastica in Sardegna, Grafica del Parteolla, 2012
2 Per la cui etimologia vai a Salvatore Dedola, La Flora della Sardegna
3 Maschere, Miti e Feste della Sardegna 60 sgg
5 Raimondo Zucca 771-779: L’Africa romana VI. Atti del VI convegno di studio, Sassari, 16-18 dicembre 1998 – Edizione Gallizzi, Sassari, 1999
6 Si trova invece ne I Cognomi della Sardegna, di Salvatore Dedola
7 Dragunàia, tragunàia sassar. 'corrente d'acqua sotterranea', 'grossa vena d'acqua nascosta'. L'etimologia ha la base nell'akk. turku 'dark making' + nāru 'river'. Significa quindi, allora come oggi, 'fiume sotterraneo, fiume delle tenebre'.
8 Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù 31
9 Angela Demontis, Il Popolo di bronzo 40-41, 46
10 Vedi Angela Demontis, Il Popolo di bronzo 51
11 Enuma Elish, Tavola I, vv. 156-160; Tavola II, vv. 34-48
12 Carta’s Illustrated Encyclopedia of the Holy Temple in Jerusalem, p. 87
13 Idem, p. 88
14 Raimondo Zucca 771-779: L’Africa romana VI. Atti del VI convegno di studio, Sassari, 16-18 dic. 1998 – ed. Gallizzi, Sassari, 1999
15 Da Wikipedia
16 Natalino Piras, La Sardegna e i Sortilegi, 147-149
17 Ambrogio Donini, Breve storia delle religioni 156
18 Francesco Enna, La Sardegna dei Sortilegi, 98
19 Sistema Linguistico della Civiltà Nuragica 302
20 Maschere, miti e feste della Sardegna 101
21 Plutarco, de Pythiae oraculis 21, 404d
22 Diz. etim. comparato di Sanscrito-Greco-Latino, p. 428, ed. Palombi, 2010
23 Vedi anche Mura SIFN 342
24 Lo sciamanesimo in Sardegna 15
25 Lo sciamanesimo in Sardegna 48-64
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